La guerra è come un’attrice che invecchia.
Sempre meno fotogenica e sempre più pericolosa.
Robert Capa

 

 

Un colpo di mortaio

Per tutto il giorno precedente e per tutta la notte avevano udito, nascosti dietro alle porte, dietro alle finestre,  un via vai febbrile di soldati tedeschi e italiani. Alcuni si fermavano a chiedere del pane, altri entravano, pistole alla mano, in qualche casa a esigere dell’acqua, del cibo. Videro anche sfilare alle prime luci dell’alba, i primi soldati americani che avessero mai visto, senza armi addosso, guidati da un Tedesco con un fucile in mano. La scena si svolgeva in un silenzio irreale lungo la via che tagliava il paese: i  passi dei loro scarponi dalle suole di gomma  non producevano alcun rumore. Sembravano addirittura di buon umore.

Man mano che trascorrevano le ore, quella che finora era sembrata una ritirata, al mattino ormai si mostrava come una fuga disordinata e precipitosa delle retrovie. Gruppi di soldati sbandati girovagavano per le campagne lì intorno. Disertori, oppure semplicemente soldati rimasti indietro e abbandonati.

Resisteva ancora quel giovane tenente italiano. Si ostinava a difendere la postazione che gli era stata assegnata, per rallentare il nemico e permettere la ritirata del suo battaglione. Un eroismo cocciuto, ormai svuotato sia di una causa che di un paese vittoriosi. Era risalito per il costone di roccia e si era nascosto dentro una piccola grotta scavata nella torretta di guardia della formidabile fortezza normanna che sovrasta Sperlinga. Aveva camuffato con delle frasche il mortaio. Da lì dominava l’intera vallata che si stendeva dai boschi lontani fino ai piedi del paese e che si apriva verso occidente con vaste ondulazioni sfumate dalla foschia.

Da lì già scendevano i soldati americani per i viottoli del monte Zimarra, provenienti da Gangi, già espugnata. Così li vedevano passare i contadini, rifugiatisi nei piccoli casolari sperduti in mezzo ai campi aridi di stoppie, carichi dei loro zaini, dei fucili, in due file parallele, distanziati, per non offrirsi a quei continui colpi che provenivano dall’altura del vecchio castello sulla cima del paese.

Un gruppo di soldati tedeschi e italiani, lasciati a guardia del deposito delle armi requisite alla popolazione, si era asserragliato proprio lungo la scarpata sotto le ultime case.

“Al paese tanto non ci sparano”, si erano detti alcuni contadini che erano corsi a vederli, quei soldati neri come formiche, dal pianoro della chiesa madre, dove usavano andare a prendere il fresco e chiacchierare. Due ragazzini erano corsi anche loro assieme al padre. Erano saliti sui gradini davanti al portale per osservare meglio tutte quelle esplosioni, le bombe a grappolo e i colpi di mortaio provenienti dalle alture del Monacello, che colpivano qualche casolare lì intorno per stanare quei soldati.

Li videro improvvisamente fuggire, sbandarsi verso l’abbeveratoio, cercando di guadagnare l’altura che lo sormontava. Ma gli Americani ormai erano per tutte le colline intorno e molti, più o meno volontariamente, avevano alzato le mani e si erano consegnati a loro.

Rimasero stupiti e immobili a guardare la confusione di quella scena. Intanto dei colpi esplodevano ancora dalle alture del bosco e sembrava cercassero proprio di avvicinarsi sempre di più al paese. Gli anziani già spingevano tutti gli altri a lasciare la piazzuola: esortavano a mettersi al sicuro. Ma uno scoppio violento e improvviso fece tremare i loro piedi, spezzò quella sospensione: un colpo di mortaio era caduto proprio sulla fiancata rocciosa sotto la piazzetta. 

Quel tremito di morte percorse le loro membra, risalì fino al cuore, alla mente: era il corpo adesso a fuggire precipitosamente, fattosi leggero come una marionetta.

I due ragazzini furono i primi a imboccare la scalinata che portava dalla chiesa alle poche strette viuzze più interne del paese. Li seguiva il padre, insieme al gruppo degli altri uomini. E si rassicurò quando li vide ai piedi della scaletta, svoltare per casa.

Ma eccoli fermarsi, impiegare qualche parola per convincere  un povero ragazzo sprovveduto, che andava a prendere qualche foglia per le sue capre, a tornare indietro, ma lui non si lasciava convincere, per loro non c’era nessun pericolo, diceva. Quando, improvvisamente, una spessa massa di polvere bianca  rapì le loro immagini mentre ancora si trovavano sulle scale.

