Il “Vascello fantasma” di Marietta Salvo e la poesia come strumento di reciproco di arricchimento.

«C’è un tramonto e giardini/ nascosi in verticale./ Ci stacchiamo dal molo lenti/ come bestioni in letargo./ Inizia cogli occhi la grande ricerca/ del comandante. E ricostruire/ la mappa e il diario di bordo.», versi di Marietta Salvo per introdurre la lettura di Vascello fantasma libro, edito da Giulio Perrone, nella collana diretta da Giorgio Ghiotti, la cui scrittura ci risucchia (questa è la sensazione avuta leggendo) dentro la pagina che diventa luogo (ora preciso, ora sconfinato), che diventa terra d’origine (“bozzolo d’incanto”), che diventa memoria (ora consolatoria, ora dolente), che diventa spazio di salvezza nella ferma consapevolezza della morte come “insostituibile misura del vivere”, osserva Antonio Di Grado nella nota introduttiva, dell’amore incondizionato come misura di redenzione, aggiungiamo. Marietta Salvo, come il celebre capitano (evocato dal titolo della raccolta) naviga fino al giorno dell’equità, scioglie la “trama dei silenzi”, ritorna, risogna “cammini sull’acqua”, naviga in un mare autobiografico che abbraccia un’intera esistenza, ritrova le tracce, attraversa rotte di un tempo incantevole, odoroso, doloroso, fino ad approdare (fissare) l’universale rotante, “L’incongrua onniscienza del vuoto/ che sale a momenti la cui persistenza/ colpisce”.

Marietta Salvo (nella foto di Sandro Messina) nasce a Messina nel 1952, è vincitrice per la Poesia del Premio Internazionale di Letteratura “Eugenio Montale” nel 1989. Pubblica con la casa editrice Scheiwiller la silloge poetica Aritmie nel 1989 e nel 1993 esce per Il Girasole Edizioni la raccolta poetica dal titolo L’insano gesto. Nel 1999 esce il volume Il senso del racconto (Perap Edizioni, Palermo). Ha collaborato negli anni alle pagine culturali de «L’Ora» e della «Gazzetta del Sud». In vista della presentazione del suo “Vascello fantasma”, il prossimo sabato 27 Novembre, alle ore 18, nella Sala Consiliare di Zafferana Etnea, l’abbiamo intervistata.

In che modo la vita diventa linguaggio? E, ancora, qual è stata la scintilla che ha portato il tuo impetuoso Vascello fantasma

