Andrea Ponso
Andrea Ponso

Ho bisogno di parole così secche e precise, i ciottoli poco prima del deserto: la lettera ebraica, aspra, consonantica e basta; dove il verbo essere non esiste e dove ogni concetto è un’azione e non un concetto. Una parola/cosa: davar. Che la scrittura fosse il ricordare improvvisamente come si allacciano le scarpe, dice Simic. Ma che sia anche capace di piantare un chiodo nella polpa del legno e cavarlo via con la stessa forza; che sappia ingravidare una terra di mestruo di latte e miele, come quella verso cui punta l’Esodo; e Mosè, circonciso di labbra, che balbetta e si espone lo stesso – e che quelle labbra insicure verranno poi  baciate da Dio donando la morte al più grande dei profeti, che non arriva alla terra promessa. Perché per un ebreo la vita/nefesh è tutta nella gola: da lì passa la parola, il respiro/ruah, e il cibo: tutto ciò che è essenziale. Perché la parola è anche indissolubilmente hevèl: fumo, spreco – e perché hevèl è il nome di Abele e i suoi sangui/generazioni future gridano dalla terra. Perché tutto quel fumo/hevèl si veda in quanto tale, ma si veda e non venga cancellato – perché  vanità, nel libro di Qohèlet, è traduzione aberrante, moralistica, sbagliata. Perché una donna mi baci con i baci della sua bocca. Perché sto traducendo una carne in parola e spero che qualcuno vorrà rovesciare i miei ferri e renderli inutilizzabili da per sempre. Perché ho sete e fame e amore, e non voglio altro. Perché sono vivo. Perché la mano di lebbra guarisce solo se tutto il corpo, nessuna parte esclusa, è contagiato. Perché vorrei essere all’altezza di tutto questo, e non lo sono. Perché i veri salmi sono silenziosi, dentro la scrittura, perché è l’uomo e non la parola che si fa preghiera, anche indipendentemente da Dio. Tra il massacro e l’amanuense.

(l’EstroVerso Settembre – Ottobre 2011)

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