Giancarlo Stoccoro, la poesia ha una valenza rigenerativa, come l’ha il sogno, che non è mai fuga dalla realtà ma “inseguimento appassionato del reale”.

«Pensieri spremuti nelle parole / immagini mute di dolorosi attraversamenti / mutamenti / sconfinamenti // Parole che silenziano e si fanno / cose in sé / concrezioni solide / perfezionamenti // Morte sono le parole / che non si destano / dal loro traguardo». S’intitola “Le parole sono storie” la poesia che abbiamo scelto per introdurvi alla lettura del libro “Consulente del buio” di Giancarlo Stoccoro, edizioni L’Erudita. Poesia come spazio di coscienza, di responsabilità, di sostanza concettuale («Conto le ore / in cui ti sfioro / mancandoti»). Di sezione in sezione, si snoda un lungo percorso espressivo distinto da sottigliezze, addensamenti semantici, intersoggettività, nessi, folgorazioni. «(Primi) tentativi di mettere a nudo il buio, ritrovare la forma che ogni ombra porta con sé». Un libro, come scrive Giovanni Tesio nella nota introduttiva, che «parla del “presente imperfetto”, dell’abisso della fine, dell’annuncio della morte, proprio perché “nessuna morte è semplice”. Ma anche – laicamente – parla di esperienza, di ciò che resta del nostro spazio vitale, del luogo di cui andiamo “indicibilmente” in cerca senza davvero “buscarlo” mai». Nella chiara consapevolezza che «nessuna parola asseconda l’anima vorace», Stoccoro cerca «una stagione primitiva / la corda dell’arco tesa / sul bersaglio sempre vivo», interroga tutti i sentimenti umani planando «nel caos / di un silenzio perfetto». E la parola, «anche quando tace», è l’indizio.

Qual è il ricordo legato alla tua prima poesia?
Malgrado abbia pubblicato la prima silloge (“Il negozio degli affetti”) a cinquant’anni suonati, la poesia mi accompagna fin da quando ero piccolo. Già folgorato da “L’Allegria” e “Il Porto Sepolto” che portai all’esame di terza media, ricordo ancora il momento preciso in cui scrissi “La nave latina”: sui banchi del ginnasio, dopo aver ricevuto un brutto voto in latino, strappai un foglio dal quaderno e nacquero alcuni versi. Poi comprai un taccuino e riscrissi, correggendola più volte, la mia prima poesia. Fu un atto liberatorio e finanche sovversivo, ancor più che consolatorio o di sublimazione che dir si voglia. Ne scrissi altre in quel periodo ma non le conservai, si trattava per lo più di parole a margine: piccoli e incerti, sicuramente goffi, tentativi di autonomia di un sé ancora sottomesso al dettato dei grandi.

