Franco Loi, «Essere uomo é essere poeta».

Essere uomo e essere poeta, «Vèss òm e vèss puèta… Cum’i can / che bàjen a la lüna per natüra, / per la passiensa de stà lí a scultà…», («Essere uomo e essere poeta… Come i cani / che abbaiano alla luna per natura, / per la pazienza di star lì ad ascoltare…»), sono i versi di apertura di una delle poesie più note di Franco Loi, da Isman, Einaudi. Che cosa significa «essere uomo»? è una domanda cruciale perché rappresenta la scelta (esistenziale) di se stessi come persone buone, oneste, perbene e Franco Loi è diventato ciò che era sviluppando una propria etica che, anche se forzatamente riduttivo, si potrebbe sintetizzare in due polarità: l’adesione alla struttura morale della parola (la parola deve essere vera, appartenere all’esperienza profonda del poeta) e la responsabilità di esserci per l’altro. Pur immerso nei cambiamenti sociali, politici, di quasi un secolo di vita, Loi ha sempre risposto alla domanda dell’altro volgendo la sua attenzione alle persone.

  Chiunque abbia assistito ad un suo incontro può testimoniare come Franco Loi sia il poeta della gente. Nell’eseguire i propri versi – eseguire perché la voce di Loi è una melodia sonora che a volte si trasforma in vero e proprio canto, come ad esempio, nel poema l’Angel (San Marco dei Giustiniani e Mondadori), la canzone popolare «t’amo t’amo sei per me la vita intera» entra prima dei versi: «e pö la Gilda, Sciarlot cun Viuletera, / la Ingrid Bergman, el Uels del Terso uomo, / nüm taccâ dré d’un tram càntum Brasil…» («T’amo, T’amo sei per me la vita, intera… / e poi Gilda, Charlot con la Violetera, / Ingrid Bergman, e Wells nel Terzo Uomo, / noi attaccati dietro i tram cantiamo Brazil…») – lo sguardo di Loi cercava un contatto, un ancoraggio: passando di volto in volto, le parole assumevano la forma di un arco teso oltre le fronti e la sua voce accogliente, ancora, ci chiama. L’ascoltatore diventa il soggetto dell’ispirazione poetica, di quella pulsione a dire e a dirsi, che muove dall’interiorità di Loi per diventare empatia con chi gli è di fronte e ritrova così qualcosa di sé, o meglio, prova nostalgia di sé.

  Una parola d’ordine etico, dunque, che ha nell’«ascolto» la sua alchimia. Decliniamo in tre necessarie variazioni questa affermazione. La prima: «ascolto dell’altro», come fratellanza verso gli esseri umani, per la natura e l’intero mondo, che ci viene addosso con il suo mistero e nella sua bellezza: «Cume me pias el mund! l’aria, el sò fiâ! / j àrbur, l’èrba, el sû, quj câ, i bèj strâd, / la lüna che se sfalsa, l’èrga tra i câ, / me pias el sals del mar, i matt cinâd, / i càlis tra i amîs, i abièss nel vent, / e tücc i ròbb de Diu, anca i munâd, / e i tram che passa, i veder che resplend, […]», («Come mi piace il mondo! l’aria, il suo fiato! / gli alberi, l’erba, il sole, quelle case, le belle strade, / la luna che sempre muta, l’edera tra le case, / mi piace il sapore del mare, le stupidate, / i calici tra gli amici, gli abeti nel vento, / e tutte le cose di Dio, anche le piccolezze, / e i tram che passano, i vetri che risplendono», da Isman).

 La seconda: «ascolto dell’Altro», con l’iniziale «A» maiuscola, per intendere tutti gli altri che vivono all’interno di noi come umanità-in-noi, un “imperativo categorico” che nasce nell’interiorità del poeta e punta verso il bene, portandolo a prendere su di sé una responsabilità essenzialmente di ordine morale verso la propria vita, nell’assunzione di un rispetto per la parola (che, appunto, deve essere vera): «Dent la paròla vèrta mí me pèrdi, / deventi i ròbb del mund, l’aria che passa, / quèla parola che sta dedré de l’aria/ e se fa ciara aj ögg che stan nel temp, / e se mí parli sù no chi l’è’l parlà, / l’è’l vent che parla cul mè d’un sentiment, / ché nient se fa del nient e nel pensà / la vûs che mí me ciama me vègn dent.», («Dentro la parola aperta io mi perdo, / divento le cose del mondo, l’aria che passa, / quella parola che sta dietro l’aria / e si fa chiara agli occhi che stanno nel tempo, / e se io parlo non so chi è il parlare, / è il vento che si dice col mio sentimento, / poiché niente si fa dal niente e nel pensare / la voce che mi chiama mi viene dentro.», da: Isman).

  Infine, la terza: «ascolto» come attenzione ai significati sonori delle parole. Per Franco Loi la poesia mette in tensione l’esperienza della finitezza (il soggetto) con il bisogno di assolutezza. Il suono – inteso come unione tra fonemi e ritmo metrico – è la verità estetica del verso. Dove non c’è suono, non c’è significato poetico, così come dove non c’è esperienza, non c’è necessità. Come amava ricordare lo stesso Loi, Leopardi raccomanda l’ascolto delle persone semplici che, esprimendosi nel loro dialetto, trovano spesso soluzioni sonore nuove per piegare la lingua all’urgenza del loro dire. Voci d’osteria, Mondadori, raccoglie le poesie che Loi ha composto trascrivendo e arrangiando i racconti sentiti nelle osterie, voci depositarie di una saggezza concreta, che nasce sporcandosi le mani nella vita. Loi ripeteva spesso che quando una poesia non “suona” è perché è stata composta  con la testa.

  Si comprende così come la decisione di scrivere in dialetto milanese (con contaminazioni genovesi e colornesi) sia stata anche una scelta di appartenenza del poeta alla classe operaia, agli artigiani, a  tutti coloro che amano il proprio lavoro perché – come Loi spiega – nel farlo, farlo bene, imparano ogni giorno qualcosa di loro stessi e della vita: «e serum nüm, serum class uperara, / nüm serum i scampâ da fam e bumb, / nüm gent de strada, gent fada de morta, / num serum me sbuttî dai fopp del mund», («ed eravamo noi, eravamo classe operaia, / noi eravamo gli scampati alla fame e alle bombe, / noi, gente di strada, gente fatta di morte, / noi eravamo come germinati dalle fosse del mondo» da: L’angel).

  Una antica sapienza, la quale si può riassumere così: l’identità è qualcosa che si fa e non soltanto che si dà, oppure, riprendendo – con una piccola significativa variante – il verso di Loi in apertura: «Essere uomo é essere poeta».

inedito 

Vecchio poeta cieco ascolta…
battono. Colpi alla porta
voci di un antico casato.
Cieco vecchio, poeta amato
tu sai di essere atteso
ma rimani nell’androne di casa.
Tre volte ha bussato
quella parola che sta dietro l’aria
… e si fa chiara ai tuoi occhi.
Come ultima cosa
apri alla sposa che chiama.

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