IL PENSIERO DELLA MUSICA, a cura di Angelo Sturiale
ilpensierodellamusica@gmail.com
Formatosi indipendentemente nel fertile ambiente palermitano, Giovanni Damiani ha iniziato gli studi di pianoforte a dieci anni principalmente con E. Anselmi, poi master con B. Wambach and M. Damerini; ai quattordici anni circa risalgono le prime realizzazioni di composizioni elettroacustiche e strumentali; frequentava già l’Istituto di Storia della Musica dell’Università di Palermo, e ha studiato quindi composizione in conservatorio con E. Sollima, poi con Aldo Clementi, e poi master di Nono, Lachenmann, Bussotti, seminari di Stockhausen; nel 1990 diploma di pianoforte, nel 1992 laurea in musicologia con P.E. Carapezza, nel 1993 vincitore di concorso di Lettura della partitura, e dall’anno successivo titolare della cattedra del Conservatorio della sua città. Ha tenuto corsi di composizione ed elettronica sia in Conservatorio che all’Università di Palermo. Accosta a una particolare predisposizione all’autoanalisi teorica, la sperimentazione diretta con gli interpreti, e la concreta realizzazione di progetti propri e altrui, come organizzatore, pianista, musicista informatico, musicologo. Ha collaborato con il coreografo Virgilio Sieni realizzando nuove musiche dal vivo per diversi suoi spettacoli. Nel ‘98 prima rappresentazione al Festival sul Novecento della sua opera-oratorio Salve follie precise-atto primo. Francesco Pennisi lo ha scelto come ideale continuatore, in un concerto a lui dedicato. Alla IV Conferenza Mediterranea, festival di 12 nazioni trasmesso in diretta su Radio3, scelto come rappresentante italiano. Sue opere sono eseguite da interpreti quali Angius, Brand, Anna Clementi, Joo Cho, Coladonato, Damerini, Dillon, Fabbriciani, Filidei, Formenti, Morini, Mondelci, Orvieto, Pizzo, Porta, Scotese, Scogna, Virzì ecc. in Italia (Nuova Consonanza, Di Nuovo Musica, Festival Pontino, Festival Traiettorie), e ai Ferienkurse di Darmstadt, a L’Autunno di Varsavia, e ultimamente all’Accademia di Basel, e Parigi StEustache. Ensemble come l’Alter Ego, Icarus, Prometeo, Duo Duel, Zephir, l’Orchestra Sinfonica Siciliana, Teatro Massimo hanno in repertorio sue opere. Nel 2005 è uscita la monografia Autobiografia delle musiche, (editore L’Epos) sulla sua opera compositiva. Del 2008 il suo DVD monografico Tra memoria, immaginazione, intravisto, inaudito. Ha organizzato convegni quali Idea di una musica, con interventi e concerti; ha interpretato con la sua classe di Lettura (ensemble All Keys) prime italiane delle Paraphrases del gruppo dei Cinque, di Five pianos di Feldman, e proprie trascrizioni di opere policorali di Pietro Raimondi quali le Quattro fughe in una, dissimili nel modo (Palermo, 1844).
Maestro Damiani, cosa rappresentano la musica e i suoni per lei? Se dovesse spiegare o trasmettere ad un bambino di 10 anni il senso o significato del suo fare e pensare la musica, le sue funzioni, che gli direbbe?
I suoni hanno orecchie finissime:
Ci ascoltano, esaudiscono chi li prende sul serio,
e chi abbandonandosi a loro se ne lascia giudicare.
A volte ne basta uno, e gli altri vi si mettono al servizio.
Altre volte ciascuno vuole cercare la sua voce.
Altre volte bisogna cogliere tutti i suoni disponibili,
interpretandone possibili
costellazioni di sensi.