La vita diventa linguaggio per me da quando ho memoria di tutte e due. Coincide col senso di me, col desiderio di nominare tutto quello che mi circondava e con cui venivo in contatto. Sono cresciuta in una famiglia di insegnanti, con tanti libri attorno da sempre, e quindi la curiosità delle storie da leggere e scrivere ha fatto parte di me da quando ho percezione dell’esistenza stessa. Ho imparato a leggere prima ancora di andare a scuola perché seguivo mia madre insegnante, i suoi colloqui con gli allievi, la preparazione delle sue lezioni, la scelta dei libri di testo e nasceva in me la voglia di conoscere, di entrare in quel mondo immaginifico e complesso, senza confini, che viene dalla gestione e costruzione delle parole. Molti dei libri che mi circondavano erano ‘proibiti’ perché secondo i miei genitori inadatti ad una bambina/ragazzina preadolescente curiosa come io ero allora. Dal loro punto di vista, comprendo adesso, era anche giusto che fosse così. Come tutti i genitori della loro generazione pensavano di proteggere l’innocenza dei figli allontanando conoscenze dolori e pericoli. Ebbene invece per me quello della lettura era il mondo sconfinato, magico, in cui desideravo entrare a tutti i costi. La proibizione era poi non so per libri come Il Muro di Sartre o Erasmo da Rotterdam o che so Metello di Vasco Pratolini o La Montagna Incantata e I Buddenbrook di Thomas Mann o anche tutto Shakespeare o Grazia Deledda. O Proust. La frase simbolo era: ‘ci sarà tempo…dopo…quando sarai grande’. Ebbene per la me bambina (che cresceva peraltro in un paese come Falcone, poiché mio padre era quel che allora si chiamava Direttore Didattico e veniva mandato nei paesi della provincia messinese, e mia mamma aveva rinunciato a insegnare al superiore per seguirlo e quindi a utilizzare la sua laurea e faceva la maestra) quei libri e altri e altri ancora diventavano il passaporto per potere girare il mondo. E quindi cominciai ad accedere di nascosto a questi tesori: Canne al vento, Le sorelle Materassi, La colonna infame, ma anche Gibran, ma anche Quasimodo (molto amato da mio padre), Cattafi, e Montale e Ungaretti e Graham Greene e Proust e De Balzac. Poi ovviamente tra i consentiti c’erano le Fiabe dei Fratelli Grimm e di Luigi Capuana e tutte quelle che ogni sera e ogni volta che aveva tempo mia madre mi leggeva o raccontava. Fino ai dieci anni ho vissuto tra Montalbano, Tortorici, Falcone in un mondo esteriore ristretto, mentre il mondo immaginifico, che invece toccava i luoghi del mondo che le parole mi restituivano, si allargava e si popolava a dismisura. E si popolava e pressava sulla mia fantasia prendendo variegate forme, che io ritenevo fossero di racconto, ma il più delle volte erano diaristiche e poetiche. Riempivo i quaderni neri semplicissimi di quegli anni, che peraltro a casa mia si trovavano in grande quantità perché molte volte gli alunni della mamma non avevano i soldi per comprarli e allora noi avevamo sempre pile di quaderni a righe e a quadretti. Avevamo anche tanta carta per scrivere a macchina. Papà aveva una Olivetti Lettera 22 che è stata la mia prima compagna di giochi. La utilizzavo di nascosto, quando lui era fuori, e da autodidatta imparai a scrivere velocissima battendo sui tasti. Così nacquero i miei primi racconti e poesie e relazioni sui libri che leggevo. Insomma avevo una specie di giornale autonomo immaginario in cui scrivevo di tutto, anche cose che poi capii si chiamavano recensioni. Non erano ancora ovviamente le poesie del Vascello Fantasma, ma gli intrecci, gli amori, le memorie narrate dalle voci familiari, i racconti di mia nonna, i desideri di mia mamma, i piccoli dolori delle mie compagne di scuola, le tensioni familiari, tutto quello a cui non riuscivo a dare un nome ufficiale diventava materia da trattare con la mia macchina da scrivere e con le parole. Parole che cominciavano ad avere i suoni dei miei sentimenti, di quello che non riuscivo a esprimere a voce alta perché mi pareva insopportabile e che sicuramente gli altri non avrebbero sopportato.

La poesia è (anche) la lingua dell’invalicabile?

Si ecco forse per tutti questi motivi la poesia può essere, anzi deve a volte essere la lingua dell’invalicabile. Deve essere manipolata per dare una forma a tutto questo magma di desideri, eventi, fatti, emozioni inconosciute che poi diventeranno conosciute, o ad emozioni inconoscibili che magari lo rimarranno e a cui si accede solo con la visionarietà e il ritmo del verso. Grazie alla amata Olivetti lettera 22, tutto questo magma creativo primario, schiacciato dal rullo e pestato dai tasti diventava sopportabile, vivibile, si staccava da me e toglieva dolore. Dava pace. La poesia e la scrittura cominciarono a salvarmi la vita senza quindi un progetto preciso e costruito razionalmente. Si fecero strada dentro di me in maniera molto naturale. Mi guardai attorno e cercai appigli, come quando ti trovi in mare aperto, senti che i marosi ti stanno per sopraffare e trovi uno spuntone di roccia o un pezzo di legno o un relitto qualunque a cui aggrapparti. Fu il modo che una ragazzina (piena di sogni, pensieri, emozioni, ansie, energie, desideri sconosciuti e che sembrava fossero strani) trovò per salvarsi, per crearsi una vita ricca e preservare la fantasia e la vitalità e costruire cultura e conoscenza. Adesso capisco che era solo adolescenza e preadolescenza, accade anche adesso e anche adesso si cercano i salvavita. Magari poi tutto questo non sempre si trasforma in letteratura, poiché è necessario per questo studiare molto e rafforzare l’ispirazione con l’istruzione, l’approfondimento dei libri degli altri, l’individuazione di analogie letterarie importanti e di numi tutelari. Apprezzo particolarmente le domande sulla ricerca linguistica, e il suo utilizzo creativo nelle opere poetiche. È un lavoro faticoso e impegnativo che se si desidera essere autrici/autori è necessario fare.  Portando la Poesia nella scuola con laboratori e incontri significa anche questo: spiegare come lavorare su ispirazione, studio, ritmo e linguaggio. Questa è uno dei regali più belli del Vascello Fantasma, avere la possibilità di portare la bellezza della poesia, la speranza che le parole danno a chi scrive e a chi ascolta/legge, a contatto con giovani e giovanissimi e con i lettori in genere. C’è una grande e intensa risposta su questo che mi piace molto. La poesia come strumento in un percorso reciproco di arricchimento lo considero davvero un dono legato al Vascello Fantasma, che si può definire il mio libro del ritorno. Il libro che, a vent’anni dalla mia ultima pubblicazione letteraria, mi ha riportato al dialogo coi lettori. Spiego meglio. Come si vede dalla mia biografia il mio ultimo libro, dopo il premio Montale e Aritmie con Scheiwiller e L’insano Gesto con Il Girasole Edizioni, era stato un libro di racconti uscito per Perap nel 2000. Da allora mi sono ritratta al rapporto editoriale e pubblico con la letteratura, dedicandomi solo al mio lavoro con l’università e alla mia famiglia, la poesia quindi diventò fiancheggiatrice diciamo così del mio percorso quotidiano. Nel senso che ho sempre continuato a scrivere e leggere e lavorare intensamente a scritture e riscritture però rimandando sempre il momento del ritorno alla pubblicazione. Tutto questo poi evidentemente è avvenuto quando i tempi sono stati maturi, tempi esterni e interni, diciamo così. Quando i tempi sono stati compiuti.

