Giovanni Spazzini, Bicicletta, 2004

rubrica, Recinzioni 

Stavano per scadere i termini per la presentazione del modulo per l’inserimento in terza fascia del corpo docenti. Mi trovavo per questo, il mese scorso, il ventidue giugno, nella sala d’attesa di un sindacato di Biancavilla, quando ho potuto accorgermi di come possa dirsi morta la compassione e quanto paga di sé galoppi l’ignoranza.  

“Dio ci guardi dalla retorica”. Ricordo questa frase a memoria. È il 2003, un gennaio. La voce che sta parlando alla radio è quella di Jolanda Insana, una voce bassa, profonda, mascolina, una voce che della teatralità conosce i ritmi e le pause. Ne seguo le parole, lente, che paiono pesate e pesare. So già che la riascolterò con religiosa attenzione nei giorni successivi, perché la sto registrando su cassetta. La trasmissione, che va in onda da qualche settimana ed è a cura di Andrea Cortellessa, si chiama, montalianamente, Occasioni.

Quando il ventotto giugno Ferdiando Scianna, in compagnia di Angelo Scandurra in veste di editore, fa il suo ingresso nell’aula delle Ciminiere, a Catania, dove avverrà la presentazione del volumetto Il dolore vissuto, oltre al gran caldo, ad accoglierlo c’è, già compostamente seduta, una folla considerevole di estimatori. È il fotografo di Bagheria, piccolo e roccioso, che sin da subito si accosta agli amici che occupano le prime file, dà loro il benvenuto con strette di mano che immagino vigorose, come vigoroso, nel complesso, mi sembra essere lui. Si siede in mezzo a loro, mentre ripetuti lampi di flash, a immortalare quei primi momenti, lo investono da più parti: il paradosso di un fotografo fotografato.

L’idea è quella di mettere ‘in dialogo’ un poeta del passato e un poeta di oggi, legati da certa affinità: Jahier con Pagliarani, Saba con Raboni, Pasolini con Giudici, Cattafi con Biagini, Gatto con Luzi, Quasimodo con Insana. (Quattordici anni dopo, riprendendo in mano queste registrazioni conservate con cura, mi accorgo di come gran parte dei vivi di allora non siano adesso più tali).

Is this the life we really want? è un disco che milioni di persone nel mondo hanno aspettato per venticinque anni. L’autore, Roger Waters, bassista ed ex leader dei Pink Floyd, interrompe finalmente questa attesa facendo uscire il disco il due giugno. La copertina presenta una ventina di righe cassate da lunghe strisce di omissis da cui emergono solo le parole del titolo, Is this the life we really want? I testi delle canzoni, nel libriccino contenuto nel cd, sono sottolineati in rosso. Una serie di foto, in bianco e nero, fanno da commento ai versi delle canzoni: un drone, una lunga fila di migranti, il presidente Trump con l’indice proteso, la Statua della Libertà sorvolata da cacciabombardieri americani, un bambino che viene soccorso in acqua, l’occhio di una donna della quale intravediamo appena l’angolo delle labbra, dei militari che indossano maschere antigas. Nei credits Waters ringrazia l’Associated Press per il permesso dell’uso di alcune di queste foto. Per entrare nello spirito dell’album, quelle foto sono un ottimo viatico.

Dal divanetto a due posti che io e mia moglie occupiamo riesco a sentire alcune delle conversazioni. La sala ospita almeno altre otto persone. Nonostante provi da qualche minuto, non riesco ad accedere a Facebook. Odio aspettare. Ho con me Cronologia delle lesioni di Jolanda Insana. Un trentenne con gli occhiali dalla montatura a giorno spiega a una signora, che annuisce, quanto sia difficile lasciare la propria terra, gli amici e i parenti. Di certo farà la domandina fuori, mi dico, nel Nord Italia, come tanti di noi.  

Giorni dopo sono in macchina. La giornalista di Radio Rai, descrivendo la portata degli ultimi sbarchi, parla di ‘valanga umana’. A lavoro, per tutte e sei ore, non riesco a togliermi dalla testa quell’espressione, valanga umana.

L’accostamento tra Quasimodo e Insana è dettato da tre ordini di ragioni: la provenienza geografica, la frequentazione con un certo tipo di poesia, che generalmente chiamiamo ‘civile’, e infine la comune attività di traduttori dai classici greci. Ma è dopo l’ascolto della voce di Quasimodo che legge Alle fronde dei salici, pungolata da Cortellessa che lamenta “l’ombra di retorica” che appesantisce i versi del poeta modicano, che la poetessa di Messina, stanziatasi ormai da decenni a Roma, esclama: “Dio ci guardi dalla retorica”. Ricordo quell’esclamazione a memoria. L’ho tenuta presente in più di una circostanza.