La luce è un fenomeno di riferimento generale del nostro universo spaziotemporale, di massima importanza nella fisica. I suoni ne sono il fratello minore e più raro, fenomeni percepibili solo se immersi in un’atmosfera ‘respirabile’. E le composizioni sono la rarità nella rarità, fruibili originariamente solo in determinati ambienti tramite musicisti, e prediligono le atmosfere astratte ad eventuali somiglianze con suoni del mondo esistente- e noi obbediamo volentieri.
È in me profondamente radicato una sorta di idealismo in musica. La composizione, che è una semidea animata, ha un rapporto quasi conflittuale con i suoni, di amore/odio per gli strumenti reali, a tutto ciò potrebbe arrivare a prediligere una loro idea, e io la seguo volentieri.
A questo ho dedicato anche il convegno da me organizzato a Palermo nel 1998 Idea di una musica, tre giornate fitte di interventi e concerti, in cui si è incontrato con esperti nazionali un gruppo di compositori per me ancora oggi di riferimento: Incardona, Giannetto (entrambi prematuramente scomparsi), un nutrito gruppo di palermitani, i catanesi Sturiale e Casale, Dario Buccino.
Quale ruolo ha avuto e ha la musica nella sua famiglia?
La mia famiglia di oggi nasce da un incontro con la pianista Adalgisa Badano, dal 1998 accompagnata in tante avventure di interpretazione di nuove musiche, nonché sostenuta nelle sue ricerche su strumenti antichi a tastiera.
Nella mia famiglia di provenienza non vi erano musicisti, ma un padre ingegnere e una madre architetto, Anna Maria Fundarò, assai attiva come docente di architettura e design (ne fondò il primo istituto universitario), nonché una delle prime studiose dell’opera del bisnonno paterno Giuseppe Damiani Almeyda, uno degli architetti più attivi a Palermo a fine Ottocento. Da piccolo adoravo il disegno e odiavo quel che subivo di musicale, improvvisamente a 10 anni ho scoperto la musica vera, e da allora ho tracciato un mio percorso di studi personale, al pianoforte e alla composizione. Cito quanto scrisse di me Paolo Emilio Carapezza appena ascoltate le prime composizioni appena maggiorenne: ‘La sua concezione della musica (che balza subito – come Pallade dal capo di Zeus – chiara e perfetta) trascende peraltro il mezzo di produzione sonora: si basa sul saldo dominio dello spazio sonoro […] Quelli di Giovanni Damiani sono progetti di architetture dinamiche nello spazio sonoro.’
Per rendere un’idea della composizione come progetto anche spaziale, un punto di vista apparentemente più esteriore, descrivo adesso un mio pezzo per voce e ensemble, Raums genug ist für alle (1994)[1]. In esso si dà voce a una mostra di disegni di Michele Canzoneri, bozzetti delle sue vetrate del Duomo di Cefalù; l’esposizione al Santuario di Gibilmanna avveniva in una successione un po’ labirintica di stanze da cui si poteva comunque ascoltare quasi ogni suono delle stanze anche lontane. Allora ho distribuito i nove interpreti in altrettanti angoli strategici, e lasciato il pubblico libero di camminare. La partitura è parzialmente aperta, vi è un’armonia quartitonale, e ci sincronizza in anticipo con dei semplici cronometri prima di raggiungere per la propria posizione. La dinamica segue invece il respiro reale di ogni esecutore. Viene anche cantato un mio collage di due poesie di F. Hölderlin e G. M. Hopkins dedicate all’aria che respiriamo e che ci dà spazio. Gli ascoltatori possono liberamente ascoltare fermi o girare in funzione dei suoni e delle opere visuali, scegliendo una prospettiva sonora unica.
In modo simile strumentisti e voci della mia opera Salve follie precise circondano con la loro posizione e i loro movimenti il pubblico, qui seduto; l’elettronica a 5 vie simula spostamenti nello spazio, allargando e mostrando prospettive sonore mutevoli e in cammino, metafora del pensiero e sensibilità attivi, sempre mobili.