Rientrati i figli in casa, la madre aveva sentito l’esplosione, aveva visto tremare le pareti. Poi li afferrò per le mani trascinandoli fuori. Non dovesse crollagli addosso la casa.

Uno dei contadini si era ritrovato senza sapere come addossato ad una porta, seduto sul gradino, trascinato dall’impeto dell’esplosione, che ricordava a stento di avere udito. Troppo vasto quel boato per essere contenuto nella sue povera memoria umana. Solo tratti di una bianca visione, sorda, silenziosa, tra le lacrime degli occhi irritati, articolava parole senza suono; di un altro era rimasta solo la bocca, divelto il resto della testa da una scheggia; un’altra scheggia si era confitta nel collo di un uomo; di due fratelli, i corpi uno sopra quello dell’altro; di quegli otto contadini, uno solo trascinava ancora la gamba ferita, traeva un lamento dal petto, tenue, costante, incredulo che ancora  il cuore pulsasse, la voce vibrasse, e le mani afferravano le membra, le palpavano, per ricucire un corpo dilaniato nella mente.

In un tempo incalcolabilmente successivo, che la memoria dilatò, separando quel presente dal mito ormai perduto dell’infanzia, una memoria improvvisamente scucita, i due bambini udirono un urlo. Un urlo che uscì lacerante dal petto della loro madre. Un urlo che creò il padre, su tutto quel bianco. Finché un velo nero calò sui loro occhi: con il lembo della mantellina la madre coprì le loro teste. Che non vedessero quella catastrofe di cristiani riversi sui gradini, nel vicolo. Ma era l’odore, il ferrigno, rivoltante odore del sangue, simile all’odore delle bestie macellate, che non si poteva coprire, che sentivano penetrare, impregnare per sempre ogni cellula del loro corpo.

La madre corse via, a mettere i due figli in salvo fuggendo verso la grande grotta che si apriva alla base del castello, protetti nel suo grembo di pietra. La rocca, che con suo castello dominava da secoli il paese, ritornava ad essere di nuovo quello che era stata da sempre: luogo sacro e materno, inviolabile, rifugio alla violenza delle armi, della storia. L’umida e tiepida oscurità allontanava dalle grida, dal fragore delle esplosioni, loro e tanti altri che avevano trovato lì un rifugio. La madre aveva piegato il capo per nascondere agli altri il proprio dolore, avrebbe trovato solo commiserazione nelle altre, e qualcuna c’era che non avrebbe  nascosto alla propria soddisfazione di manifestarsi nello sguardo. I suoi gli occhi invece erano ancora fissi sul corpo marito, nero su tutto quel bianco, sbalzato dall’esplosione contro una porta della stradina sottostante, respirava ancora e si guardava attorno e sembrava sbalordito; chissà se l’aveva vista, assieme ai figli più piccoli, mentre lo squarcio sul ventre mostrava le interiora insanguinate, la scheggia feroce confitta sul piedritto del portale, sollevato dalle braccia del nonno e di suo figlio più grande, e i loro volti che trattenevano lo sgomento, la pena, perché bisognava vincere ogni debolezza, raccogliere in qualche modo quel corpo, fare qualcosa anche se ormai non c’era più nulla da fare. Oscurò quell’immagine nella sua memoria, per non precipitare in un abisso di pena senza ritorno.

Caendì. Caendì

Si udì un rombo di automezzi, nascosto tra i balzi che costeggiavano la strada per le Madonie, lontane e azzurrine. Poi apparvero le prime vetture del sedicesimo fanteria, la prima divisione americana “Big Red One”, che adesso, sgombrate le alture dalle ultime resistenze, poteva avanzare senza pericoli verso Nicosia, e poi verso Troina, Randazzo. Videro salire gli automezzi, passare di fronte al cancello del cimitero, investire un uomo che usciva da lì insieme ad altri familiari. Ma  quello che cosa c’entrava, che era andato solo a seppellire un parente? Ma sì, certo, non avevano capito che quella camicia nera era quella del lutto. Dovevano averlo preso per un fascista. Ma come potevano pensare che i fascisti si facessero trovare lì, tranquilli, per strada? Quelli veri invece si erano nascosti bene, dentro le grotte che si aprivano nella roccia, celate nelle fondamenta delle loro case in paese.

