Liturgia dell’acqua di Daìta Martinez

C’è molto cinema, dove la grammatica scompare. D’altronde Palermo è uno dei più grandi teatri di posa del mondo. Un posto dove il caleidoscopio non smette mai di girare. Un luogo dove puoi fare come in “Lisbon story” di Win Wenders, ovvero appenderti la telecamera sulle spalle, a tracolla, e pigiare sul tasto “REC”. Senza montaggio, senza grammatica, così come la poesia di Daìta. Dove tutto si poggia sull’accostamento delle immagini. Un migliaio di costrutti che esulano da una apparente costruzione. E se ne stanno lì, senza retorica. Figli di nessuna metafora o similitudine, vivono l’unica forma di vita possibile, ovvero l’immanenza. Il loro essere chiamati per nome. E così si genera tanta energia per inerzia di somma, scontro e sottrazione. Gli accostamenti continui generano queste scosse di elettricità che portano avanti. Come se la poetessa avesse messo su carta il passaggio creativo, quello dove infinite sinapsi della mente cercano parole, immagini da far diventare poesia. Qui è tutto in bellavista. E si sostiene su un’altra grande lezione del cinema, ovvero quella di Sergei Eisenstein sul montaggio alternato. Il regista infatti per spiegare cosa accade prese in prestito i kanji della scrittura giapponese, dove l’accostamento tra due singole immagini crea un terzo significato. Un plusvalore. E in questo plusvalore credo che vada ricercata la chiave della scrittura di Daìta. Una scrittura che si appoggia sul ritmo delle immagini. Cerco di spiegarmi meglio. Leggendo facendosi risuonare le parole in testa, ad un certo punto ci si accorge di volerne ancora. Si genera subito una sorta di affezione verso quella che sembra la voce di un timbro familiare, qualcosa che riporta alla madre. Ho avuto modo di confrontarmi con Daìta a riguardo e lei mi ha scritto: «È così, come hai perfettamente intuito, perché mentre scrivevo cantavano nella mia mente – corpo – gola». Non mi resta che consigliarvi di leggerlo, perché più che un libro, è un’esperienza da fare.

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