Più estremo è il ruolo dello spazio in Valle Einstein, un omaggio al padre della relatività spaziotemporale: il suono è come un surrogato rallentato della luce, un milione di volte più veloce; si potrebbe ricondurre alle Fantasie in eco di epoca barocca (e si veda anche quanto si progetta nella Musurgia Universalis di Kircher). La composizione è per tre fonti sonore poste a distanza tale che il tempo di ritardo diventi un tempo ritmico, anche di più secondi. Un secondo corrisponde a una distanza di 333 metri. Per un tempo che non copra gli echi si auspica una bella valle silenziosa con le tre sorgenti poste su una linea, la prima molto vicina, la seconda a 333 metri (il suono qui arriva un secondo dopo), e una lontanissima, a distanza di 1km questi tre ritardi creano da sè il ritmo iniziale del pezzo. Grazie all’elettronica si cambia e si riascolta in tempo reale uno stesso inciso da luoghi strategici, da cui un sincrono può diventare una risposta in eco, o viceversa. Di quest’opera ho presentato finora solo una versione da camera, ma è possibile una versione in cui l’elettronica dal vivo offre in un luogo diverse prospettive sonore che si rispondono alternandosi. Sarebbe possibile anche una versione ‚chimica’, in cui le sorgenti non sono così distanti (richiedendo tempi e dinamiche particolari) ma si manipola il mezzo, rallentando la velocità del suono modificando la composizione dell’aria con esafloruro di zolfo; così la loro dinamica sarebbe più omogenea, ma la valle ecologicamente deturpata… L’idea di lavorare sul mezzo sonoro fu già auspicata da Evangelisti.
Comporre è forse concepire un’idea spaziale, un progetto, fuori dal tempo guardandolo in prospettiva aerea, ma immaginando contemporaneamente come questo tempo sarà vissuto o abitato (v. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, proposizione 5.633, ‘[…] E nulla nel campo visivo fa concludere che esso sia visto da un occhio’). Eppure questo riscontro nel tempo reale è quanto ci spinge a cercare un tempo raro, denso di dimensioni aggiunte raggiungibili non per curiosità intellettuale ma per la loro radice arcana, per sete di un tempo più vero.
https://giovannidamiani.altervista.org/giovdamiani/raum03.mp3
Lei ha scritto per diversi strumenti acustici e gruppi vocali-strumentali, ma anche prodotto composizioni in ambito elettronico. Ci parli un po’ del suo rapporto con entrambi i mezzi. Cosa li unisce e cosa li separa? Cosa possiede uno che non possiede l’altro?
Ancora una volta parto da un’idea, ha priorità il progetto intellettuale, in qualche modo separato dalla sua interpretazione-trascrizione strumentale. La possibilità di creare nuove versioni è un mezzo potente di indipendenza dalla materia, dall’occasione, una variante può adattarsi a un nuovo ambiente e fungere da miccia contagiosa.
Di alcune composizioni esistono più versioni assai diverse: è il caso di uno studio per strumento melodico, Studia, invoca: in cui si generano dei cicli di note con dei calcoli intuibili all’ascolto. Di esso ho realizzato una versione elettronica, Invisibili – vivibili –rappresentazioni di rapporti, in cui questi cicli generano anche le forme d’onda, entrano al livello microscopico del bit: non utilizzo tecniche di sintesi standard, ma diretto invio agli altoparlanti di tali numeri grazie ad algoritmi con cui genero questi flussi oscillanti, proiettati su percorsi ottofonici.
