Franco Loi, “Stròlegh. Teater”. L’intervista al prefatore e poeta Giancarlo Consonni: “fedeltà e invenzione, coppia indispensabile per ritrovare la forza sorgiva della lingua”.

Stròlegh uscí nel 1975 in questa collana, con un’introduzione di Franco Fortini. Era il terzo libro di Loi, ma fu quello che lo proiettò immediatamente, nonostante il suo dialetto milanese spurio, inventivo e non semplice, nella ristretta cerchia dei poeti italiani piú importanti. Tre anni dopo uscí Teater, sempre nella «bianca», ed era un segnale forte perché prima di Loi l’Einaudi aveva pubblicato un secondo libro di un poeta italiano vivente solo in due casi: Montale e Ripellino. Nel 1978, l’anno di Teater, uscí anche l’antologia di Mengaldo Poeti italiani del Novecento, che si concludeva emblematicamente con un’ampia sezione dedicata a Loi, presentato come «la personalità poetica piú potente degli ultimi anni». Una consacrazione che sarebbe stata confermata negli anni successivi da tutta la critica, dal pubblico e dal mondo stesso dei poeti di cui Loi è diventato un punto di riferimento ineludibile. Questi due libri fondamentali, Stròlegh e Teater, non erano piú disponibili da tempo. Li riproponiamo ora uniti in un solo volume, come due ante di uno stesso flusso poematico-teatrale che mette insieme ricordi d’infanzia, realistiche descrizioni di Milano e soprattutto personaggi indimenticabili.

La nostra intervista al curatore, poeta Giancarlo Consonni. 

Un poeta per un poeta, per riproporre, insieme, in un unico volume, “Stròlegh” e “Teater”. Qual è (o quale vuole essere) il significato recondito di questa operazione in un tempo (diciamolo) martoriato dall’assenza di ascolto, quanto da una sempre più diffusa incapacità cognitiva? E, ancora, perché, oggi, leggere poesia, perché leggere questo libro?

Nessun significato recondito. Stròlegh e Teater – i primi due poemetti di Franco Loi, usciti da Einaudi rispettivamente nel 1975 e nel 1978 – erano da tempo esauriti ed era necessario che fossero nuovamente disponibili nelle librerie. Se poi è toccato a me scrivere la prefazione al libro che ora li raccoglie, è tutto merito della casa editrice e di Mauro Bersani che dirige la Collana bianca.

Forse ha contato il fatto che a Loi si devono le prefazioni alle mie prime due raccolte di poesia scritte nel milanese rurale di Verderio: Lumbardia, I Dispari, Milano 1983 e Viridarium, Scheiwiller 1987 (due testi, quelli di Loi, che arrivavano al cuore delle cose).

Detto per inciso, prima del 1982 non conoscevo né Franco Loi né la sua poesia (come non sapevo nulla dei neodialettali). Fu il mio primo editore Lelio Scanavini che ci mise in contatto dopo avergli presentato il dattiloscritto di Lumbardia (voleva il conforto di un intenditore). Così, di Loi, prima ho conosciuto la persona e poi la poesia. Ci siamo frequentati assiduamente per almeno una trentina d’anni in una sorta di convivio poetico di cui facevano parte – oltre a Franco e a sua moglie Silvana Corti – Eugenio (Enio) Tomiolo, Raffaello (Lello) Baldini e sua moglie Lina Moroni, Pablo Luís Avila e Giancarlo Depretis, Stefano Marino, Graziella Tonon (mia moglie) e il sottoscritto. Diversi incontri si tennero a casa nostra e soprattutto a casa di Stefano Marino, splendido anfitrione. In queste occasioni poteva capitare di avere con noi Amedeo Giacomini e Franco Scataglini. Quando poi il convivio aveva luogo nell’abitazione di Avila/Depretis, una presenza fissa erano Cesare Segre e Maria Luisa (Marisa) Meneghetti, sua moglie. In queste occasioni il convivio poteva includere ospiti d’eccezione come Franco Fortini, Vincenzo Consolo, Rafael Alberti e José Saramago.

