tre domande, tre poesie
Bernardo Pacini (1987) vive a Firenze. Ha pubblicato alcuni libri di poesia: Cos’è il rosso (Edizioni della Meridiana 2013, selezione premio Ceppo, premio Beppe Manfredi, premio Antica Badia di San Savino, premio Sertoli Salis, Premio Libero de Libero), Perfavore rimanete nell’ombra (Origini 2015), La drammatica evoluzione (Oèdipus 2016) e Fly mode (Amos 2020). L’ultima antologia in cui è stato inserito è Poeti italiani nati negli anni 80 e 90 (Interno Poesia 2019). Ha fondato la rivista lay0ut magazine, di cui è caporedattore. Traduce autori di poesia americana, tra cui Russell Edson, James Tate e Bill Knott.
Qual è o quale dovrebbe essere la lingua ideale della poesia, la forma quanto incide sull’essenzialità della parola poetica e in che modo la vita diventa linguaggio?
Tre domande in una, alle quali non è facile rispondere sinteticamente: proverò a farlo. Non esiste una lingua ideale della poesia, non c’è un esperanto elitario o formalizzato, un vocabolario domestico dal quale attingere per togliersi il problema della ricerca. La lingua della poesia è una responsabilità personale del poeta, ed è il risultato di ogni sua esperienza: tutto inizia dalle parole che ha usato nei primi temi delle elementari (la mia maestra una volta in quarta elementare mi prese da parte e un po’ inquietata mi chiese dove avessi sentito la parola “pertugio”, che avevo usato in un compito di italiano), e arriva all’uso quotidiano feriale che si fa delle parole, al codice linguistico che usiamo sul posto di lavoro o nei diversi rapporti sociali. Sulla lingua di un poeta agiscono le letture vicine e lontane, che si trasformano, mutano con il tempo e con l’esperienza. La lingua ha un’assoluta libertà di movimento, in positivo e in negativo: gli esempi sono tanti, dalle più incomprensibili estrinsecazioni poetiche d’avanguardia alle banali manifestazioni del poetese nazional-popolare. Dal mio punto di vista, è necessario restituire la complessità del presente anche sul piano linguistico e lessicale: il mio ultimo libro, Fly mode (Amos 2020) attinge dal parlato quotidiano, inserisce termini tecnici presi da un manuale d’istruzioni di un drone, mescola dantisimi e anglismi della tecnologia contemporanea, s’innalza in preziosismi e precipita in usi correnti della lingua. In ogni caso, il tentativo linguistico della mia poesia non è mai al ribasso: scegliere un drone come protagonista di un libro di poesia ha ripercussioni anche in questo senso. C’è un’elevazione a potenza della lingua, e una sua successiva precipitazione nel mero quotidiano: così il linguaggio poetico echeggia la vita, ne restituisce l’ombra o l’improvvisa illuminazione. La vita non diventa mai forma o linguaggio: sono livelli totalmente differenti, incomunicabili tra di loro e mai pienamente comunicabili all’esterno. La forma, il suono la lingua di una poesia sono le coordinate entro quale si svolge il mirabile fallimento dello scrivere l’esserci.
La poesia è tale se diventa portatrice di una visione sovraindividuale?
La poesia ha un valore universale? Non a priori. Non è sotto il mio controllo l’eventualità che la poesia possa svincolarsi da sé / da me. In ogni caso, essa è la manifestazione artistica di una singolarità che aspira a comunicare qualcosa di sé all’esterno senza avere la certezza che ciò possa effettivamente accadere. Perdonerai la definizione radiografica ma è così, materialmente. Quando si progetta un libro, nel momento in cui si dà luogo a una nuova poesia, si apre una possibile crisi: possono le mie vicende, i miei sogni, può la mia capacità di produrre immagini avere un significato per gli altri? Che tipo di esperienza può fare il lettore di ciò che della mia singolarità è diventato forma? Il risultato non è nelle mani di chi scrive, quindi non c’è di chi preoccuparsi. È liberante.
Per concludere, ti invito, per salutare i nostri lettori, a riportare tre poesie dal tuo “Fly mode” (perché questo titolo?); di queste scegline una per condurci a ritroso nel tempo, a prima della stesura completa o della prima stesura, per raccontarci quanto “accaduto” così da permetterci di condividere (e meglio comprendere) il percorso che l’ha vista nascere.
Fly mode è un titolo che mi è stato suggerito da Maria Borio durante una serata di presentazione di un’antologia in cui eravamo ambedue inseriti. Per me un termine anglofono era necessario, perché è questa la lingua della tecnologia, e ciò si riverbera anche in gran parte dei titoli delle poesie e spesso all’interno dei testi stessi. Come ho anticipato nella prima risposta, rinunciare al vocabolario della tecnologia e della meccanica del drone sarebbe stata una scelta infelice: l’oggetto impone il metodo e il codice linguistico, e attingere al lessico tecnico è servito a creare una lingua rovente e poliedrica, piena di suggestioni differenti, proprio come la visione di un drone. Molte delle poesie hanno avuto gestazioni faticose: alcune vengono da lontanissimo, e sono state rielaborate per rispondere alla struttura del libro. Un esempio è “Il filo di Kevlar”, contenuta nell’appendice. La forma di questa poesia è piuttosto particolare: più che altro è una prosa ritmica, distribuita però in versi irregolari, senza un criterio metrico. L’unico criterio è che ogni strofa inizia con un verso a scalino situato alla stessa altezza dell’ultima parola della strofa precedente, al fine di sottolineare una continuità del discorso. Questa poesia all’inizio era in verso libero, con versi di media o breve durata. Poi, si è trasformata in una prosa poetica, con tanto di formattazione giustificata. Infine, per questioni di prosodia, ho deciso di scioglierla in versi lunghi, trasformandola in un ibrido tra la poesia e la prosa ritmica.