La parola “rinnovata” nella poesia di Giuseppe Piazza

cop spampinato okSiamo abituati a riconoscere l’elegia per la predominanza di suggestioni erotiche, per la sua disponibilità a modularsi in toni di compianto nelle lamentationes o, più semplicemente, per la sua ecletticità nel raccontare le esperienze dell’Io. Nel caso della Elegia ernica di Giuseppe Piazza (A&B Editrice, Catania, 2011) ci troviamo invece di fronte a riflessioni in versi che allontanano il genere dal solco della convenzione letteraria per accostarlo, a tratti, a quello delle meditationes. L’io fittizio che racconta parabole in versi ci parla da lontano, rompendo il silenzio sospeso di una attesa per condividere un messaggio senza traccia di pianto o di emotività: tutto ciò che è più tipicamente elegiaco è stato superato. L’io della Elegia ernica giunge quindi al lettore come la voce di un maestro che, dall’alto di una vetta solitaria, cerca di farsi sentire nella fossa assordante del mondo senza alzare minimamente i toni. L’assoluta predilezione del poeta per la parola impone al lettore una transizione attraverso un mirabile caleidoscopio di suggestioni poetiche, tra sottili sfumature di senso e ardite architetture di pensiero. Quella di Piazza, va messo in conto per chi si accosti alla lettura, è una lectio difficilior con la quale il poeta intende trasmettere al pubblico il prodigio, al limite dell’ineffabile, che caratterizza il linguaggio. Nelle parole, suggerisce Piazza, è conservata tutta la verità di cui l’uomo ha bisogno per la realizzazione della sua persona. Le parole sono un (p)atto convenzionale che si regge sulla fiducia tra i parlanti. Da esse dipende una corretta comunicazione, un fecondo scambio di idee e, in ultimo, l’arricchimento dell’individuo proprio in virtù delle idee che le parole veicolano. L’oggetto della ricerca poetica dell’Elegia si concentra proprio su questo versante. Il Piazza (da Correndo la parola ai Colloqui fino all’Elegia ernica) pone le parole in una posizione di assoluto rilievo: la sua poesia non si limita a riflettere tout court su di esse. La sua poetica è rivolta piuttosto alla ricerca della parola intesa come verbum (vado risillabando l’anima / povera della mia grammatica / per un’eco di parole diverse). Meglio: il suo tentativo di restituire dignità alle parole (perché di questo, infine, si tratta) è quello di riportare le stesse alla convergenza che esse avevano presso gli Elleni. Per la cultura greca, infatti, il termine logos identificava tanto la parola quanto il pensiero. Quello che il poeta avverte nella società in cui vive è proprio la frattura fatale di questa straordinaria convergenza. Nel suo mondo (che è anche, drammaticamente, il mondo di ogni lettore) si è incidentalmente interrotta la connessione tra pensieri e parole al punto che, sempre più spesso – questo suggerisce ancora Piazza – le parole appaiono svuotate e ridotte a involucri appiattiti. Le parole diventano così dei contenitori privi di contenuto, mero veicolo di istinti, di facili impressioni, di fugaci sentimentalismi. La parola così svilita non è più strumento di scambio e palestra di pensiero, ma produce un micidiale appiattimento di contenuti e di idee. Per certi versi la riflessione del Piazza è complementare a quella di George Orwell che nel romanzo 1984, descrive una terrificante dittatura che persegue scientificamente il fine di distruggere le parole perché, attraverso un linguaggio mutilato, la trasmissione delle idee risulti impossibile. La parola non soltanto veicola le idee, ma esercita il pensiero critico. Era questa una grande esigenza avvertita dallo stesso Dewey nel suo tentativo di emancipare un pubblico realmente cosciente, vigile e attivo, senza il quale il concetto stesso di democrazia appare orfano di ogni sua peculiarità e funzione. Le parole (questa è un’altra splendida intuizione portata avanti dall’Elegia ernica), non sono così ingenue come si sarebbe disposti a ritenerle quando le si vede messe in fila, ordinate e assettate nei dizionari. Spesso le parole dicono più di quanto si vorrebbe far dire loro. I poeti, giocando su questa possibilità offerta dal linguaggio, lasciano