Quali i poeti (e, più in generale, gli autori) significativi per la tua formazione?
Lettore onnivoro e disordinato, furono i romanzieri russi (Tolstoj, Dostoevski, Gogol e più tardi Goncarov), di cui la biblioteca paterna era fornitissima, dopo le prime letture per ragazzi, ad appassionarmi. Di poesia in casa ce n’era poca. Mio nonno paterno, professore di filosofia, era una grande amante del Pascoli (che tradusse anche in esperanto) che contrapponeva al detestato Carducci. Mia madre, tedesca, leggeva Mann, Zweig e Checov, qualcosa di Goethe, ma non si è mai avvicinata ai versi di Rilke, Celan o della Bachmann. Gli studi di medicina, più del liceo con l’apprendimento “obbligato” dei classici, mi legarono indissolubilmente alla pozione miracolosa della poesia: Giuseppe Ungaretti non mi abbandona mai, anche quando mi sembra di averlo perso di vista, i suoi versi giorno per giorno tornano a farmi luce e mi redimono. Riconosco il mio debito a Giorgio Caproni che ebbi la fortuna di conoscere: un lavoro di scavo (“nel proprio io”) come quello del minatore, non dissimile dall’archeologo- psicoanalista che da una singola parola riscopre cocci di mondo e cerca di rimetterli insieme. Mi avvicina “la poesia come forma di preghiera” (bellissima definizione e titolo di un saggio di Franca Mancinelli su Carlo Betocchi), i versi nudi che non chiedono di essere vestiti a festa. Visito molte stanze notturne di poeti, anche se inconsapevolmente torno nelle case di quelli in cui ho abitato più a lungo. Non c’è compleanno che non ripassi ai “Millimetri” di Milo De Angelis di cui “Prümma Ancura” vado ancora brevemente a cercare “Le terre gialle” di “Distante un padre”. Spesso mi trovo a camminare senza una meta precisa ma ritrovo Le meraviglie dell’acqua di Maurizio Cucchi e mi ci tuffo con immutato piacere. Antonella Anedda mi riceve nelle sue “Residenze invernali” nelle “Notti di pace occidentale”. Alida Airaghi non mi accoglie sul lago ma nei giorni senza vento mi raggiunge Il silenzio e le voci. Ogni volta che un mio familiare e io stesso ci sottoponiamo a un esame diagnostico strumentale mi torna in mente “Di quando l’età si conta a mesi” di Franco Buffoni. Fra i dialettali amo il ritmo di Franco Loi e Raffaello Baldini, la voce sorprendente di Annalisa Teodorani ne La stasòun dagli amòuri biénchi. Irriconoscente a troppi, i libri di poesia mi raggiungono in un silenzio parlato da pochi occhi. Gli ultimi che ho riscritto leggendo sono “Il prato bianco” di Francesco Scarabicchi, “Aprile di là” di Francesca Serràgnoli e “Io che intanto parlo” di Anna Maria Carpi. Dei poeti tradotti potrei fare un elenco lunghissimo perché spesso si tratta di amori traditi. Aspetto di rileggere Rilke e Mandel’stam, Brodskij e Milosz, mentre Kuno Raeber, splendidamente tradotto da Annarosa Zweifel Azzone, resterà ancora a lungo a fianco del mio letto. I miei autori preferiti in assoluto, irrinunciabili anche in valigia, sono Edmond Jabès e Paul Celan, il primo con le sue interrogazioni sapienziali e aforismatiche, il secondo con “Microliti”, libro incomparabile di frammenti in prosa.

Qual è – nell’arco della giornata – il momento ideale per dedicarsi alla poesia (o, più genericamente, alla scrittura)?
“Sogno poesie di una sola parola” (Caproni), ridotte all’osso e con pochi gemiti; la sala parto può essere ovunque. Non sono e non sono mai stato un fiero cacciatore che resta a lungo appostato dietro un cespuglio in attesa della sua preda, men che meno un “sublimizzatore di professione” (Saba). La poesia, per tornare a Caproni, è “una pura e semplice chance, un azzardo, una intermittente qualità” e può raggiungermi in qualsiasi momento. Anche in piena notte, seppur raramente, mi costringe ad accendere fulmineo la lampada del comodino per appuntarmi i primi versi, legati a un’immagine che ha chiesto con veemenza di venire al mondo. Nel corso degli anni, oltre ad aver sostituito il taccuino con il foglio di appunti digitale del cellulare, ho potuto distinguere due condizioni diverse in cui si manifesta più facilmente una forza travolgente e imperscrutabile che mi scrive quando penso di essere io a farlo. Durante i faticosissimi giorni di studio assiduo prima di un esame universitario particolarmente impegnativo, mi capitava spesso, in occasione di una breve pausa o la sera tardi dopo aver riposto i grossi tomi per la notte, di entrare, quasi senza accorgermi, negli strati più primitivi dell’inconscio. Tra le nozioni e i concetti di cui ero soprassaturo, si facevano strada brevi versi, piccoli nuclei di parole che sempre più vorticosamente emergevano e mi accerchiavano: scrollandomi di dosso tutta la stanchezza accumulata, letteralmente mi rianimavano. Senza saperlo, sperimentavo quell’effetto scuotente di cui ha scritto Leopardi nel suo Zibaldone nei termini di “accrescimento di vitalità”, non solo linguistica ma sensoriale, per me psicosomatica tout court. Una seconda condizione che facilita l’accesso alla “base poetica della mente” (J. Hillman) è legata alla mia professione di psichiatra- psicoterapeuta con una formazione psicodinamica: la stanza d’analisi con i suoi lunghi silenzi, le libere associazioni, l’attenzione fluttuante, la rêverie, favoriscono la “Negative Capability”, già preconizzata da Keats (ovunque si trovino ad andare, gli psicoanalisti scoprono che i poeti vi sono già stati, come riconobbe lo stesso Freud) come fattore fondamentale per chi ambisce a scrivere versi. Non intendo dire che occupo la seduta ad appuntarmi versi ma che quello che succede durante l’incontro, il campo che si crea, il pensiero che prende forma per immagini e che scaturisce, nei momenti più fortunati, come un torrente carsico, non è diverso dal fare poesia. Non trova dimora su un foglio bianco ma neppure richiede il tempo dilazionato di un lettore per stabilire una relazione col mondo: svolge una funzione riparatrice, che salva dalla deriva narcisistica autoreferenziale sempre in agguato per chi affonda da solo nelle acque profonde dell’Es (l’inconscio groddeckiano), consentendo all’Io di divenire “miracolo del Tu” (Jabès). E questa connessione felice, che ho sperimentato sia come paziente che come terapeuta, continua ad accompagnarmi: mi ci aggrappo come una sorta di “corrimano” (Szymborska); mi offre il braccio e muove la mia mano, a volte mi fa afferrare una parola, poi un’altra e un’altra ancora come un bambino le caramelle. Anche se negli ultimi anni il mio rapporto con la scrittura è diventato pressoché quotidiano, non è mai qualcosa di controllabile, mi coglie ancora di sorpresa, a volte mio malgrado mentre sono impegnato in tutt’altro (per esempio alla guida o al cinema o davanti a un piatto caldo cucinato con cura).