La forma quanto incide sulla “verità” della (tua) parola poetica?

La forma incide tanto sulla verità. Io lavoro molto sulla parola per renderla il più possibile aderente alla verità dell’emozione che la genera. Lavoro per portare sulla carta e trasformare in versi armonici il sentimento primario, quella musica interiore suscitata da un ricordo, da un evento, da qualcosa che deve insopprimibilmente diventare narrazione.  La storia dei luoghi, le leggende che si scrivono sul corpo e sulle esperienze della gente che abita i luoghi, come accade in Flussi Barbareschi. Oppure in Appunti Sparsi e Persi. La grande sfida è trovare il tono giusto che aderisca assolutamente alle parallele emozionali che quel verso, quel componimento, quella silloge deve rispecchiare. A volte è un suono dialettale, a volte un suono falsato rispetto a quello corretto, a volte un suono mischiato a un’altra lingua. Insomma cerco di rendere la visionarietà del momento creativo e fare funzionare una simbiosi pensiero primario/storia narrata/ lingua costruita.

Quando una poesia può dirsi compiuta?

Per me una poesia è compiuta quando tutto questo si realizza. Non è solo magia dell’ispirazione, non è solo istinto né solo tecnica, come spesso si suppone. È sicuramente tutto ciò insieme, e tutto serve per costruire l’amalgama magico. Per questo ci vuole tanto impegno e tanta passione, tanto amore per il proprio lavoro letterario, ma anche tanto studio e conoscenza della scrittura degli altri, di tutti i meccanismi del complesso mondo letterario e editoriale, che peraltro adesso sono sempre più alla portata di chi vuole accostarsi alla scrittura e alla poesia.

Leggendo il tuo libro ho pensato (trovandola calzante) alla riflessione di Giovanni Raboni quando diceva che la poesia è un linguaggio al tempo stesso accuratamente premeditato e profondamente involontario, capace di connettere fra loro le cose che si vedono e quelle che non si vedono, di mettere in relazione ciò che sappiamo con ciò che non sappiamo. La trovi calzante? Ci daresti, nel contempo, la tua (attuale) definizione di poesia?

