“La Nave di Teseo” riedita il caso letterario “Sangue di cane”. Veronica Tomassini: “Era importante che la mia scrittura tornasse a casa”.

«Non siamo stati soli, Sławek, non eravamo, io e te, se non strumenti nella volontà di un pensiero superiore. Strumenti e servi l’uno dell’altro per arrivare al buon Dio, il Padre che non costringe troppo nelle tenebre, che promette nuove albe e ferma il braccio dell’empio, proteggendo i giusti, raccogliendo in grembo i sopraffatti e i frutti marci, noi. E perdonerà ognuno, abbi fede». Un passo emblematico da “Sangue di cane”, il primo romanzo (un “caso letterario”) di Veronica Tomassini, edito, nel 2010, da “Laurana” (su “utili consigli” di Giulio Mozzi), recentemente pubblicato da “La Nave di Teseo”, nella collana “i Delfini”. Una storia d’amore sillabata dal “destino”, impossibile nondimeno “santificante” come l’amore, “il miracolo”, dentro un tempo finito.

Puoi dirci, oltre il pensabile, in un momento cruciale della tua esistenza, quale significato ha per te questa riedizione?

«Era importante che la mia scrittura tornasse a casa. Cioè tornasse nei luoghi che l’hanno nutrita, rivelata, senza dei quali null’altro avrei potuto indagare. Attraverso la lente di quegli anni, ho attraversato un sentiero, la cima era sempre la medesima, meno timida stavolta, la verità. Il romanzo doveva tornare nel luogo destinato persino nella forma, nel contenitore più esatto voglio dire, la collana I Delfini de La nave di Teseo, che raccoglie le opere degli autori maggiori».

Facciamo un passo indietro, dall’amore per la lettura alimentato dalla florida libreria del tuo papà, all’amore per la scrittura, la tua scrittura con la quale sembri combaciare perfettamente, all’oggi per chiederti: tra l’impossibile e l’abisso cosa può (cosa ha potuto) la scrittura?

«La scrittura non redime, non salva, non saprei quale strumento o funzione possa oggi assumere per me, in un momento difficilissimo che attiene alla mia vita privata. Ma in generale, credo che abbia sempre interloquito segretamente, una specie di preghiera insita nel sussulto, nel sospiro, un qualcosa di tacito, che poi radunava le parole e raccontava, spesso le parole affiorano da sole, come se non fossero le mie, non mi appartenessero. Ed è vero, si colloca a metà tra l’impossibile e l’abisso, con uno sguardo tuttavia che procede sempre più e meglio in verticale».

Coerentemente, i tuoi protagonisti, da Sławek in poi, dicono l’esistenza dai margini del mondo e, per il tramite della tua voce, fanno luce sul significato della parola “misericordia”, sostanza senza la quale l’esistenza si sgretola. Cosa vorresti non sfuggisse ai tuoi lettori?

«Forse che in noi c’è un bisogno ineffabile, che non è mai esaudito, dove dimora una mancanza perenne, o la sete, la necessità di raggiungere ciò da cui siamo stati separati quando eravamo altrove, nei nembi celesti. Ai lettori posso augurare la fede. La fede però si raffina nel dolore. E non sempre siamo bravi a riscaldarci alla sua fiamma».

Scrittura lancinante, la tua, che alterna singolari capacità descrittive a momenti di alto lirismo propulso da un lessico prezioso. I tuoi testi sono scrigni ai quali attingere parole salvate dall’oblio. Citeresti, da un autore che ami, un passo al quale sei solita “tornare” per trovare “rifugio”?

«Non c’è un passo in particolare a cui torno. Ho dei libri guida, dipende dai periodi, ogni romanzo ne ha avuto uno. Al momento ho davanti a me il romanzo “La pelle” di Curzio Malaparte».

Qual è l’odore della (tua) libertà quando scrivi?

«Il profumo della memoria, un tempo potevano essere i fiori d’arancio, il gelsomino. Oggi la libertà è l’insetto che sbatte le ali contro il vetro di una finestra. La libertà, oggi in special modo, vuole affrancarsi dalla scrittura. La scrittura diventa memoria, e la memoria ha strali terribili quando contiene il lutto».

Sempre lasciandomi ispirare da quello che scrivi, con le tue parole domando: “L’amore guarisce e salva pure nel fango?”.

«L’amore guarisce e salva, ma sulle modalità non è dato sapere. Può salvare in un congedo improvviso, e pensi: non era questa la salvezza che volevo. Ma il nostro dovrebbe essere sempre un fiat. Qualunque cosa accada: sia fatta la Tua volontà».

Forse la vera “salvezza” viene dalla forza inesauribile della (tua) immaginazione che, valicando “sogni impronunciabili”, ci consegna realtà che non siamo in grado di vedere, ci scuote offrendoci la possibilità di “trovare” consapevolezza e compassione?

«Se questo accade con la mia scrittura ne sono lieta. A me non consola, ma forse non deve consolare, deve diventare un ponte per l’altro, qualcosa ma per l’altro».

(la versione ridotta di questa recensione-intervista a cura di Grazia Calanna, è apparsa sul quotidiano LA SICILIA del 31.10.2024, pagina Cultura).

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