Ho realizzato i miei progetti compositivi su nastro fin dal 1981; allora comandava la disponibilità di macchine. Dopo un periodo di concentrazione sulla scrittura per strumenti, sono tornato all’elettronica nel 1993 con un gran solo in cui un tastierista realizza variazioni in tempo reale su un unico campione; il pezzo usa un temperamento non ottavizzante desunto dalla composizione armonica-spettrale di questo suono di campana. Dal 1995 utilizzo quasi esclusivamente linguaggi aperti, come Csound, sempre aggiornabili, con cui puoi elaborare l’intera forma, dal bit alla disposizione e ambientazione spaziale, a interpretazioni visuali o mentali- il programma è privo di interfaccia grafica, il suono va immaginato senza aiuto visivo, il che concorda con il mio tendere a progetti per dimensioni anche immaginarie, su formule sintetiche più che su visualizzazioni contingenti. Ne possono risultare anche composizioni audiovisuali:
https://www.youtube.com/watch?v=I1Oa9Gnyl2Y&t=4s
Nella mia poetica della precisione, l’elettronica è benvenuta per la precisione del mezzo digitale; dall’altro mi sento di dover giustificare la sua presenza al posto di strumenti più ‘caldi’ e gestuali, e le giustificazioni più comuni sono:
elettronica per usare suoni non producibili con altri mezzi; ma sfidando i suoi limiti né più che meno con gli interpreti fisici;
oppure la necessità di riesumare voci scomparse, il reperto sonoro, sia che parta dalla voce di Martin Luther King o da quella delle canto-conferenze dello studioso di canto siciliano Giuseppe Ganduscio.
Qual è il suo rapporto con la musica folcloristica siciliana? Ha composto delle opere che usano strumenti popolari siciliani? In quali delle sue composizioni secondo lei è più presente lo spirito o l’essenza della musica tradizionale siciliana?
Ho grande interesse in genere per le genealogie storiche e linguistiche, che ci pongono a contatto con la forza primigenia dell’essere, amo cercare la nostra genesi, i propri padri putativi. E mi piace difendere o cercare di conservare le specie musicali dimenticate, forse estinte. Da qui l’interesse per le musiche povere, appena abbozzate, e certamente il canto di tradizione orale, un cumulo di macerie alle nostre latitudini, eppure pronto a riattizarsi con le sue ricchissime influenze delle culture e atmosfere del bacino mediterraneo. Come in tanti compositori, ritrovo in me suoi influssi indiretti, per esempio nel gusto per i microintervalli, o letterali, come nelle ensaladas o collages de La sincronia e il convenzionale, assemblaggi particolari di reperti di danze popolari. Anche in questo caso il comporre sembra ritirarsi su scelte silenziose, un’attitudine a tacere, a rielaborare più che a creare dal nulla.
Amo anche ‘riciclare’ un pezzo dall’altro, da idee di miei pezzi precedenti non ancora abbastanza chiari o approfonditi. Come anche pescare da appendici di opere sconosciute qualcosa di assolutamente degno di ascolto ed elaborazione. Ecco un esempio. In appendice a una brillante e sconosciuta raccolta di Comische canonen a 3 voci maschili, Friedrich Kuhlau annota su un rigo un canone a 28 voci, scrivendone 4, un piccolo valzerino di 7 misure, a 4 voci in cui si possono sovrapporre 7 modi diversi dello stesso brano a 4 parti. Ne ho realizzato una ‘partitura da concerto’, espandendone retoricamente le possibilità con vuoti-pieni, alternanze di modi, laddove il canone classico è un piccolo schizzo che si satura e blocca troppo presto.
https://www.youtube.com/watch?v=4V33sKfuImA
Quali sono le sue fonti preferite d’ispirazione extra-musicale che utilizza per le sue composizioni?
