Franca Mancinelli, “la vita è una lingua: attraverso ciò che ci accade, qualcosa ci parla, cerca di entrare in contatto con noi”.

Un “canto” polisemico, come «nel chiarore d’inizio», un inno all’emancipazione dal visibile («Cammino, la nuca protetta/ dai miei custodi, liberato lo sguardo/ dalla gabbia degli occhi»), al ricongiungimento («Non credo ai muri divisori. Chiudo gli occhi, e attraverso l’immagine»), al contatto («ritorno, ascolto l’aria»), alla vita che non decede («Lo chiami ‘abbandono’, prova a riconoscerlo come ‘restituzione’»). È il “canto” di Franca Mancinelli (nella foto di Dino Ignani), in “Tutti gli occhi che ho aperto”, volume pubblicato da “Marcos y Marcos” nella collana di “Le ali” diretta da Fabio Pusterla che introduce: «Queste poesie nascono da un’urgenza tangibile che non si fa mai aperta confessione: urgenza privata, biografica, e urgenza etica, sempre riferita alle zone più fragili, più terribili della nostra vita».

“Tutti gli occhi che ho aperto”? Perché questo titolo? (lo chiedo per i lettori, come non avessi letto il libro, bellissimi tutti i tuoi versi verticali, sento miei quelli a pag. 79).

È un titolo che mi è stato donato da un albero, uno dei miei “alberi maestri”. «Tutti gli occhi che ho aperto / sono i rami che ho perso»: ho sentito questa voce mentre guardavo il suo tronco molto segnato, molto ferito. Eppure era riuscito a crescere e a aprire la sua chioma in alto, in uno spazio di luce. Questo è stato l’insegnamento che ho portato con me da un giorno di cammino nei boschi dell’Appennino. Ero anch’io internamente molto franta, e quella voce è arrivata come una risposta al dolore che mi tormentava. In questo libro poi torna spessissimo l’immagine di occhi che si aprono, o si chiudono. E forse c’è, rispetto ai miei libri precedenti, un rapporto più diretto con una realtà plurale, che accade attraverso diversi soggetti: una donna migrante al confine tra Serbia e Croazia, gli alberi, antiche statuette votive, la santa protettrice della luce e della vista, e poi un diario di viaggio che nel finale ci riconduce nei Balcani, lungo la rotta dei migranti. I miei due ultimi libri, Pasta madre e Libretto di transito, si aprivano e chiudevano nel sonno: uno stato di sospensione, di attesa di una metamorfosi. In questo nuovo libro gli occhi sono aperti, o per lo meno cercano di esserlo, anche se è doloroso come riconoscere una ferita, una perdita. La poesia che citi apre la sequenza 13 dicembre, nata raccogliendo polveri e rifrazioni di immagini dalla vita di Santa Lucia, dai tanti dipinti che le sono dedicati e in particolare dalla pala di Lorenzo Lotto che è conservata a Jesi. Nella predella centrale, Lucia di fronte al magistrato che sta per condannarla, alza un dito al cielo come indicando l’origine della sua forza e insieme connettendosi con questa fonte nel momento drammatico che segna l’inizio del suo martirio. Poi la vediamo legata a file di buoi, nel tentativo vano di spostarla, di trascinarla via. In questa giovane donna ho sentito la forza originaria, inerme, che non può essere uccisa, non può piegarsi al potere del mondo. Da queste immagini sono nati i due versi iniziali: «Tutta la forza del mondo / non sposta un raggio di luce». Ed è ancora così: nonostante i progressi della tecnica, le invenzioni della scienza, non siamo ancora riusciti a spostare o uccidere la luce.

Cosa può la poesia contro l’incapacità di “giungere/ a se stessi”, contro “una terra gelata di confini taglienti e di piccole case rinchiuse in se stesse”?