Un uomo corse incontro al primo soldato entrato vittorioso a Sperlinga,  ad abbracciarlo: era finalmente arrivata la libertà ed erano finalmente finiti i soprusi, in paese le cose adesso sarebbero cambiate. Ma soprattutto era finalmente finita la guerra, erano finite la fame, la paura.

Nella piazza, i soldati sopra gli automezzi fecero una breve sosta. Caendì, Caendì!, urlando una frotta di ragazzini corse loro incontro. Il termine straniero si era trasformato nelle loro bocche, la potenza della loro lingua,  dove le parole tronche avevano perduto la grazia del francese e si scheggiavano dure e aspre come il costone di roccia dove erano addossate le loro case, avevano creato quel nuovo vocabolo.

Ma quel giorno i soldati non spartivano caramelle. I volti stanchi, gli occhi pieni di macerie e di cadaveri, li giravano intorno, attenti alle imboscate di qualche Tedesco che vagasse isolato e atterrito tra le viuzze deserte e assolate di quel paese.

Caendì! Caendì!, le urla dovettero esasperare quel soldato seduto sul cassone scoperto di un camion, che iniziò ad agitare le braccia, il fucile che una mano impugnava.

Saen ev’e bitch! Saen ev’e bitch!” All’improvviso quei figli di puttana si sentirono addosso l’acqua della bagnera che la donna, venuta fuori urlando sul balconcino sopra la piazza, aveva gettato loro addosso. La lingua l’aveva appresa a modo suo, emigrata tanti anni in America; ma che volessero fare del male ai suoi figli, questo l’aveva capito immediatamente, d’istinto, a vedere sollevato quel fucile. Quella bagnera era l’unica arma che possedesse, l’unica arma che sapesse usare: efficace con i ragazzacci, che fuggivano immediatamente, sperava, spinta dalla disperazione, che potesse, chissà, funzionare anche con quel soldato. Ma quegli le puntò contro il piccolo foro minaccioso del fucile, e gli occhi aggrottati che non sapevano più cosa odiare: la rabbia disperata di una madre, i Tedeschi che si nascondevano ovunque, l’insensibilità che sentiva ogni giorno di più dilagargli nel petto, la pietà che insorgeva come una violenta ferita, la guerra.

Ma più del fucile puntato, fu il braccio del marito che velocemente trascinò dentro la donna. I vetri sbatterono. Le imposte si chiusero.

I soldati si diressero così a Nicosia, dove ebbero alcuni giorni di tregua.

I pastori di Robert Capa

In quelle ore, tra i campi di grano già aridi che digradavano dalle colline di Capostrà, della Vaccarra, lungo la strada per Gangi, i due pastori che avevano portato le loro capre ad abbeverarsi, avevano osservato il passaggio del sedicesimo fanteria americano. Si erano rifugiati nel loro casolare, insieme alle famiglie, impaurite da quel continuo fuggire di Tedeschi e Italiani, dall’arrivo imminente degli Americani. Appoggiati ai loro bastoni, con la foggia degli abiti che non mutava da secoli, le scarpe cucite con le pelli di animali scuoiati, i legacci a incrocio intorno alle gambe, i pantaloni e le camicie ormai lacere, le cuffie sulla testa, piccoli, neri, asciugati dal sole. Guardavano da un altro tempo, gli occhi stretti tra le profonde rughe del volto, l’espressione timida, rassegnata, quelle macchine mai viste, le uniformi, quei giovani alti, ben nutriti. Anche ai soldati che si erano fermati ed erano scesi dalla camionetta quei due pastori dovettero fare una certa impressione. E forse in un primo istante ebbero anche difficoltà a considerarli degli esseri umani. Si vede che non hanno la minima idea di quello che gli succede attorno. Guardate con quale stupore stanno a guardare; ma devono essere brave persone: ci sorridono.

I soldati che si erano avvicinati a loro si abbandonarono così ad uno scoppio improvviso di risate, e la gioia di poter finalmente sciogliere il tedio delle continue e regolari carneficine di quei giorni li sfrenò ancora di più.

