Julian Zhara, “la poesia è nell’ascolto”

Julian Zhara  ph @SHOOTING_DIFFERENT Riccardo Tosetto

«Nella lingua dei tuoi antenati / la parola amore se esiste è letteraria, / in mezzo ai campi si fa altro, in amore / è la patata che si squaglia, un raccolto / impazzito, è in amore un uomo che sbanda, / il bestiame che non obbedisce; / bastava allora il voerse ben. // Nella lingua dei miei antenati, / preti, ufficiali e mercanti, / l’amore viene versato altrove / e se avanza, all’amata – bisogna quindi, disporne; / e ridiamo di quanta zavorra e detriti / trascina dietro di sé la parola amore.», versi di Julian Zhara (nella foto di Dino Ignani) tratti da “Vera deve morire”, libro d’esordio pubblicato da “Interlinea”, collana “Lyra giovani” a cura di Franco Buffoni. Un moderno poemetto sul potere illimitato e misterioso dell’amore, il cui titolo, con un rimando shakespeariano, è ispirato a “Vera”, racconto crudele del maestro del simbolismo francese Auguste de Villiers de L’Isle-Adam. Abbiamo scelto, in apertura, per introdurre la nostra intervista, ritagli di una poesia emblema di un lavoro bilingue che offrendo la riflessione su un tema perennemente irrisolto mira alla comunione tra l’italiano, lingua della comunicazione quotidiana e della formazione letteraria di Zhara, e l’albanese, lingua dell’infanzia e dell’inconscio.

Qual è il ricordo (o un tuo aneddoto) legato alla tua prima poesia?
Ero sul balcone della mia casa a Durazzo, Albania, terza o quarta elementare. Guardavo la collina fuori e cercavo di immaginarmi cosa c’era dietro; intanto surfavo sui miei pensieri, quando non mi immergevo. Stavamo in una vallata. A sinistra il faro, la villa del re, che divideva la mia visuale dal mare; di fronte vegetazione e qualche casa sparsa e dietro non so, non ho mai voluto vedere per poterlo ancora immaginare e tuttora sogno di andare sopra quella collina per vedere cosa c’è dietro. Dopo non so quante ore che ero lì, mi monta una sensazione strana, che chiedeva di uscire, fissarsi. Ho preso un quaderno e una penna e ho cercato di isolare la sensazione, portarla in versi, come quelli che imparavo a memoria e leggevo già. Ma mentre scrivevo ho iniziato a distorcere il senso, giocare con l’ordine delle parole. La sensazione era sparita ed ero dentro un processo di gioco. Mi stavo divertendo. Stavo creando. Non avevo isolato la sensazione di prima che ormai si faceva un ricordo lontano ma ero felice, sorridente: avevo giocato con le parole e disposte come i soldatini per un’occupazione militare. Ero il generale di un’armata di parole nella lingua albanese.
Cambio scena: dieci anni dopo o poco meno. In vacanza con gli amici. Innamorato di una ragazza a cui non sapevo come dirglielo; non volevo rovinare un rapporto di amicizia. Così la prima sestina. Finalmente mi usciva qualcosa di soddisfacente in italiano. Nella mia seconda lingua. Finalmente riuscivo controllare la lingua e accompagnarla musicalmente come potevo – a pensarla oggi, quella sestina, la accompagnavo goffamente anche se con patetica tenerezza. La gioia era la stessa di anni prima ma: scrivevo e non agivo con la ragazza.
Se da piccolo la poesia ho già capito essere legata al gioco, poi ho compreso essere una violenza alla vita, un atto di vigliaccheria, che tutte le poesie di quel periodo avrebbero dovuto tradursi in poche parole, gesti semplici.

Quale (e per quale ragioni) poeta e relativi i versi che non dovremmo mai dimenticare?
L’incipit più bello della poesia del Novecento è “Due mondi – e io vengo dall’altro” della Campo. La chiusa più bella è invece “Dio è il seme di papavero più piccolo al mondo / scoppia di grandezza” di Zagajewski. Invece la poesia per me cardine, la mia preghiera laica quotidiana per un lungo periodo, che leggevo ogni giorno ad alta voce, è “Fluisce tra me e te nel subacqueo un chiarore” della Rosselli. Il ritmo di quella poesia è qualcosa di arcaico. Consiglio a tutti di farsi attraversare. Non lascia indenni. Ce ne sarebbero altre, come La Rabbia di Pasolini, in particolar modo la terza strofa ma dovrei scriverne un libro per rispondere alla domanda.