Credo che la poesia non possa fare altro che accompagnarci e dare testimonianza del nostro tentativo di muovere un passo, di portarci ancora una volta alla fine della giornata, con le nostre mani vuote, le nostre mani che continuano a bussare alle stesse porte chiuse. Se non avessimo questa compagna silenziosa, saremmo completamente persi nella terra gelata, senza la possibilità di trovare un senso, un significato ai nostri gesti. I versi che citi appartengono alla prima poesia di Alberi maestri, la seconda sezione del libro, e a una prosa di Diario di passo, l’ultima sezione, dove raccolgo le immagini di un viaggio balcanico. Ti ringrazio per questo accostamento, perché illumina quello che ho cercato di fare con Tutti gli occhi che ho aperto: ascoltare una stessa ferita, una stessa domanda, lasciandola vibrare attraverso diversi spazi, diversi piani di realtà. Aprire gli occhi e riconoscere la trama invisibile che ci tiene uniti, umani e alberi, pietre e antiche divinità, migranti sulla rotta balcanica e migranti tra le stanze della propria casa. Siamo tutti portati da una stessa corrente, non ce ne rendiamo conto, ma apparteniamo a uno stesso grande stormo, a una stessa presenza, che si è dispersa e fatta plurale, ma che possiamo ancora percepire come unità originaria. 

In che modo la vita diventa linguaggio? La poesia è (anche) la lingua dell’invalicabile?

La vita è una lingua: attraverso ciò che ci accade, qualcosa ci parla, cerca di entrare in contatto con noi. Vivendo siamo scritti e incisi dalle forze che ci attraversano. Il nostro linguaggio non è altro che una traduzione di questa lingua primaria che è la vita stessa. Ci sono cose che ci vengono ripetute dalla nascita alla morte, e non possiamo comprendere; forse non raggiungono le nostre orecchie, ma quelle di altri essere viventi, come gli animali, che sentono in anticipo l’arrivo dei terremoti, degli uragani. La vita diventa linguaggio attraverso una traduzione, e quindi una perdita inevitabile, un sacrificio. In questo esercizio di traduzione sono fondamentali l’ascolto, l’attenzione; quanto più sono nudi, purificati da noi stessi, tanto più restiamo fedeli e vicini all’originale. La nostra pratica della lingua diventa poesia, si fa creazione, quando si confronta con un confine che sembra invalicabile. Mentre le conversazioni, le comunicazioni, nascono in un’area sicura, comoda, dove ci si può intrattenere e confortare, la poesia è l’apertura di una via nella parete di roccia che poco prima sembrava impraticabile.

Qual è o quale dovrebbe essere la lingua ideale della poesia, la forma quanto incide sull’essenzialità e sull’espressività della parola poetica?

Non ci sono modelli ideali in poesia, esiste solo un’esperienza e una pratica di ascolto e di traduzione, e poi la nostra possibilità di riconoscere l’originalità e la forza di una creazione da altre forme di produzione poetica che soddisfano un’esigenza di comunicazione emotiva. Sono scritture che si mantengono entro i confini di un’individualità o, se sembrano parlare per altri, lo fanno restando nell’ambito di un rispecchiamento di emozioni che appartengono alla nostra umanità, spesso così deprivata e negletta, che le basta ritrovarsi, nel tepore della bellezza, per provare un po’ di conforto. Se pensiamo all’arte applicata, possiamo riconoscere che esiste anche una “poesia applicata”: una possibilità di decorazione linguistica, di intrattenimento attraverso le parole. Quando siamo di fronte a una poesia, a un atto creativo, qualcosa di non prevedibile, di non conosciuto, ci chiama: sta accadendo qualcosa che turba la superficie del nostro sguardo, come quando si leva il vento, o si posa una foglia, un insetto, sullo specchio di un lago. Forse la poesia non fa altro che creare una forza che preme contro lo schermo dell’abitudine, aprendo alcune fenditure attraverso cui le cose tornano a farsi presenti, come la prima volta in cui sono affiorate nel nostro campo visuale, quando nei nostri occhi di neonati sono iniziati ad apparire, oltre le ombre, i contorni, le prime sagome amate, i colori. La forma è tutto ciò che possiamo fare, è la custodia che possiamo creare perché la bellezza che la nostra attenzione è riuscita a risvegliare possa resistere, possa continuare a darsi, a trasmettersi, nel tempo.

Immagina di dover dare ai più giovani delle “istruzioni” essenziali per scrivere una poesia, quali daresti?