Un posto speciale ha la Matematica, la bellissima o orribile scienza, base di tutte le scienze esatte, e utilissima anche in scienze empiriche e statistiche. In essa eleganza, economia, simmetria sono termini tecnici, le sue rispondenze interne un infernale paradiso di problemi risolti o aperti, connesse alle conoscenze di un’epoca ma anche indipendenti da esse. La interpreto sia come modello metaforico ma soprattutto come materiale di base, leggibile in configurazioni musicali interamente nuove o riesumate, il più utile oggi per me a creare ordinamenti rigorosi, che reinterpretano la rivoluzione sonora del nostro tempo in modo creativo- e in questo mi distanzio dalla maggior parte dei compositori concentrati oggi sulla materia sonora o sul suo ammiccare una tradizione. È noto il ricorrere di artisti alla sezione aurea, ma per me, come prima di me per Xenakis e tanti altri, questa delle proporzioni è solo una delle branche cui do suono nei miei programmi musicali, per esempio nel quintetto Perché Fibonacci?. Ve ne sono tante altre di impatto più innovatore, e più ignorate sul piano estetico. Per esempio i numeri triangolari, somme dei numeri naturali 1,1+2,1+2+3…, alle cui numerosissime proprietà ho dato suono con diversi miei brani dal 1999, anche nel mio maggior lavoro pianistico, Cori di ogni distanza/attrazione (2014-15).
Si ascolti questa esecuzione:
https://www.youtube.com/watch?v=AY_kOs-7iG8&t=1530s
A 27’10’’, dopo un climax dinamico, vi è una svolta improvvisa:
un grande arco melodico e monodico su durate scandite: unità di misura croma e semitono, i seguenti valori:
e dei corrispondenti suoni-numeri Triangolari (abbrieviati Tn) ogni volta trasposti lungo i loro stessi valori; è una struttura in versi ad acrostico
(si provi a leggere in verticale). Essa riempie un totale cromatico di 21 suoni (T6), in un modo che mi ricorda le tassellazioni dello spazio raffigurate da Escher.
Questa meravigliosa struttura occupa tutta una misura di 91 crome; il numero 91 è uno ‘pseudo primo’ uguale a 7*13, ed è anche T13, ma deve molte delle proprietà viste su all’essere anche un numero piramidale, somma dei primi quadrati 1+4+9+16+25+36, di cui do l’elegante disposizione a triangolo già analizzata, in cui ogni rigo lascia lo spazio residuo esatto per i righi successivi.
Il 55 veniva similmente rappresentato in un passo del mio 1, 3, 6, 10… battiti/misure a mano libera, che come si può vedere già dal titolo sfrutta anch’esso le sequenze triangolari. Gli unici altri due triangolari che intersecano le sequenze piramidali condividendone proprietà sono 1 (eh…) e… 208335 (…!), su cui non mi auguro di comporre alcunché. La più minuziosa analisi che conosca di ciò è pure in italiano, nello spettacolare sito di Mauro Fiorentini;
Ma si ascolti tutto il pezzo, è alla fine ‘quanto si voleva ascoltare’.
Sento il bisogno di riconoscere legittimità al genere fantastico, al saggio iperrealistico come opera d’arte in musica, non soggetto a generi letterari vulgati, ma ancora meno alle prassi concertistiche e di ascolto correnti, povere di fantasia.
Ritengo che una tra le caratteristiche della sua ricerca in ambito musicale sia legata alla poetica della complessità. Perché la complessità in musica spaventa ancora dopo quasi un secolo dall’avvento dell’”emancipazione della dissonanza” (dodecafonia, serialismo, etc.)? Perché la musica fatica a far accettare a molti la complessità come suo valore o estetica?
Non sono per niente vicino ai compositori della new–complexity (pur preferendoli naturalmente ai neoclassici). Più che di complessità mi piace occuparmi di verità, di trasparenza, alétheia in greco, che sembrerebbe l’opposto della complessità, ma il vero spaventa. Per Webern (che cita Karl Kraus) missione dell’artista è ‘insegnare a vedere abissi, là dove sono luoghi comuni’. Per ottenere ciò bisogna, cito i Vangeli,‘raddrizzare i sentieri’, che non vuol dire certo scegliere sempre le strade più comode e larghe. La differenza fondamentale tra le nuove pratiche di ricerca musicale e gli ermetismi e gli strutturalismi novecenteschi mi sembra proprio consista in un’attitudine dialettica, di dialogo con un oscuro sconosciuto; una scala lanciata nel buio, una lotta con feedback remoto, che può arrivare dopo anni. Per ottenere ciò una delle vie che ho prediletto è focalizzare l’attenzione su un materiale di base ridottissimo, e trasformarne l’aspetto nei modi più vari. In sintesi, una poetica dell’esattezza, che non rinuncia alle idealità presenti nella tradizione, ma le approfondisce con altri mezzi.