Riporteresti una poesia o uno straccio di testo (altrui) nel quale all’occorrenza ami rifugiarti?
“Vado in verso e uccido io per voi” di Ivano Ferrari mi dà la carica, la forza. Ogni volta che scrivo penso a un verso di Luigi Nacci: “Pianta la tenda nel baratro”. “Vincerai tu. Dovrai patire” di Buffoni invece, descrive mirabilmente quanto mi aspetta dal futuro. “Scrivere come se questo / fosse opera di traduzione / di qualcosa già scritto in altra lingua” di Magrelli perché la poesia è una continua traduzione da a e viceversa (se qualcuno vuole vederci il lato biografico, forse non è in torto). “Only a hero could deserve such love” di Auden, mi scannerizza dentro quando ripenso alla mia famiglia, ai miei affetti, a quando mi sento in difetto verso di loro, l’amore di cui mi inondano sempre. “Par delicatesse j’ai perdu ma vie” di Rimbaud, ogni volta che mi giro indietro a ripensare al passato. “Tutto è menzogna e delirando io vivo” di Metastasio.

Qual è la tua attuale spiegazione/definizione di poesia?
Una lingua che balla sul ritmo dei propri passi, l’inconscio che si incarna nel dizionario, il suono della frizione tra ciò che chiamiamo vita e quanto sappiamo in parole.

Quando una poesia può dirsi compiuta?
Quando pure una virgola aggiunta, uno spazio bianco tolto, la imbruttisce. E quando trova un lettore, un ascoltatore che ci pianta la tenda e la abita.

La poesia necessita più di ascolto o di essere ascoltata?
Ti rispondo con un aneddoto. Due tre anni fa, in un periodo di grosso nervosismo e di chiusura, becco nella fermata del vaporetto (abito a Venezia e ci si muove anche così) il gestore di uno dei più bei ristoranti della città, ex bassista professionista e oggi dedica il suo impegno a La Riviera: GP. Mi chiede come va con le poesie e gli rispondo che sta città non dà più stimoli. Ma no, invece – risponde. Ascolta: le onde, mettiti in ascolto: l’imbarcadero che scricchiola, la catena sulle briccole, i passi la sera, l’inflessione delle parlate, quasi tutte le lingue del mondo. Ascolta. Poi ci salutiamo e la sera stessa, tornato a casa tardi, mi dico che ero stato proprio uno scemo, così contratto (uso un parallelo muscolare) da essermi chiuso a tutta la musica che c’era intorno. E sulla suggestione della catena sulle briccole, che si aggrappa disperata quando c’è bassa marea, e il lamento che sembra uscire a ogni onda, che pare il glissato di viola di Cale in Venus in Furs, ho scritto la mia villanelle “Continuo ad aggrapparmi disperato ai tuoi fianchi”. La poesia è nell’ascolto, per rispondere alla tua domanda.

Oggigiorno qual è (ammesso che ne abbia uno) l’incarico della poesia?
Agire sulla lingua, quindi sull’immaginario. Ritornarci al primo sguardo di Adamo. Innescare la crisi nel lettore, facendolo interrogare sul detto e sul dire. Non ha incarichi politici, se non come conseguenza di quanto detto prima. Non salva nulla né migliora il mondo.

La parola poetica per preservare la propria efficacia comunicativa deve “esprimersi” usando il linguaggio del tempo in cui nasce e vive?
Ci sono nobili e rarissime eccezioni ma direi decisamente sì. Ce l’hanno insegnato i grandi, soprattutto Sanguineti in quel capolavoro di “Postkarten”. Mi ha fatto molto pensare quanto scriveva un giorno la Policastro al riguardo, che la parola chiave di “Oggi il mio stile / è non avere stile” è “oggi”. E aveva ragione.

Qual è stato, ad oggi, il più grande insegnamento ricevuto in dono dalla poesia?
Aumentare le prospettive, “tridimensionare” la conoscenza della lingua, quindi del mondo, fare del dizionario un probabile spartito. Per me, in poesia, l’imbarazzo dell’essere altro, soprattutto in passato, altro come straniero, veniva meno fino ad annullarsi. Ero accolto totalmente dalla lingua di adozione. Mi sentivo parte attiva. Ho capito che quanto diciamo è nostro non come aggettivo possessivo ma di appartenenza.

