Dentro quel fiume, con me, non c’era nessuno. E comunque, sappiatelo, non era propriamente un fiume, ma come un corso d’acqua leggermente inclinato, digradante, che mi portava quasi scivolandoci sopra senza che il mio corpo vi si immergesse. Sulle sponde una luce marginale eppure chiara, senza l’invadenza eccessiva di nessun riverbero. Ecco, me ne andavo così, avanti. Poi, all’improvviso, come ombre diafane al mio fianco, mi si fanno vicine delle presenze, non dico mute, no, però neppure parlanti, quasi fossero delle forme impalpabili che mi parlano nella testa in un linguaggio perentorio, netto. Come potrei dire insomma: sì, come dei secondini che ti prendono sottobraccio e ti dicono così, con quel gergo degli aguzzini che non ha bisogno di convenevoli, di andare con loro. E io, beh, cosa potevo fare? Ci andavo, con loro, seppure sentissi una più forte capacità di non esserne spaventato dopo tutto. Quanto è lungo un percorso verso la fine? A che vaga credenza concediamo il permesso di stabilire con un’entità astratta, ma non di meno concretissima, quanto misura lo spazio che ci porta al termine di qualcosa? Sapreste dire voi, creature misere e dolcissime come me, differenti esistenze vicine e lontanissime, cosa sente ognuno di noi in quel che si compie nella più incompleta compagnia del tempo? Non lo so, perché mai dovreste rispondermi, se io stesso, sì, proprio io, non ho che un principio di farneticazione serale al quale non so minimamente porre la domanda in modo congruo? Riprendiamo il viaggio allora, non è ancora terminato. Giù, giù, quello scorrere sull’acqua sembrava non essere né troppo vicino al principio né così distante dal termine. Ma dove andavo insomma, dove andavamo? Improvvisamente, sulla sponda destra del fiume, ecco un vecchio coi piedi immersi nell’acqua fino alle ginocchia. Non so in che modo ma riesco a fermarmi e lui, con grandi occhiali da sole circolari e una bocca da bimbo raggrinzita mi parla: “ Tu, tu che sei tu”, mi apostrofa, “con quel tuo voler sempre dire le cose così in fretta, così smangiucchiate, così dentro la carne come una lama ringhiosa, ti pare questo il modo di passare da qui? E potevi pur farmela una chiamata al telefono per dirmi che saresti arrivato qui a quest’ora! E come si fa! Uno non può mica immaginarsi a che ora tempo e luogo stai per giungere? Per la madonna! Ti pare che non abbia da fare nulla tutto il giorno? Sei un bravo ragazzo lo so, ma io, io ho tutti i miei giorni da accudire, devo fargli da mangiare, lavarli, mandarli a scuola! Sii comprensivo e ascoltami. Ora tu riprendi questa cavolo di inclinazione che hai, che è tua e non ne voglio più sapere di certi ritorni. Chiaro? Ah, fammi un piacere, quando sarai là, tieni da parte una ciliegia e un bicchiere d’acqua fresca per me. Va bene? Saluti.” E tacque, tornando a sorridere con quelle due labbra rugose di bimbo attempato. I miei carcerieri non c’erano più. Sentivo che potevo proseguire da solo e che la spinta del fiume da me non chiedeva troppo né voleva sospingermi con forza. È mai possibile pattinare sul liquido? Sì, pattinare, senza sentire di dover spingere, ma solamente lasciandosi scorrere su delle ruote d’acqua! E io andavo esattamente così, con una tranquillità che mai avrei detto di tenere con me, con tanta e accomodante freschezza. E poi, lo ripeto fino alla nausea, ma dove diavolo dovevo andare, o meglio, fino a che punto potevo arrivare? Fu lì, in un’ansa semicoperta dall’andamento a biscia del fiume, che qualcuno mi diede la risposta. Era una donna, o forse una bambina, non ricordo bene, in piedi su una specie di ponticello arcuato che univa le due sponde, vestita con un saio rosa fino alle ginocchia, intenta a buttare monetine nell’acqua. “Tu vai a casa. Troverai le chiavi sotto il portico degli attrezzi, infilate tra il secondo e terzo mattone sotto l’interruttore della luce. La porta della casa è aperta ma servono le chiavi per chiuderla, altrimenti qualcuno potrà entrare quando tu sei dentro. Sul tavolo della cucina c’è il pane e il formaggio. Taglia due fette di formaggio uguali e spezza il pane in quattro. Nel frigorifero c’è il prosciutto e una bottiglia di birra. Così quando avrai finito di mangiare potrai ricordarti di tutte le cose che hai avuto. Me le potrai rendere un giorno, quando vuoi tu, fa’ con comodo. Le vedi queste monete che lancio in fondo al fiume? Sono parole che metto in fondo al letto di questo corso d’acqua affinché possano riordinarsi senza che nessuno le veda. Tutte le parole, mio caro, vanno in fondo e sberluccicano di tanto in tanto alla superficie, specie nei giorni di sole! Ciao.” E così avanti, ancora avanti portato da un movimento involontario, elastico, di fronte alle curve di quel canale che continuava a scendere dolcemente, quasi sdraiato con le mani conserte dietro la nuca, godendo quel farmi trasportare in un posto in cui non mi importava nulla di giungere. Ricordate le giostre? Avete presente il codino che si cercava di prendere mentre la giostra girava e che pendeva da una cordicella che qualcuno abbassava al vostro passaggio per poi rialzarla subitamente per rendere più ardua l’impresa? Ecco, a un tratto vidi qualcosa di fronte a me che stava appena sopra la mia visuale e pareva proprio quel codino della giostra che mi chiamava all’impresa di afferrarlo. Ma non dovetti fare il benché minimo sforzo, con una facilità estrema, senza nemmeno togliere l’altro braccio da sopra la testa acchiappai immediatamente quella cosa che mi sfrecciò sopra al mio passaggio. Era un libro. Un libro con la copertina nocciola. Senza titolo. Lo aprii e alla prima pagina c’era scritto questo: “Leggi la prima parola di questo libro e subito dopo leggi l’ultima. Quindi salta una pagina e ritorna da capo. Quando incontrerai la parola adesso chiudi il libro e pensa a quello che vuoi. Ricorda che tra la prima e l’ultima parola di questo libro ci sono tutte le parole del mondo e se cercassi di contarle non riusciresti a farlo prima di addormentarti. La storia di questo libro non ha nessuna importanza proprio perché è una storia come tutte le altre e nessuno può dirla né vera né falsa. In ogni virgola contenuta nel libro ci sono infinite storie che tu non potrai mai leggere, ma ciò non ha nessuna rilevanza con la storia stessa e nemmeno con la tua. Se dovessi tornare indietro in qualche passaggio della storia non riuscirai mai a rileggere perché le parole scompariranno ogni volta che tenterai di farlo. L’autore di questo testo non sono io nemmeno tu, e forse non l’ha scritto nessuno. Apprendere è un gioco e nei giochi migliori si ride sempre. Adesso leggi.” Girai la pagina ma il libro era finito. Una sola pagina. Poi guardai ancora davanti a me, chiudendo il libro. E c’era la luna.
Fabrizio Bernini
Fabrizio Bernini, nato a Broni (Pavia) nel 1974, vive a Milano. Ha pubblicato La stessa razza (Lietocolle 2003), libro vincitore Premio Orta 2003, sezione Opera Prima, Premio "Giuseppe Piccoli" 2004, sezione Opera Prima, Premio Cetonaverde poesia 2005. Nel 2011 per la collana Lo Specchio Mondadori pubblica L'apprendimento elementare. Scrive per l'EstroVerso da gennaio 2012.