Non meno memorabili, seppure più rari, gli incontri a casa di Lello e Lina Baldini (indimenticabile, per me, la festa che nel 2003 gli ospiti vollero fare per l’uscita del mio Luí nella Collana bianca).

Mi corre l’obbligo di dire che su molte cose, a cominciare dalla poesia, io e Franco Loi eravamo agli antipodi. I suoi poemetti, Stròlegh, Teater e L’Angel, sono un fiume in piena dove l’eloquio istrionico è intriso di espressionismo, mentre la mia poesia insegue un’essenzialità verticale, quasi romanica (alla Antelami, per intenderci), tanto da far dire a Loi – e non si poteva dire meglio – che, in quello che scrivo, oltre a una laconicità che affonda le radici nel mondo contadino, si avverte la «gioia di un evento che attiene al corpo del mondo prima ancora che al dire di un individuo».

Già in queste differenze si tocca con mano il ruolo della lingua nel farsi della poesia. La lingua non è un puro mezzo, un medium indifferente, ma un universo (semantico, espressivo, sonoro ecc.) che ha potenzialità e limiti peculiari. E regole proprie. E un canto intimo: una musica segreta, che nella poesia diviene percepibile.

Il senso di una poesia è inseparabile da quanto la lingua può mettere in campo – a cominciare dalla musica – nell’evocare mondi e modi di essere al mondo. E tra i disvelamenti di cui la poesia è capace c’è quello di fare da “duca” nella selva misteriosa della lingua.

Quanto alla poesia del primo Loi, siamo di fronte a un’esperienza e a una lezione uniche, non solo nell’ambito della letteratura in dialetto. E questo grazie a una lingua che, se ha la sua base nel milanese, è contraddistinta da una forte componente d’invenzione. Un fatto che non è frutto di una scelta personalistica. E mi spiego. Per Franco Loi la venuta a Milano con la famiglia nel 1937 ha avuto il carattere di una seconda nascita, dopo quella genovese. All’età di 7 anni egli si trovò scaraventato in un mondo popolare dove il milanese, parlata dominante, si intrecciava con i dialetti degli immigrati dal Meridione e dal Veneto, con apporti e contaminazioni che rendevano ancor più plastica e malleabile la lingua orale di base.

Fin dall’adolescenza, un orecchio musicale come quello di Loi venne così catturato dall’incanto di un paesaggio sonoro che negli scambi quotidiani, oltre a essere contrassegnato dal plurilinguismo, vedeva all’opera una lingua connotata da grande libertà espressiva. I luoghi di lavoro, i bar e le osterie, i campetti di calcio e la strada sono stati per Loi una scuola di lingua dove invenzione e trasgressione si tenevano per mano (non senza una buona dose di ironia).

Così quando, dopo un lungo accumulo, quasi alle soglie dei quarant’anni si mette a scrivere di getto, Franco Loi si esprime poeticamente con la medesima libertà in cui era cresciuto. La sua propensione istrionica – peraltro sperimentata spalla a spalla con Dario Fo nel collettivo Nuova Scena, sia pure per un breve periodo – incontra lo spirito popolare di un preciso contesto storico geografico – quello della Milano tra guerra e dopo guerra: una realtà sottoposta a un profondo sconvolgimento di cui il poeta finisce per farsi sublime cantore.

Il risultato è l’irrompere sulla scena letteraria italiana di una poesia civile a cui la lingua contribuisce a conferire l’aura di uno spirito collettivo, eco di quel che resiste dell’anima popolare. Abbiamo così grandi affreschi di una Milano martoriata e dolente e subito attraversata da energie multiformi, tese alla rinascita. Messinscene teatrali in cui si avverte un doppio registro: quello dell’azione corale e quello della personalità dell’autore e del suo travaglio interiore.

Ed ecco che il poeta, nel farsi narratore in scena, accetta di svelarsi per quel che è: un personaggio in cui l’aspirazione a sentimenti puri, a cominciare dall’amore e dall’amicizia si intreccia uno spirito di rivolta (nell’XI secolo Loi sarebbe stato un patarino sui generis, con mistica ed eros a farsi miscela esplosiva).