Per concludere, ti invito a scegliere tre poesie dal tuo nuovo libro per salutare i nostri lettori.

Tre poesie tratte da “Vera deve morire” (Interlinea Edizioni, 2018)

Continuo ad aggrapparmi disperato ai tuoi fianchi,
lasciami qui confuso, starti accanto, non opporti,
lascia il buio abbondare, in me, che la luce sbianchi.

Forse la colpa è del tempo, forse siamo solo stanchi,
la guerra più difficile conclude senza far morti;
continuo ad aggrapparmi disperato ai tuoi fianchi.

Forse le colpe c’entrano ma ben poco – è che manchi,
semplicemente manchi; un’altra che mi sopporti?
Lascia il buio abbondare, in me, che la luce sbianchi.

Penserai che ho appeso gli anni insieme, a paranchi
a catena, e magari, per nutrire altri rapporti,
continuo ad aggrapparmi disperato ai tuoi fianchi.

Lo vedo, da distante, vuoi che ti protegga, affranchi
dai piccoli dolori, quelli grandi sono assorti,
lascia il buio abbondare, in me, che la luce sbianchi.

Spero tu mi ritrovi, anche dopo che stufa, spalanchi
le porte agli altri, intanto: occhio, ritornano i torti!
Continuo ad aggrapparmi disperato ai tuoi fianchi,
lascia il buio abbondare, in me, che la luce sbianchi.

 

 

Nel cavo della mano dondola la tua guancia
raccolta nel sorriso che accorro a mimare
sapendolo l’ultimo attimo di pace,
sapendo che non potrà ritornare uguale.

Chiudi gli occhi ed io rispondo chiudendo i miei,
a palpebre chiuse si illumina la stanza,
finalmente ti vedo come sei – minuta,
tu vedi il bambino che gioca a nascondino.

Non riuscivo a dirti ti amo prima, non riesco
nemmeno adesso ma allora te lo scrivevo
sulla schiena nuda, facendoti il solletico
nel puntino sulla i e marcando la a.

La nostra condanna forse sta proprio qua:
nel vederci chiaro in assenza della vista,
delle parole sapere solo lo scarto,
e quanto di noi due, soltanto la distanza.

 

 

Strappami la lingua madre poi
avvicina la tua bocca alla mia,
amplificami i lamenti, da permettermi
di dirti piano, a voce bassa,
parole semplici, poche, dentro la bocca
come il picchiettìo del rubinetto
chiuso male; se balbetto sciocco
è perché mi hai tolto la lingua
– la tua si farà palco, le guance
platea e dirò male, come se avessi
scordato la parte, la scena chiave,
in un teatro antico,
in mezzo a una tempesta di scirocco.

 

*

Julian Zhara: poeta, performer, organizzatore di eventi culturali, è nato a Durazzo (Albania) nel 1986. Si trasferisce in Italia nel 1999. Ha all’attivo una pubblicazione in plaquette: In apnea (Granviale, 2009). Presente tra i finalisti del Premio Dubito in L’epoca che scrivo, la rivolta che mordo (Agenzia X, 2013). Dal 2012 lavora col compositore Ilich Molin. Nel 2014 partecipa con un progetto di spoken music a Generation Y, evento sulla poesia ultima, a cura di Ivan Schiavone, al MAXXI. Sempre con lo stesso progetto, è presente nell’omonimo documentario andato in onda su Rai 5. Dal 2013 al 2016, cura assieme a Blare Out il Festival di poesia orale e musica digitale Andata e Ritorno e per Ca’ Foscari un ciclo di presentazioni e convegni. Nel 2016 gli viene assegnato il Premio Internazionale di poesia “Alfonso Gatto” per i giovani, cura la direzione artistica del festival di poesia Flussidiversi/9 e nello stesso anno presenta la sua ricerca in due università oltre a molti festival italiani. Sue poesie sono presenti in blog e riviste specializzate nonché in La poesia italiana degli anni Duemila (Carrocci, 2017) di Paolo Giovan-netti. Nel 2018 esce per Interlinea il suo primo libro di poesie: Vera deve morire, che porta nei maggiori festival italiani e di cui parlano giornali e riviste letterarie. Vive, lavora e scrive a Venezia. 

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