Dal flusso incalzante, selvatico e cerebrale a un tempo di Varco di respiro (Campanotto, 2013) Elio Grasso segna un nuovo passo con Lo sperpero degli astri (Macabor, 2018), titolo sagittale che traduce appieno il suono/senso del libro, allusione sia alla materia luminosa da cui originiamo (di cui siamo composti) che alla dissipazione dei destini. È una poesia che traccia una sorta di consuntivo tra esistenza e linguaggio, una misura (un’altezza) che travalica il precedente poetico e invoca la proiezione dei numeri (91 testi, quanti i giorni di una stagione, distribuiti in due sezioni) e la protezione di un testo sapienziale come il Salmo 91 (dalla nota in chiusura).
“Dunque so l’impreparato vivere / smanioso di mancata fama, / pur odiando le schiere / che intrattenevano / i suoi vapori.” (Or donna assente, 1), ecco una prima presa di posizione di Grasso, poeta e critico eretico, votato a libero pensiero e consapevole dazio di marginalità (punto già messo a fuoco dall’intenso viatico al libro di Anna Ruchat). La temperie poetica è costituita da un folto di libri e dizioni sulla scrittura, figure di donna con un portato di sensualità e intelletto, una storia vissuta tra contese e ideali il cui lascito sembra disperso, e a tenere tutto insieme paesaggi fitti di vegetazione ed evocazioni marine in grado di arginare e risanare le molte sconfitte dell’esistenza, “Non ci sono stati / colori questo inverno, / la costa ligure ne ha devoluti / a colline rivoltose / credendoli pensieri / dispersi in libri postumi. / […] / Lì dentro sono finite / attraenti contese, calze / abbassate e lo scenico / carnale innamoramento.” (Non ci sono stati, 38).
Il tono è meno aspro che dolente, si esercita una sorta di incantamento, là dove una cadenza, un ritmo interno avvolge in spire sonore, che pure aprono squarci di chiarezza non usuali. Attraverso tali aperture si insinua, quasi suo malgrado, una commozione che racconta l’esito di una sopraggiunta, forse inattesa, visione. La durezza non manca, ma il “ligure mare”, che più e più volte ricorre come un amuleto nel corpo poetico, insieme ad altri elementi di natura dei luoghi, appare al momento opportuno a stemperare. S’innesta per altro, sin dal titolo della seconda sezione, Nell’orbita di Nettuno, l’intendimento di legare cielo e terra, convocate sotto l’egida del dio del mare le forze che governano uomini e pianeti. L’impulso comunicativo è possente, a sostegno interviene un linguaggio sontuoso, a volte ellittico ma non impenetrabile, che dispone all’incontro di versi memorabili: “e in ogni rugiada la cenere / gareggia con la polvere.” (Ai monti instabili, 81).
Su tale piano di agnizione si colloca uno dei testi cruciali, versi che attirano temi e motivi dell’intero organismo in un solo dire: “Fra gli anelli non sta / la misura del male, ma nella / sua impossibilità di parola / questa terra è narrativa, / travolta dal ligure mare / e come trasvolando / alle spalle del lustro / i tempi di fermano, fra sonno / e veglia Nettuno si fa / immensa realtà senza offesa / perché la vita è certa e ingegnosa / macchina di fortezza.” (Fra gli anelli non sta, 80). Non che il mondo sia diventato degno, piuttosto è il sentire che si solleva dall’insegna terreste e si volge a considerare la vicenda umana, fitta dei consueti alterchi e altalene amorose, con una distanza che è saggezza.
18.
Preme l’acqua ligure
alle coste, erode i cammini
smaniosi fintanto che
la rossa lucertola
migra oltre il passo
contro la sua solitudine
d’essere, stralunata –
mi saluta per sempre.
Riassumo l’ascesa
e svendo all’incanto
tutti i corpo a corpo,
sciolgo i numerosi lacci
della libreria e stordisco
le svanite gratitudini
già un tempo svanite di sé.
25.
Provo il ritorno dei colori,
mancando alle stagioni
la condotta dei rovi
e il legittimo chiarore dell’aurora.
Riassumo il respiro
del profittevole addio,
lasciando che l’atroce verde
scoraggi ogni giorno.
I santi pianeti esterni
faranno il resto.
42.
Gli astuti solitari
vegliano sui confini,
ammirevoli confermano
antenati e la falsa
ripetizione delle albe
inaugurando ogni pagina
come il presente cagionevole
dell’inverno.
Predestinati delle opere,
virtuosi di una stagione
che più non esiste.
45.
Appreso il verbo,
non resta che rendersi
insepolti,
tenuti in filosofica fermezza
durante l’andatura
e durante il sonno.
Compilare nuovi libri
ha della ragione
il fulgore albale
e tutta la senziente ripetizione
del corpo avvinto
all’altro, dove per altro
s’intende la vetusta ostilità.
56.
Di ritorno dai fossi,
dopo il periplo della sordità
e sotto il nero vento
per un dio, lo stupido
senso umano avvolto
in senilità prima dell’infanzia.
Dovrebbero continuare
uscendo dai quattro angoli
del mondo per entrare
nell’orbita di Nettuno
scordando il mercato
delle carni al fondo della schiena.
In questo foglio Cassandra
ancora si affaccia alla terrazza
del decennio –
la guerra non è finita.
64.
Lontano dal possesso,
al lume del mare esistono
fogliami e tremori sopra
il nutrimento dell’onda.
Si resta per collidere
in epoca di sepolcri davanti
ai ripidi, e ogni strofa
non rinuncia alla tana.
Di scudo ha denti spezzati,
e insorge tuttavia
nell’arsura dei villani arti.
84.
Agli esordi transita
senza esser prodigio,
oscuro per sempre
nell’incompiuto –
finalmente la memoria
increspa l’orizzonte
ed è un balzo il passaggio
all’abside del testimone.
Credo che lacerarsi
per l’investitura
sia un riordino della rosa.