Così in Stròlegh e Teater possiamo trovare la vita di strada dei ragazzi, come anche le manifestazioni spontanee di gioia e di fratellanza in cui il poeta si trovò immerso nei giorni e nelle settimane successive alla Liberazione, e, insieme, l’invettiva per il tradimento a cui, con il boom economico e i suoi sviluppi, le attese di riscatto sociale sono state disattese.

Qual è l’insegnamento cardine ricevuto “in dono” da “questa” poesia e, se vogliamo, dalla poesia, come dalla “sua” poesia?

Ho parlato di “invenzione” della lingua. In Loi si ripresenta, con ovvie differenze, una modalità di rapportarsi alla lingua che caratterizza i poeti del Dolce stil novo. Come ho cercato di dire, la lingua inventata da Loi non è il frutto di un’operazione di stampo avanguardistico: quella lingua nasce, in larga misura, dall’assunzione di una modalità praticata nel corpo sociale (una realtà in forte trasformazione come quello di Milano dagli anni Trenta agli anni Sessanta). Una volta che l’apprendistato in quello straordinario laboratorio linguistico è giunto alla piena padronanza di una lingua magmatica e incandescente – una padronanza musicale prima che semantica –, Loi può colarla in gran quantità negli stampi che le sue inclinazioni e le sue esperienze personali hanno predisposto e via via approntano.

Ma c’è un’ulteriore ragione che spiega la strada imboccata da Loi. Alle ragioni della libertà linguistica praticata dal popolo, in specie gli immigrati – l’esigenza di farsi capire senza essere dei parlanti “puristi” – si aggiunge quella del poeta, il quale avverte con sofferenza i limiti del dialetto, dove, alla potenza nell’aderire alle cose fa da contrappeso l’incapacità di inoltrarsi in speculazioni che comportino l’uso di concetti astratti. Le due libertà, dosate sapientemente, consentono a Loi di portarsi là dove la sua prova “attorale” può dispiegarsi. Il risultato è l’irrompere sulla scena letteraria di una “voce” inaudita.

Ma, attenzione: nel primo Loi si fa solo più evidente ed esplicito un modo di rapportarsi alla lingua che è proprio della poesia, oserei dire di tutta la poesia. Dove fedeltà e invenzione sono presenze intrecciate, l’una all’altra necessaria: una coppia indispensabile per ritrovare la forza sorgiva della lingua (compito primo della poesia).

Il volume con i versi in dialetto milanese (la lingua di Loi), riporta, in calce ad ogni poesia, la traduzione in lingua italiana. Questa premessa per chiederle: la poesia è realmente traducibile? E, se lo è, è più corretto parlare di traduzione o di reinvenzione, di riscrittura?

Per cominciare mi sembra di poter dire che oggi siamo in grado di guardare con la giusta distanza il fiorire della poesia neodialettale in Italia dal secondo dopoguerra alla fine del secolo. In estrema sintesi, siamo di fronte, io credo, al canto del cigno di una società in via di estinzione (un quadro, esteso e differenziato, di contesti sociali locali). In molta di quella produzione poetica entrano in scena mondi databili trenta quarant’anni prima dei testi che li riguardano (il che infonde a molta poesia neodialettale il carattere di quello che in musica si chiama “oratorio”).

Che ruolo gioca la traduzione in italiano che compare in quasi tutti i libri dei neodialettali? Un ruolo indispensabile: senza la traduzione, molti dei testi sarebbero incomprensibili al di fuori di cerchie ristrette (quelli di Loi, poi, in molti passaggi, sarebbero di fatto comprensibili solo all’autore). Così, se con la traduzione in italiano i poeti neodialettali puntano a mettere il lettore non dialettofono in grado di capire quello che scrivono, nel caso di Loi la traduzione è necessaria per tutti i lettori. E non solo per metterli in condizioni di capire, ma perché si rendano conto delle qualità di questa poesia – la libertà linguistica e l’estro dell’autore – e fin dove esse si spingano. Libertà ed estro che, è bene ricordarlo, non cadono mai nell’arbitrario perché, oltre ad avere come guida l’inventiva popolare, il poeta si avvale di un filtro rigoroso: l’ascolto musicale.