al genere umano splendide metafore, dimostrando come si possa caricarle di ulteriore significato (Ormai questo è il mio / solo paesaggio: spiare / il volo serale dei passeri / che le parole degli uomini / non hanno ancora mutato). E proprio questa disponibilità delle stesse, unita alla capacità dell’uomo di “giocare” coi significati, giustificava il duro giudizio di Platone nei confronti dei poeti e l’accusa a loro rivolta di allontanare l’uomo dalla verità con la suggestione delle favole. Proprio in virtù del fatto che le parole dicono più e, allo stesso tempo, dicono meno a seconda del mittente, del destinatario, del contesto e delle circostanze, dall’utilizzo che se ne fa delle stesse si può risalire alla psicologia di una persona. Ed è qui peraltro che nasce l’inganno laddove una persona ponga il suo ingegno a “piegare” le parole per perpetuare a vario titolo disuguaglianze, ingiustizie e vessazioni. L’inganno celeberrimo di Odisseo/Oudeis, ordito ai danni di Polifemo e giocato tutto sull’equivoco di un nome, informa proprio di un fatto eclatante: nella loro disponibilità a circuire l’altro le parole rimarcano i rapporti di subordinazione tra gli individui e il linguaggio stesso (perlomeno un suo utilizzo volutamente ambiguo) diventa strumento per perpetuare l’ignoranza, la superstizione, l’asservimento degli individui e dei popoli. Non ci scostiamo troppo dalla lezione di Piazza se parliamo di una coincidenza tra l’uomo, la parola e la coscienza dell’uomo. Quando Aristotele parlava della funzione catartica della tragedia, in fondo (forse implicitamente) intendeva anche questo: la purificazione passa attraverso il fatto che le parole ci aiutano a liberare l’uomo e non è sbagliato ritenere che tanto più un uomo sia in grado, attraverso il linguaggio, di elaborare il dolore e le passioni, esternandoli fuori da sé con le parole, tanto meno sarà in balia degli istinti. Le parole sono assunte dal poeta come mezzo di confronto, strumento di immedesimazione, di mediazione e, infine, di superamento dei particolarismi e dei radicalismi. A conclusione della silloge, l’invito rivolto dal poeta a chi possiede ancora questa coscienza a non rinchiudersi nel mare parvum della propria esperienza, a uscire fuori con coraggio e onestà intellettuale e a trasmettere la stessa come esclusiva, ineludibile panacea alla crisi dell’uomo appare ampiamente condivisibile (Ed ora qui porremo / in un crogiuolo / di freschi colori / le parole da preservare, / dove presto le figure / aspettate apriranno / agili i passi, / i giorni sospesi rinati / nel mezzo di una stagione / pù ricca di memorie.). Un’ultima osservazione andrà spesa a proposito di questa notevole Elegia. Nelle pagine della raccolta si ravvisa una tensione palpabile verso due estremi. Da un lato, il poeta intende restituire alla parola la dignità del logos greco. Nei suoi versi, tuttavia, c’è anche, sottotraccia, un’attenzione tutta particolare a intendere la parola alla stregua dello ius latino. La parola cantata dal Piazza, in ultimo, vuole darsi come strumento riparatore e regolatore, risolutivo dei contrasti e delle controversie: uno strumento egualitario come dovrebbe esserlo appunto (almeno in teoria) la legge. La lettura della Elegia ernica di Piazza ci ispira infine un senso di religiosità soffusa e di solenne grandezza che richiama alla mente certe suggestioni letterarie come i bei versi della Ginestra di Leopardi con gli uomini uniti in solidal catena i cui anelli, per il poeta e per ogni persona di buona volontà, sono parole e pensieri pieni di onestà, di rispetto e di reciproca comprensione. Educati a pensieri e parole siffatte, logoi e iura insieme, Piazza ci intrattiene in un colloquio proficuo, dimostrando che si può essere molto diversi nelle convinzioni religiose e politiche, ma di poter comunque trovare un dialogo e un incontro che si realizza proprio perché si è familiari alle parole. Quando questa condizione non si realizza, si perpetuano gli integralismi, l’odio e la paura del diverso e ogni sorta di superstizione e di pregiudizio.

(Davide Spampinato)

 

 

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