Non riesco a pensarla senza sentirmene offeso. Valanga umana. Nel nuovo album di Waters c’è un testo in cui si accenna a un bambino steso sulla sabbia. Si intitola The last refugee, l’ultimo rifugiato. Il videoclip tratto dalla canzone, che vedo più tardi su youtube, conferma il mio sospetto. Il riferimento è a Alan Kurdi, maglietta rossa, braccia lungo i fianchi, pantaloncini, la faccia sulla sabbia. Potrebbe essere uno dei nostri figli. Un granello di quella valanga.

I libri che leggiamo o i dischi che ascoltiamo dialogano con noi. Instaurano, occupando uno spazio dentro di noi, conversazioni lunghe. Non li scegliamo certo a caso. Non se ne vanno.

Ancora l’aspirante professore trentenne: “Ci vogliono divisi, ci mettono l’uno contro l’altro: chi proviene dalle GAE, chi dal concorso, chi dal TFA”. La saletta puzza di urina di gatto, fa caldo. Mi decido a tirare fuori il libro della Insana. Rileggo Contro l’assedio delle ceneri, sottolineo un verso che mi colpisce e che alla prima lettura non avevo notato: “s’incarrettano per mare in gusci di noce”.

Cronologia delle lesioni di Jolanda Insana è un libro solo apparentemente postumo. Esce tre mesi dopo la sua morte, ma è stato – leggiamo nell’introduzione di Maria Antonietta Grignani – concluso e licenziato dalla poetessa circa tre anni fa. I tempi editoriali della poesia, si sa, sono tutt’altro che veloci. È stato pubblicato a gennaio da Sossella editore. Ne vengo a conoscenza solo a metà giugno. Contatto l’editore e me lo faccio spedire. Come tanti altri libri che cerco, non c’è proprio speranza di trovarne traccia in libreria. Si compone di quattro sezioni: Bocca immonda, Frammenti di un oratorio per il centenario del terremoto di Messina, Contro l’assedio delle ceneri e Terra / Luna: un’infinita risonanza.

È una pubblicazione pregevolissima e prestigiosa, Il dolore vissuto. Che vede la luce – parole dello stesso Scianna mentre la presentazione è ancora all’inizio – grazie all’insistenza dell’editore, Angelo Scandurra, che da qualche anno, dopo la gloriosa esperienza delle edizioni del Girasole, investe anima e corpo per realizzare ancora libri in cui la qualità si sposa con l’eleganza. Questo appena uscito dall’Italgrafica di Aci S. Antonio è uno dei gioielli di cui andrà in eterno fiero l’editore Scandurra e di cui possono gioire quanti di noi pensano che i libri vadano fatti con amorosa cura. Le nuove edizioni si chiamano Le farfalle.

La conversazione si allarga, fa giri più ampi e monopolizza infine tutti i presenti non appena viene tirato fuori, o spunta così, come dal nulla, il tema degli immigrati. Poso il libro sulle ginocchia, l’indice tiene il segno della pagina, guardo mia moglie, mi metto in ascolto. È ancora il futuro insegnante con gli occhiali che conosce così bene le dinamiche del divide et impera e che si rammarica di dover lasciare la sua terra a tenere banco.

L’album si apre con When we were young. Sentiamo gli orologi ticchettare e dopo pochissimi secondi ci sentiamo a casa. La voce di Waters è demoniaca, emerge poco a poco. Si chiede se siano stati i nostri genitori o Dio a renderci così come siamo. Gli orologi ticchettano ancora quando si apre Déjà vu e smettono soltanto quando Waters pronuncia il primo verso della canzone, If I had been god (Se fossi stato dio). È la canzone più bella e struggente dell’album e una delle più perfette dell’intera discografia watersiana, con e senza i Floyd. Raggiunge l’acme nella parte centrale del testo quando dice «Se fossi un drone / che pattuglia cieli stranieri / con i miei occhi elettronici / come guida / e il fattore sorpresa / avrei paura / di trovare qualcuno a casa / Magari una donna ai fornelli / che cuoce il pane o prepara il riso / o che mette giù a bollire qualche osso». Ti vengono in mente le immagini di quelle città siriane devastate dai bombardamenti e ascoltandola in cuffia, la prima volta, ti ritrovi in lacrime. È Waters, ancora arrabbiato.