Qual è la composizione a cui ha lavorato di più? Quella più complessa? Vi è un progetto a cui lei è particolarmente legato, ma che per vari motivi non è riuscito a fare eseguire o a terminare di comporre?
G.D. Si tratta di un’opera, Salve follie precise (1998-2006), di cui sono riuscito a rappresentare il primo di due atti; ne ho già descritto particolarità spaziali. Mi fu commissionata come piccola opera, da Marco Betta per il Teatro Massimo, e il soggetto mi fu suggerito da Federico Incardona, il dottor Semmelweis nello scritto di Cèline. Da esso ha tratto un libretto in versi Francesco Carapezza. Eccone il soggetto: il medico Semmelweis in pieno Ottocento, tanto arretrato dal punto di vista profilattico, in un ospedale in cui tante partorienti morivano d’infezione puerperale, con pochissimi mezzi ne trovò le cause e un rimedio tutt’ora valido. I suoni sono un suo ritratto, della sua idea fissa e delle avversioni da cui fu perseguitato fino al suicidio in cui sceglie di contagiarsi come i suoi pazienti. Da un suono di respirazione attorno a un suono centrale si dipartono tutti i suoni che lo contengono o ne sono contenuti (armonici superiori e inferiori), una matrice di significati che vengono scolpiti o sezionati da sempre nuove letture. Ecco la scena centrale, il momento della scoperta:
https://www.youtube.com/watch?v=JdpF6Fj0ZfI
Quali sono i suoi ultimi lavori e quali le loro caratteristiche principali dal punto di vista grammaticale ed estetico?
Una composizione meno focalizzata, più multicolore e sfumata… sto cercando di passare nel mio laboratorio da un’ostinazione, per intenderci, tipicamente beethoveniana (del periodo eroico tipo Appassionata) al suo stile tardo, più interessato a confrontarsi con la complessità di vite diverse, forme, motti ma anche ornamento e aforisma. All’idea fissa sostituisco un’esposizione di tutte le varietà possibili- il che in fondo, se il dominio è comunque quello intellettuale, non è una grande sostituzione, ma lo è dal punto di vista percettivo. Ma si procede per piccoli progressi… Alle fantasie su una nota e i suoi multipli sostituisco ora un caos deterministico e liste di possibili ordinamenti o scelte. Mi interessa più il ‘rumore’ in quanto evento non polarizzato, percepibile in più modi.
Ho anche composto in questo periodo dei canoni secondo princìpi classici, per esempio Labirinto canonico (2020), cercando di esplorare in un unico arco formale i moltissimi modi anche inediti in cui può elaborarsi un unico canone a 5 voci. Molti ascoltatori l’hanno definito ‘beethoveniano’, il che risulta non da intenzioni stilistiche ma da un uso e uno studio intensivo di forme classiche di canone del Cinquecento. Il contrappunto m’interessa sempre molto, in quanto forma vuota, quasi scettica, che da poche regole di convivenza e trasparenza genera forme quasi per sottrazione.
Lei è docente di lettura della partitura al Conservatorio di Palermo. Cosa ha imparato dai suoi alunni in tutti questi anni? E cosa crede abbiano imparato loro da lei?