Le istruzioni fanno pensare a un meccanismo, a un congegno che può o meno funzionare, applicando esattamente ciò che è scritto. Se immaginiamo la poesia come un misterioso strumento, il suo foglietto illustrativo è illeggibile o inaffidabile – è molto probabile che, seguendo quelle che sembrano le istruzioni, questo strumento resti inerte, o risponda soltanto da alcuni dei suoi gangli, tradendo la sua natura. Quando ricevo testi inediti, sia per il blog che curo, Diario di passo, sia per i laboratori di ascolto e di esperienza della parola poetica che ogni tanto conduco, uno dei consigli che do più spesso è quello di concentrarsi su alcune immagini fondamentali e metterle a fuoco. Sono le immagini la fonte delle parole. La poesia traduce e custodisce per noi le immagini guida, le immagini che continuano a parlarci nel tempo. Per portarle alle parole ci aiuta poi il ritmo, il nostro metterci in cammino, il nostro viverle nei gesti della giornata. Se abbiamo delle incertezze, delle esitazioni, troveremo nel nostro corpo la misura, la scansione dei versi. Sarà naturale e nostra come i passi che ci portano a casa, le azioni che ci preparano il pasto. 

La poesia è tale se diventa portatrice di una visione oltreché individuale sovraindividuale? Qual è, per coloro che si stanno avvicinando alla tua poesia, la tua opinione in merito?

Forse alla poesia non chiediamo altro che aprirci gli occhi, donarci un’altra possibilità di visione. Gli occhi degli umani sono, apparentemente, soltanto due, tra le tempie. Ma abbiamo in noi sicuramente anche gli occhi degli alberi che siamo stati, gli occhi degli insetti, quelli degli animali che predano, e quelli dei predati. Sono chiusi, assopiti nel nostro corpo, nelle nostre cellule. Penso a un’immagine ancestrale, quella della spirale che, grazie a un’intuizione di Fabio Pusterla, compare nelle tre pagine bianche di Tutti gli occhi che ho aperto. È come se da un originario punto di visione, continuasse a generarsi un’apertura: occhi germogliano uno dall’altro, proprio come accade quando un sasso infrange uno specchio d’acqua. Da un seme di visione cresce l’albero-occhio aperto con tutta la sua chioma vasta quanto il nostro cielo, e poi ancora, nelle sue ramificazioni nel cosmo. A questa crescita dello sguardo ci guida la parola poetica che vede il senza fine e il senza confine anche in un sasso raccolto per strada. Questo movimento di espansione, questo costante andare oltre i nostri contorni umani, con le loro vicende, ha una potente azione terapeutica: discioglie il dolore, lo libera in uno spazio così vasto che sembra dissolversi. È questa la grande rivoluzione della poesia: ci riconduce tra le braccia di ciò che abbiamo temuto e allontanato con tutte le nostre forze, ci riconsegna ciò che abbiamo amato e perduto, ciò che credevamo andato per sempre: «uno sguardo dall’alto ricongiunge tutti quelli che sono divisi» scrive Hugo von Hofmannsthal con una nitidezza che commuove. Con le sue parole, saliamo sopra le nostre teste (oltre questo corpo che soffre, ha sonno, fame, cerca amore), sopra la nostra città (siamo vicini di casa, non ci sono quartieri), la nostra regione, il nostro paese (non prendiamo più treni, auto, aerei), il nostro continente: vediamo questa sfera che ruota nello spazio, continuare ad allontanarsi, nella vastità, fino a ricongiungersi alla polvere cosmica, fino ad apparirci, come agli occhi di Leopardi “questo oscuro / granel di sabbia, il qual di terra ha nome”.

Qual è stato, ad oggi, il dono più prezioso ricevuto in dono dalla poesia? O se preferisci cosa ti ha restituito?