Qual è la tua ‘attuale’ spiegazione/definizione di poesia?
Più vicina al miracolo che al mestiere (Blandiana), dono misterioso (Pusterla), frutto di un’epifania (Rosadini) in uno stato prossimo all’orgasmo (Bisutti), la poesia non si accontenta di una seppur benevola definizione. “Poesia questione d’abisso”, afferma perentoriamente Celan! Ciò mi sembra consonante con l’idea groddeckiana (che mi ha suggerito un saggio/antologia, “Poeti e prosatori alla corte dell’Es”, con il contributo di 14 poeti italiani, in uscita in questi giorni per AnimaMundi) che “il poeta raggiunga la massima efficacia quanto più rimane nell’inconscio” (cioè nell’Es). Avere un rapporto privilegiato con questa “entità prodigiosa”, ubiquitaria e totipotente, abbandonandovisi senza esserne travolti, porrebbe le basi per il ποιείν. Condivido appieno le parole di Brodskij (nelle imprescindibili “Conversazioni”) sulla composizione di una poesia: uno “straordinario acceleratore mentale” che consente di creare connessioni e legami inaspettati; il modo in cui la testa del poeta comincia a funzionare è “accoppiare, accoppiare, accoppiare”, per arrivare a scoprire “le dipendenze, le relazioni intrinseche del linguaggio”. La lingua è materiale plastico, ricordava Freud, col quale il poeta non smette di giocare, sorprendendo se stesso ogni volta che la parola torna alla sua fonte originaria: qualcosa di strabiliante che porta allo stupore che si provava da bambini alla scoperta della nominazione degli oggetti. Significativo al riguardo è il recente saggio “La mente orientale” dello psicoanalista Bollas che riconduce la poesia al codice materno, legata, più della prosa, alla presenza di pensieri – madre, cioè a strutture che conservano la modalità comunicativa che deriva dal modo di essere della madre col suo bambino, con forma sintattica più semplice e più vicina al linguaggio orientale. Questo non può essere certo universalizzabile, ma lo sento molto vicino al mio dettato. “Abbiamo da imparare che la poesia è fatta di parole-luce, voglio dire di parole che entrano in noi (…) e fanno in noi la luce e ci mutano”: è la lezione di Ungaretti.