«Non ci può essere compassione per il dolore e l’ingiustizia senza un sentimento intenso della felicità». Ferdinando Scianna, Il dolore vissuto.  

Contro l’assedio delle ceneri era uscita nel volume collettaneo curato da Gabriele Frasca e Renato Quaglia e pubblicato da Marsilio nel 2008. Si intitolava «Prediche per il nuovo millennio. Dall’assedio delle ceneri». I migranti sono il tema fondamentale di questo poemetto e con esso l’ipocrisia e la cecità dell’occidente: «e tu che non ragioni / e sull’altare innalzi pregiudizi / se non ti specchi / in quello straccio di pezzente sfortunato…». E mentre Insana, qui come altrove scadendo forse nella retorica, propone delle soluzioni alla follia collettiva: «Tornare al vangelo / alla parabola del cuore / chiudere la banca mangiasoldi / rovesciare i banchetti del mercato»

mi vengono ancora in mente due versi da Déjà vu, descrittivi ma non didascalici, a cui non sono estranee le suggestioni evangeliche: «The temple’s in ruins / The bankers get fat» (Il tempio cade a pezzi / I banchieri ingrassano).

Un libro che è già un dialogo, questo di Ferdinando Scianna. Dialogo tra testo e fotografia. Dove il testo non è semplicemente il commento alla foto, è un porre sul banco le questioni, le motivazioni, il pensiero che nelle foto rimangono eluse. E il tema, urgente perentorio, è il dolore. L’altro, che attraversa l’intero libro, una quarantina di pagine, è la compassione. Quasi non riesco a guardare gli scatti, mentre la persona accanto a me, che ha già comprato il libro all’ingresso, lo sta sfogliando. Vedo un uomo riverso su un marciapiede o una donna che allatta un bimbo smunto proteggendogli il capo dal sole. Immagini che non puoi ignorare. Eppure la tentazione è quella di pensare, non riguarda me, sentendoti però allo stesso tempo partecipe, trascinato dentro. Da più di un anno sono abituato a vedere mia moglie che allatta nostro figlio. È tra le cose più luminose che mi è stato dato di vedere in questi mesi di apprendistato paterno. È un gesto così familiare da sentirmi punto: riguarda me, riguarda me. È un fatto, però, che pur avendo avuto all’inizio tutta l’intenzione di acquistarlo, sfogliandolo prima di entrare, l’abbia poi lasciato lì sul banchetto. Nell’attesa che decidessi se quel libro mi riguardava o no. E che necessità ci fosse di lasciarmi inoculare quel sentimento fastidioso che non saprei neanche nominare. Angoscia, sconforto, senso di colpa, vergogna?

Quando faccio notare a tutti gli aspiranti insegnanti che nessuno si lascerebbe ammassare su un gommone per attraversare il Mediterraneo senza essere motivato dalla pura e semplice disperazione, si arriva al punto di non ritorno della discussione. Una donna in piedi davanti a me sostiene che non è vero che attraversano il mare. È vero invece che li andiamo a recuperare direttamente nelle loro acque, non appena si mettono in mare.

«Forse si può essere allegri solo se disperati. […] La depressione non contiene la compassione; la disperazione sì». Ferdinando Scianna, Il dolore vissuto

«Specchiatevi / e saprete cos’è ingiustizia». Jolanda Insana, Cronologia delle lesioni.

Dopo Picture that, unico brano esplicitamente rock dell’album, che riecheggia per certi aspetti i fasti di un capolavoro floydiano come Animals, Is this the life We really want si trascina cupo ragionando di libertà, di paura, di democrazia, fino a Smell the roses quando Waters ci porta direttamente nella stanza dove «fabbricano l’espolosivo / dove mettono il tuo nome sulla bomba /  dove seppelliscono i ‘se’ e i ‘ma’ / e scartano parole come ‘giusto’ e ‘sbagliato’».