La poesia stessa è un dono, un dono portatore di innumerevoli altri doni, come una porta, un occhio: ha la qualità dei doni più preziosi, inestimabili. Non si può chiudere in un forziere. Non si riceve una volta per tutte, può andarsene così come è venuto. Assomiglia a un animale selvatico che si avvicina ogni tanto al nostro giardino. Lo avvistiamo inaspettatamente, illuminandoci di gioia e di quella sensazione di chi è stato scelto per ricevere un messaggio: intraducibile se non per minimi segmenti, con la nostra gratitudine imperfetta, con il nostro debito, il nostro restare attenti che permane, vigile, fino al prossimo incontro. A volte, per propiziarlo, lasciamo un po’ di cibo sulla soglia. Il nostro visitatore ritorna. Torna per questo o forse nonostante questo, nonostante il nostro goffo tentativo di addomesticarlo. A un tratto potrebbe ritornare nel folto, immergersi nel fitto dei tronchi, per giorni, per anni, in quel tempo libero da ogni misura, da ogni traccia umana.

Per concludere salutando i nostri lettori, ti invito a scegliere una tua poesia dal libro “Tutti gli occhi che ho aperto” e, nel contempo, ti invito a portarci a ritroso nel tempo, a prima della stesura completa o della prima stesura, per raccontarci quanto “accaduto” così da permetterci di condividere (e meglio comprendere) il percorso che l’ha vista nascere

l’infinito dei morti
espande un’altra galassia.
Il rosso nel buio continua
a sfociare nel mare
dove siamo senza corpo accucciati.

Questa poesia appartiene a Tutti gli occhi che ho aperto, conclude la prima parte della sezione Luminescenze. Non ricordo di preciso la scintilla che l’ha fatta nascere, so solo che stavo lavorando in quel momento al mio dialogo in versi con i testi di alcune poetesse marchigiane del ’300, per il libro Tacete o maschi. Le poetesse marchigiane del ’300 accompagnate dai versi di Mariangela Gualtieri, Antonella Anedda e me, uscito per Argolibri nella primavera-estate del 2020. Mi confrontavo con queste voci di nobildonne scomparse, cancellate per secoli e di recente recuperate come testimonianza della “prima generazione di scrittrici della letteratura italiana” (così Mercedes Arriaga Flórez nell’introduzione). Uno o due mesi dopo saremmo entrati nell’oscura angosciante prigionia del primo lockdown, con il quotidiano anonimo conteggio dei morti. Credo che nell’incipit di questo frammento ci sia in qualche modo il presentimento di quel nero in cui ci saremmo presto trovati. Quando sono tornata a leggere quel frammento che nel frattempo aveva trovato posto in Tutti gli occhi che ho aperto, era più chiara in me la percezione dell’essere circondati da una fitta oscurità densa di morti, di come l’universo stesso fosse un buio popolato dalle polveri degli innumerevoli esseri che ci hanno preceduto: percepivo questa vastità sconfinata che circonda la nostra fragile, tenace, cerchia di vivi. Non ho mai sentito la morte come fine; istintivamente, al di là di ogni definibile credo o dottrina, sento la morte nello stesso movimento, nello stesso ritmo che porta alla vita. Il numero di morti che si accresce di giorno in giorno, questa esperienza che ci arrivava più nitida e forte nel periodo della pandemia, con il suo portato di terrore e di tenebra, nell’universo si traduce in un’apertura, un’espansione: “l’infinito dei morti / espande un’altra galassia”. “Il rosso nel buio” è il colore della vita, il sangue, ma è anche ciò che si vede, a volte, quando a palpebre chiuse, si continua a guardare, tra scie che appaiono e svaniscono: un gioco che facevo da bambina, prima di addormentarmi, e che può ricordare la pratica della meditazione, a cui mi sono avvicinata negli ultimi anni. Con il “mare / dove siamo senza corpo accucciati” torniamo nell’infinito che aveva aperto la poesia. La corrente delle immagini ci ha portato in pochi versi dai morti a questa condizione che richiama in qualche modo la posizione fetale: siamo “accucciati”, ma “senza corpo”, come in uno stato che precede il nostro venire al mondo, o forse, come nel nostro sostare, immersi, oltre le vite.

 

 

(la versione ridotta di questa intervista a cura di Grazia Calanna, è apparsa sul quotidiano LA SICILIA del 30.01.2022, pagina Cultura, rubrica “Ridenti e Fuggitivi”).

 

 

 

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