In che misura una poesia ‘somiglia’ al poeta che l’ha scritta?
Nel canto o meglio nel suono che emette e che è alla fine l’unica cosa che dovrebbe restare di chi l’ha scritta. Pur essendo ancora in mare aperto, sento molto vere le parole di Raboni: “la biografia è l’indispensabile punto di partenza, la poesia il punto d’arrivo”.

La forma quanto incide sull’essenzialità della parola poetica?
Groddeck, che riconduceva tutto il vivere umano all’Es, riconosceva ai poeti di esserne i soli portavoce, coloro che hanno “innata la forza di elaborare simboli”. E aggiungeva che a essi, alla loro attività cosciente, restava solo il compito di occuparsi della forma. L’affermazione della Cvetaeva è ancora più radicale: “Io sono sedotta dall’essenza, la forma arriverà da sola”. Sembra ci sia poco o nulla da aggiungere.

Quando una poesia può dirsi compiuta?
Il testo di una poesia non è mai “nato abbastanza” (come diceva Zanzotto) ma non bisognerebbe neppure diventare come certe madri che mantengono per sempre un rapporto simbiotico con i loro figli. Una poesia non potrà mai bastare a se stessa, si potrà dire compiuta solo quando interagirà con il suo lettore (che ne diverrà co-autore) e, in un certo senso, con il suo stesso “creatore” che dovrebbe riuscire a leggerla come se non l’avesse scritta lui. Paradigmatica è l’affermazione di Jabès nel suo “Libro dell’ospitalità”: ‘forse ho scritto un solo libro… ed era già scritto’.

La poesia può (e se può in che modo) restituire ‘purezza’ alla parola?
Mi sembra di averne già parlato nelle precedenti risposte. Potrei precisare meglio che, per dire l’indicibile, il pensiero poetico debba sottoporre “verifica le parole” (Canetti) e che possa fare questo solo risalendo alla loro sorgente o, perlomeno, riscoprendo un serbatoio in cui il linguaggio immaginale non sia subito tradito dall’interpretazione cosciente. È un po’ come si fa con i sogni: interpretarli, ricondurli al già noto è forse rassicurante ma più ci stai dentro, più ti portano lontano. Non sporgersi sul proprio abisso (Es) può provocare più vertigini che protendersi su un burrone di migliaia di metri: è l’esperienza di una buona analisi. Abbondonarsi a se stessi senza ritrarsi è la testimonianza di Franco Loi (in “Poeti e prosatori alla corte dell’Es”) e della sua poesia.

Oggigiorno, qual è (ammesso ne abbia uno) l’incarico della poesia?
Alla poesia non si può chiedere troppo, se non di farci rinascere di tanto in tanto. Per me ha una valenza rigenerativa, come l’ha il sogno, che non è mai fuga dalla realtà ma “inseguimento appassionato del reale” (Milosz), dono al quale dobbiamo prestare attenzione. Certo si presterebbe bene a svolgere il compito di ridare forma (pur sempre transitoria e parziale) e a suturare qualche ferita della “società liquida” nella quale, come ricorda Bauman, “le sofferenze individuali non sono più sincronizzate”, “non si sommano e perciò non uniscono le loro vittime (…) lacerando il tessuto delicato delle solidarietà umane”.

Riporteresti una poesia o uno stralcio di testo nel quale all’occorrenza trovi rifugio?
“Se ripenso ai libri a cui ho dedicato tutta la mia vita provo un sentimento sconvolgente: mi sembra di non aver scritto con le mie mani le frasi, i sogni, le pagine che mi hanno dato una grande felicità, ma di averlo fatto grazie a una forza generosa e sconosciuta” (Orhan Pamuk, “La valigia di mio padre”).

Per concludere, ti invito a scegliere una sua poesia (da Consulente del buio) per salutare i nostri lettori.

In questo silenzio che trabocca
sillaba dopo sillaba
senza trovare la parola giusta
un balbettio sonoro
che un altro invaso non accoglie
molto prima del sogno
nella stanza dei giochi
eravamo carponi tu ed io
a tracciare la pista
con i binari e gli scambi per il trenino

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(la versione ridotta di questa intervista a cura di Grazia Calanna, è apparsa sul quotidiano LA SICILIA del 25.06.2017, pag. 16, rubrica “Ridenti e Fuggitivi”, Cultura).

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