La parte centrale del libro di Ferdinando Scianna, forse il nucleo fondante e ragione principale di questa pubblicazione, è l’episodio di Makallè. Durante la presentazione, il fotografo di Bagheria non lesina dettagli, il suo racconto diventa confessione. Siamo in Etiopia, all’inizio degli anni Ottanta, nel pieno di una terribile siccità che costringe migliaia di profughi a spostarsi verso un campo, un ex macello, posto fuori di un centro abitato dove vengono accolti e sfamati con un pugno di riso. «Dal campo, specialmente la notte, saliva un suono spaventoso, come se quelle migliaia di persone fossero diventate un solo corpo dal quale esalava straziante un unico lamento». Ne morivano, prosegue Scianna, una cinquantina al giorno. Ad un certo punto, poi, si ritrova, prima ancora di capirne il senso, a fotografare nella tenda della Croce Rossa una stranissima operazione: decine e decine di bimbi smagriti che vengono pesati e misurati dagli infermieri. «Chiesi perché. Mi spiegarono che in questo modo selezionavano quelli che avevano bisogno di un intervento urgente, tralasciando gli altri per i quali era troppo tardi». Un’operazione illuminista, razionale, comprensibile – dice Scianna durante la presentazione – ma che ugualmente lo getta in uno stato di «collasso psicologico». Il risultato è che non se la sente più di fare foto, ne ha un rigetto: «che senso ha fare foto in una situazione del genere?». Un medico italiano della Croce Rossa, al quale Scianna chiede di indicargli qualcosa di più utile da fare, gli risponde che ha altro di più urgente di cui occuparsi. La tentazione – sorella della mia, che è quella di non comprare il libro, non costringermi a vedere, mi chiedo adesso? – è quella di fuggire, prendere il primo aereo, voltare le spalle.

Il fatto è, sta spiegando adesso il futuro professore con gli occhiali (è in piedi anche lui, adesso, il prossimo a essere ricevuto sarà lui), che questi immigrati vengono accolti per essere bacino elettorale per i pietosi governanti. Trasecolo. Gli spiego con un sorriso di scherno che non possono votare, gli immigrati, ci mancherebbe. Che sta facendo una grossolana confusione con la proposta dello ius soli che il Parlamento sta discutendo, ma che proprio non c’entra niente. Non lo scalfisco. Non demordo: non eri tu, poco fa, gli dico, che dicevi quanto sia dura lasciare la tua terra? Perché questo non dovrebbe valere per loro?    

«Fai il fotografo? Non è questo che volevi fare? Fallo bene allora. Cerca di mettere nelle tue foto la tua angoscia e la tua pietà. […] Non fuggire. Tornai a fare il mio mestiere» scrive Scianna nel Dolore vissuto. Nemmeno per un attimo un’ombra di retorica cade sulle sue parole. Il Maestro non pensa più che le sue foto possono cambiare il mondo, o migliorarlo. Continua tuttavia a credere che le cattive fotografie, di certo, lo peggiorano.

Secondo la tradizione, Biancavilla è stata fondata da una comunità albanese sfuggita alla dominazione turca alla fine del XV secolo. Propriamente, da un manipolo di immigrati.

Dio ci guardi dalla retorica, dice Insana alla radio. Quando non riusciamo a guardare le cose dentro e nella superficie che le mostra, continua, quando cioè l’invisibile non si fa visibile, le strade che la parola può percorrere sono false. Continuo a pensare che la poetessa messinese non stava parlando soltanto di poesia.

Un ragazzo magro ed atletico interviene. Dopo un po’, insinua che il motivo per cui ‘difendo gli immigrati’ sia perché, forse, lavoro al Cara di Mineo, ne traggo qualche tipo di interesse. No, perché l’ultima volta che si è ritrovato davanti una che difendeva gli immigrati, poi ha scoperto che lavorava al Cara di Mineo. Gli assicuro che no. Io e mia moglie ci guardiamo e sorridiamo. Comunque, conclude, non è mica qui che risolviamo il problema. Per fortuna, rispondo.

L’amore. L’amore chiude l’album di Waters. Una lunga suite, della durata di tre brani, ne esalta il potere di redenzione: «La parte di me invidiosa / insensibile e subdola / avida, dispettosa / globale, coloniale / sanguinaria, cieca / stupida e dozzinale […] / da quando ti ho incontrata / quella parte di me è morta».

L’amore tra Luna e Terra chiude l’ultima sezione di Cronologia delle ceneri di Insana: «da dove mi venne quest’amore nel petto / Selene»

Posso chiederle se lei crede in Dio, domanda mia moglie a Scianna, mentre il Maestro mi firma la copia (alla fine della presentazione, convinto che andasse fatto, l’ho acquistato). Ma Lui crede in me, è la sua lapidaria risposta.

Uscendo dalle Ciminiere, Viale Africa è piantonata già dalle lucciole.

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