Sulla questione della traduzione è stato detto molto. Sulle autotraduzioni in italiano dei poeti neodialettali ha scritto da par suo Piervincenzo Mengaldo (Come si traducono i poeti dialettali? in «Lingua e stile», XLVII, 2012, pp. 311-42) e a questo testo rinvio.

La poesia è intraducibile perché ogni lingua ha una sua personalità che si perde inevitabilmente nella lingua in cui i testi sono trasposti. Ma la traduzione può avere anche il carattere di una rinascita, sempre che il traduttore (autotraduttore compreso), nell’altra lingua in cui vuole farsi capire, sappia ritrovare la qualità sorgiva della parola.

Per concludere, per salutare i nostri lettori, sceglierebbe dei versi (da Stròlegh e da Teater), spiegandoci, meglio raccontandoci perché li ha scelti, perché li “preferisce”?

Grí San Maternu,
Bianca Maria de semper,
mia edicula, scirossa di cantun,
pulver di òmm che passa e par che stemper
s’inultra al dí luntan che vegn lirun,
sfrûs sass di strâd, umbrius tumbin che ria,
aria de Casurett, scür trani siún,
uh sí, ve tucchi, sí, ve parlaría,
ma quanti vus, quanti respir al vent!
e ’sta manfrina de la fantasia
che per la piassa dansa sciabelent…
E al spiöv di lüs lampiun
saltrella e slisa el futbol di record,
traversa el vent.

III.
Mariuccia,
prim tettin de la mia vita,
malius surris tra i líster di linghér,
tí d’ében,
ögg de fuín, tusetta ’ntiga,
ch’aj sfrang di verd recàmm la teneressa
là, sot un taul, cum’i gatt brasciâ,
tra i scarp di mamm e vegg che sigulava,
là, cum’un fiur azerb che me basàss,
el bel velü de grassia m’inviurava,
a mí, sò bagajett, che tra i suré
cul magher di manin la me strüsava,
e i vus che ghe cercava eren i ser…

Capriccioso-fantastico San Materno, | chiesa di Santa Maria Bianca di sempre, | mia edicola della giornalaia, turbine di polvere agli angoli delle strade, | polvere degli uomini che passano e sembra che stemperata in aria | s’inoltri verso il giorno lontano che viene pigramente, | furtivi sassi delle strade, ombrose condutture che scorrono, | aria di Casoretto, buie osterie da succhiavinacci, | oh sí, vi tocco, sí, parlerei con voi, | ma quante voci diverse, quanti respiri porta il vento! | e questa danza monferrina della fantasia | che per la piazza balla a gambe sciabolanti… | E, allo spiovere delle luci dai lucenti lampioni, | schizza e saltella e rade la strada il gioco del pallone dei ricordi, | l’attraversa il vento.

III. Mariuccia, | prime tettine della mia vita, | malioso sorriso, tra le liste di ferro delle ringhiere, | tu, di ebano, | occhi di faina, bambina antica, | che alle frange sfilacciate dai verdi ricami la tenerezza | là, sotto un tavolo, come i gatti abbracciati, | tra le scarpe delle mamme e delle vecchie che cipolleggiavano, | là, come un fiore acerbo che mi baciasse, | il bel velluto della sua grazia mi offriva come una viola | a me, suo ragazzetto, che tra i solai | col magro delle sue manine mi trascinava | e le voci che ci cercavano erano le sere… |

 

Questi versi tratti da Stròleg, nella prima parte possono dare l’idea della capacità di Franco Loi di restituire un mondo (qui quello del Casoretto, il quartiere dove egli ha vissuto l’adolescenza e la prima giovinezza). Nella seconda parte emerge la sapienza del poeta nel mettere in scena figure e situazioni. Questa Mariuccia non sfigura a fianco della Silvia di Leopardi. Nella successione dei due “quadri”, poi, si ha un saggio dell’abilità e della scioltezza con cui Loi opera i cambi di scena, rimescolando pubblico e privato. Infine già in questi pochi versi si può cogliere come il poeta sappia istituire connessioni mediante un uso personalissimo di aggettivi e avverbi, ottenendo una successione mirabolante di immagini sorprendenti e fulminee.

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