Ho frequentato la biblioteca e i docenti dell’Istituto di Storia della musica fin dall’adolescenza, studiando allo stesso tempo pianoforte privatamente, e leggendo tanta musica contemporanea o classica per conto mio. I miei rapporti con il Conservatorio erano di diffidenza, a 18 anni soltanto sono stato convinto dal mio docente Enrico Anselmi ad entrarvi in pianoforte e in composizione. Allora la trincea era decisamente altrove, lì era la retroguardia. Tale diffidenza per l’accademia si è andata stemperando, ho incontrato quindi anche lì alcuni musicisti compagni delle avventure che propongo loro e che loro mi propongono. E che mi stupiscono perché riescono ad imparare anche cose che non mi accorgo di insegnargli. Certo le mie richieste agli interpreti sono notevoli, all’occorrenza essi devono disimparare il loro strumento per riscoprirne uno appositamente trasformato. E non per gusto della complessità, cerco sempre i mezzi più semplici per un fine che mi stupisco non sia desiderio diffuso, comune.
Se non potesse più vivere in Italia, in quale paese andrebbe a vivere? E perché?
Eufonia la chiama Berlioz, e la situa nel 2344; un paese ideale, impegnato nella musica e nella ricerca seria, che ha magari fatto fuori l’intrattenimento narrativo. Lo cerco sempre, in viaggi musicali in Europa sopra al Po vado a respirare come in montagna. Senza disprezzare peculiarità uniche che si sono avute talvolta giù da noi dagli anni Sessanta ad oggi. Ma con enorme dispendio e dispersione di forze. Certo il centro-Europa offre condizioni assai più stimolanti per un compositore, e tanti colleghi italiani hanno pensato bene di fiorire all’estero.
E per finire una domanda “obbligatoria” di questi tempi: cosa è cambiato nella sua musica e nella musica in generale secondo lei in questi ultimi anni a seguito della pandemia?
Da quanto detto si può immaginare che la mia creatività non sia stata colpita al cuore, ma certo le condizioni già non facili della nuova musica si sono viste esponenzialmente ridotte in autonomia e respiro. Riguardo al dividersi in partiti opposti di fronte alla pandemia, mi interessa pensare cosa ne avrebbe pensato il mio Semmelweis. Nella sua opera il momento cruciale della scoperta, l’eureka, è un sestetto vocale in cui emerge la nuda matrice di armonici, sul testo ‘L’infezione esiste/e sono io/ la traccia dell’infezione’. (già citato: https://www.youtube.com/watch?v=JdpF6Fj0ZfI )
Abbiamo riscoperto la debolezza e marginalità della specie umana, e come la si possa proteggere con la scienza e con una partecipazione dal basso. Quasi una prova generale di unità della specie ‘sapiens’ di fronte alla fragilità nella natura; ben altro rispetto alle nere nubi retrograde che ci stanno avvolgendo oggi con l’aggressione all’Ucraina.
Ancora, constato con molta preoccupazione, come certa cultura nell’attuale involuzione si sia stretta intorno a capolavori indiscussi, nelle scelte per forza riduttive. Che tristezza nel consumo di Sinfonie di Beethoven o Mahler, malgrado tutta la loro inesauribile carica vitale… Tristezza che condivido, ho perso in questo periodo una persona fondamentale come Giannetto, e tanti hanno anche perso lavoro. La mia risposta individuale è di rinnovata energia nello studio e creazione, questioni vitali oggi considerate un lusso dai gelidi mostri che da anni ci governano; se la prospettiva è mutata, non ho avvertito però concessione di linguaggio, sia pure attraverso mezzi ridotti all’essenziale, ma che meriterebbero ben altre risorse ed attenzione. Sperando di essere anche io contagioso, con grande comprensione per chi non ce la fa. Ciò che si ama non lo si ama solo a dolci parole elegiache, ma preservandolo in ciò che è più raro: la bellezza nascosta, un abbraccio negato.
[1] Per un ascolto: https://giovannidamiani.altervista.org/giovdamiani/raum03.mp3
Per notizie dettagliate sulle composizioni, materiali e loro temi di approfondimento: https://giovannidamiani.altervista.org/