Sono particolarmente contenta della tua citazione di Giovanni Raboni, uno straordinario poeta e non solo, anche un grande intellettuale protagonista di eventi culturali legati alla poesia e alla letteratura negli anni in cui io ho lavorato di più in quell’ambito cioè tra gli anni 80 e il 2000, da me molto amato e che ho avuto l’onore di incontrare e conoscere meglio, come Antonio Porta, Nelo Risi, Milo De Angelis, Maurizio Cucchi, Valerio Magrelli, Sebastiano Addamo, Patrizia Valduga, Patrizia Cavalli, e tanti tanti altri…non vorrei fare torto a qualcuno perché dovrei citarli tutti. In quegli anni si pubblicava tanto sulle Riviste e io ho avuto l’onore di essere pubblicata da quasi tutte quelle di quegli anni: da Arsenale a Poesia a Alfabeta, per citarne solo alcune. Ricordiamo che Alfabeta venne definita da Romano Luperini “l’ultima rivista del Novecento italiano, l’ultimo nucleo culturale che tiene acceso il dibattito letterario, politico e culturale […]”. Insomma anche in questo caso non vorrei fare torto a qualcuno, sarebbe difficile citare tutte e tutti. Io sono molto orgogliosa comunque di tutto ciò. Sono molto orgogliosa del lavoro intenso fatto in quegli anni in giro per l’Italia della poesia, della letteratura alta, della ricerca, del mettersi in gioco. Erano gli anni in cui collaboravo anche con giornali importanti come L’Ora di Palermo, con tantissime riviste letterarie e culturali. In Italia e in Sicilia. In questa zona per esempio in quegli anni ho lavorato tanto con poeti di grandissima qualità, collaborando a riviste e premi. Posso dire di essere stata in quegli anni a stretto contatto con i capisaldi della poesia italiana del Novecento e lo dico con grande orgoglio e onore, perché tutto questo mi ha costruita giorno per giorno, anche quando ho fatto altro. Quindi si, senza dubbio la definizione di poesia di Giovanni Raboni è calzante, è chiara, illumina, come fanno i suoi versi; e peraltro come potrebbe essere diversamente? Sicuramente mette in luce uno degli elementi fondanti della creatività poetica, cioè appunto l’“accuratamente premeditato e profondamente involontario”, mi pare che ogni poeta che apre il proprio personale laboratorio di scrittura fa emergere proprio questo. È quello di cui abbiamo parlato finora. Poi sai la poesia più che di definizioni secondo me in questo momento ha bisogno di diffusione e disamine e supporti che, attraverso la conoscenza e gli incontri con i/le poeti/e, aiuti il mondo dei lettori a sfatare i pregiudizi atavici: la poesia è ostica, difficile, di nicchia. Penso che proprio in questa specifica nostra contemporaneità, con tutto quello di pesante che socialmente abbiamo vissuto, è importante aiutare a comprendere il grande strumento di diffusione della bellezza e della cultura e della speranza che è rappresentato dalla poesia. Quindi scoprirla, cercarla, ascoltarla, leggerla, scriverla con apertura di cuore e mente. E più si conosce, più ci si addentra nelle pagine dei poeti e più tesori si accumulano, che aiutano a mantenere l’incanto, che serve non solo alla nostra vita, ma anche al nostro quotidiano.  Io personalmente tengo sempre più libri di poesia sparsi per casa, oltre a quelli rigorosamente ordinati negli scaffali della mia libreria, ‘volumi di pronto soccorso’ come li chiamo io, che mi danno energia e luce quando i momenti sono bui anche per banalità, non solo per i grandi malanni e le grandi brutture. Le poete e i poeti amati sono per me il viatico primario.

Qual è stato, ad oggi, il dono più prezioso ricevuto in dono dalla poesia? 

Questo è il dono più prezioso, o meglio uno dei tanti doni concatenati che la poesia nel tempo ha strutturato per me: la costruzione della speranza. Che poi passa per tanti altri sentimenti, per tutto quello di cui abbiamo parlato finora, cioè: la conoscenza e l’individuazione di sé; la conoscenza e la costruzione delle parole per dire, descrivere, raccontare, tramandare, inventare, trasfigurare. Dalla elaborazione e rielaborazione continua di tutto questo si arriva alla conoscenza, al sapere, al rispetto, all’amore, allo splendore della costruzione del futuro, della bellezza, dell’orgoglio di sé della propria storia e dei luoghi che rappresentano la propria storia. Insomma si lavora sulla speranza, la poesia ci aiuta in questo, là dove potrebbe sembrare che tutto è perduto e che troppe distruzioni e calpestìi ci sono stati.

Riporteresti una poesia o uno stralcio di testo nel quale all’occorrenza ami rifugiarti?