I due piccoli contadini si guardarono, rincuorati dal buon umore dei soldati e presero a ridere anche loro. Tra quegli Americani un ragazzo degli occhi neri ed acuti, lanciò un sorriso furbo  ai compagni, un sorriso con cui sapeva accattivarsi la simpatia di chiunque, ed afferrò la macchina fotografica. Aveva capito in un attimo che questo era il racconto che doveva essere fatto

Il giovane reporter di guerra Robert Capa iniziò a sperimentare alcune pose. I contadini dovevano indicare qualcosa in lontananza, aiutare gli Americani a inseguire i soldati Tedeschi. Diversi scatti, poco convincenti e un po’ artefatti, con i contadini con le braccia alzate ad indicare con il dito, ma si capiva fin troppo bene che lo facevano perché qualcuno gli chiedeva di mettersi in quella posa, ed evidente era il sorriso mal dissimulato dei soldati. Finché arrivò lo scatto giusto: il più essenziale, il più potente. Il pastore si piega e mette una mano confidenzialmente sulla spalla di un soldato, questi deve mettersi accosciato per arrivare all’altezza della sua testa, è il bastone a indicare lontano dove lo sguardo del contadino scruta. Ma la sfumatura di buon umore non si cancella del tutto dal volto del soldato. Ne resta un velo, a suggerirci il clima vero di quell’incontro.

Il battaglione proseguì verso la terribile battaglia di Troina, che imperversò nel primi giorni dell’Agosto del 1943.

Seduto sulle macerie che era divenuta Troina, il fotoreporter Robert Capa si domandava che senso avesse la guerra. Che senso avesse fotografare, e soprattutto fotografare quella guerra, in cui la morte era divenuta una cosa ovvia, del tutto banale.

Interruppe quelle riflessioni la comunicazione che doveva tornare a Palermo: la rivista Life lo ingaggiava come suo fotoreporter.

Tutto merito di quella fotografia, nata in un’oasi di tempo rubato alla guerra, scattata nei dintorni di Sperlinga: sarebbe stata pubblicata sulla rivista. E avrebbe raccontato la storia giusta a tutto il mondo. Quella che tutto il mondo si aspettava. Una Sicilia arcaica, fuori dal tempo, abitata da un popolo misero e sottoalimentato, accanto alla sana e robusta civiltà americana, venuta a schiudere loro benessere e progresso. Due mondi lontanissimi che si incontravano e tuttavia si sorridevano.

Un nuovo racconto si liberava da questi luoghi, più forte della realtà stessa.

Francesco Coltiletti visse ancora qualche anno dopo la fine della guerra. Forse non seppe mai di essere divenuto così famoso, ritratto sulle pagine di tanti libri di storia, con il bastone in mano, ad indicare per sempre la fuga dei Tedeschi a quel giovane soldato americano. Continuò a raccontare la sua storia ai nipoti, di quegli anni terribili, della fortuna di avere avuto un casolare in cui mettere al sicuro la famiglia, mentre i soldati Tedeschi e Italiani scappavano da tutte la parti,  e gli Americani arrivavano e gli aerei bombardavano le strade e i paesi, gli anni di quella guerra che, gli spiegarono i nipoti, era stata mondiale.

Parlava anche dell’incontro con quei soldati, così simpatici e giovani, che poveretti avevano lasciato le loro case per venire a fare la guerra qui in Sicilia, così lontano dalle loro mamme.

Finchè nel 1950 giunse anche per lui la morte. Prima di lui fu la memoria ad andarsene, piano piano, annebbiandosi tutti quei racconti, lasciando pochi relitti di un’infanzia lontana, il volto di sua madre, muto e indecifrabile come quelle grotte scavate lungo i costoni di roccia piantati intorno alle campagne che per tutta la vita aveva lavorato.

Non si sa più da chi né per quale scopo siano state create, a tal punto ogni civiltà vi ha scavato e sovrapposto segni sempre nuovi, raccontato storie sempre nuove e diverse.

Come quell’immagine, volata via da quella  campagna, a raccontare lontano la propria storia, di un luogo dove inesorabilmente ogni segno delle vicende umana si cancella.

Di tutto quanto si è scritto, non esiste altro che la voce e il ricordo di chi ce lo ha raccontato. Perché Sperlinga, il luogo di questo racconto, è come un confine, un margine estremo del nostro tempo, dove ancora qualcosa può essere raccontato.

Molti di quelli che lo abitano, questo confine, continuano l’abitudine di sedere insieme intorno ai tavoli del bar in piazza, a misurarsi nell’arguzia e nella prontezza della propria lingua; e ogni tanto qualcuno, dopo aver bevuto, si lascia prendere dalla felicità del narrare.

Le loro parole assomigliano alle foglie trasparenti di quel fico le cui radici hanno penetrato la roccia sotto il piazzale della chiesa, aperte a guardare il sole del tramonto; gli operai lo tagliano ogni anno, ma lui di nuovo butta i suoi rami alla fine della primavera e si ricopre di foglie sempre nuove in estate, felice di riprendere la sua storia.

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