Come ho detto esistono parecchi stralci di testo e poesie a cui mi rifaccio e non riesco a trovarne solo uno rappresentativo. Posso dire che adoro i classici che ho studiato a scuola ovviamente e che poi però mi sono innamorata delle poete su cui ho anche lavorato molto e che sono diventate le mie “colonne di ossigeno” come le amo definire appunto nei momenti pesanti e duri della vita. Su parecchie di loro ho anche scritto ovviamente e fatto dei lavori specifici. Come Emily Dickinson, Sylvia Plath, Anne Sexton, Ingeborg Bachmann, Marina Cvetaeva, la Szymborska e tante altre …al solito ci vorrebbero pagine e pagine per citare solo i nomi delle/dei miei amati (anche perché i miei anni diventano sempre dii più e io sono una lettrice onnivora). Diciamo che’ La doppia immagine’ di Anne Sexton e ‘Lady Lazarus’ di Sylvia Plath (con il suo “Morire è un’arte”), sono per me oggetto di lettura e rilettura continua, come Amelia Rosselli, Antonia Pozzi, Nadia Campana, Maria Luisa Spaziani, Vivian Lamarque, Patrizia Cavalli, Alda Merini, Cristina Campo, Dacia Maraini che mi invitò al suo ‘Io scrivo, tu scrivi’ come poeta emergente insieme a Carla Cerati una scrittrice affermata e importante, un’altra delle scrittrici illuminanti per il mio percorso di scrittura e di vita. Poi ci sono quelle con cui ho percorso un pezzo di strada e che posso considerare amiche e vicine alla mia vita come Maria Attanasio che io adoro, come poeta e come scrittrice, la sua raccolta Nero Barocco Nero mi ha illuminata e la sua conoscenza ha arricchito la mia vita. E anche Jolanda Insana, che ho conosciuto per la peculiarità della sua ricerca sul ritmo del verso e la sperimentazione selvaggia sulle parole e le commistioni con la cultura classica e con il dialetto messinese, che doveva fare parte di un mio lavoro sulle donne letterate siciliane del 900 che erano dovute emigrare per avere spazio (poi il lavoro rimase incompiuto ma…mai dire mai! Le mie schede e appunti sono ancora tutti lì in attesa). Il suo Fendenti Fonici, che era uscito in quegli anni mi aveva appassionata, incuriosita e i luoghi erano proprio quelli strettesi, lei era una mia concittadina di Messina. Ma ce ne sono tantissime che io amo, come Sara Zanghì e Giorgia Stecher anch’esse messinesi e altri e altre ancora.  Insomma stralci, versi, e fascinazioni in cui rifugiarmi ce ne sono parecchi. Per rifugiarmi però intendo sempre momenti di solitudine e concentrazione in cui guardare dentro il dolore e il malessere e la malinconia per poi però ritrovare un’energia e una potenza e un incanto e una magnificenza che solo la grande letteratura può sprigionare. Dovendo comunque riportare qualcosa ti dico che nel mio profilo Twitter il mio ‘tweet fissato’ è questo: “Accendere una lampada/ e sparire/ questo fanno i poeti/ ma le scintille/ che hanno ravvivato/ se vivida è la luce/ durano come i soli…”. Questi versi della mia adorata e immensa Emily nei miei periodi bui hanno rappresentato una sorta di lampada accesa nella notte, hanno alimentato quella costruzione della speranza che ha poi portato a Vascello Fantasma. Ecco perché l’ultima silloge quella che più porta il bagaglio per il “grande fango impastato/il futuro” è intitolata proprio ‘Scintille come soli’. D’altra parte come non fare riecheggiare nella mente anche la grandezza dei Fleurs du mal: “J’ai pétri de la boue et j’en ai fait de l’or”. È questo che fa la poesia, è questo che ogni poeta spera che avvenga con i suoi versi. Anch’io ovviamente non posso venir meno a questa speranza.

Per concludere salutando i nostri lettori, ti invito a scegliere una tua poesia dal libro “Vascello Fantasma” e, nel contempo, ti invito a portarci a ritroso nel tempo, a prima della stesura completa o della prima stesura, per raccontarci quanto “accaduto” così da permetterci di condividere (e meglio comprendere) il percorso che l’ha vista nascere.

La poesia che potrei condividere è: Ritornando nei luoghi (117/118), o Messina (119), o La Città di Sabbia (110). Per quello che riguarda la stesura completa di Vascello Fantasma copre uno spazio che va dal 1985 fino ai giorni nostri. E si può concentrare nella frase: scrivere, riscrivere, rivedere e rielaborar; leggere e rileggere e non stancarsi mai di cercare la ‘musica’ giusta, la tua personale corda poetica. Già vent’anni fa, quando è uscito il mio ultimo libro di racconti, la struttura di una silloge era pronta, già costruita per la pubblicazione. Dopo di che quel magma ha continuato a procedere e il libro di oggi si è costruito e compiuto ogni giorno di più, grazie a tutto quello di cui abbiamo parlato finora. Appunto: scrivere, depositare, leggere, rileggere, rivedere, fare risuonare dentro di sé il ritmo musicale e sillabico giusto. Ed aspettare di trovare la condizione perfetta perché il ‘Vascello’ salpi, col suo carico fantasmatico. È così che il mio Vascello Fantasma è salpato, dal momento del compimento editoriale inizia a nutrirsi anche della linfa vitale dei lettori, degli studenti, dei commentatori, di tutti quelli che entrano in contatto con il libro, che, similmente a un figlio, è ormai una creatura che ‘respira’ autonomamente. Un miracolo quindi che dà gioia e energia, che produce scambio di bellezza e speranza.

 

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