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Liù Bosisio è un’attrice tra le più intelligenti, dotate e poliedriche della scena contemporanea, per quanto abbia abbandonato il teatro da un po’ di anni. Un rapporto tanto intimo e appassionato, quanto profondamente sofferto, quello con il palcoscenico: troppo vero e struggente il suo modo di attingere alla fonte della recitazione. Dei suoi numerosi lavori teatrali, credo che Liù ricordi con particolare trasporto l’esperienza del “Sogno di una notte di mezza estate”, in cui interpretava Elena, messo in scena nel 1976 da un grande regista come Mauro Bolognini. Eppure è necessario menzionare la sua fruttuosa collaborazione con Luca Ronconi, che l’ha vista impegnata in una serie di importanti produzioni: su tutte il memorabile allestimento dell’ “Orlando Furioso” (1969-70). In una recente intervista Ronconi ha affermato: «I veri attori lavorano su se stessi e non sull’idea che hanno di se stessi. Questo è molto difficile e pericoloso, poiché è più salutare una benefica falsità che non una supposizione di autenticità».  Liù Bosisio ha sempre portato avanti una propria visione, assolutamente ideale, del mestiere dell’attore, in cui l’essere umano, analizzato alacremente nella sua essenza più viva e scottante, viene restituito all’occhio dello spettatore con disarmante schiettezza, senza alcun fronzolo scenico, soltanto con la magia che una rappresentazione nuda, come le vesti di un fiore, riesce ad allestire.  

Liù Bosisio non è soltanto una grande attrice, è soprattutto un’eccellente lettrice, poiché sa cogliere con pronta e fine sensibilità la spinta umana che ha dato vita a un testo. Per riconoscere la vera poesia, possiede un metodo che mi ha confidato privatamente, e che mi permetto di riportare di seguito: «Sai? io ho un sistema: le poesie le leggo sempre ad alta voce. Quando la lingua s’inceppa, o il respiro non sa dove appoggiarsi, vuol dire che c’è qualcosa che non va. Le sillabe devono scivolare dalla bocca al cuore: se si impigliano ai denti, ahimè, al nostro povero cuore non arriva nulla».

Si tratta esattamente di quello che faccio io, infatti quando mi scrisse queste parole, ebbi l’ennesima conferma di trovarmi di fronte a un’anima straordinariamente affine, a uno spirito forgiato dal duro scalpello del genio – il migliore, quello del cuore -, della cui presenza non avrei più potuto fare a meno.

Un giorno ho scoperto che Liù adora i “Lirici greci” tradotti da Salvatore Quasimodo («Sono affezionata, sono cresciuta con la traduzione di Quasimodo sotto al cuscino, e continuo ad adorarla e a onorarla») e mi confessa di avere addirittura incontrato il poeta. Allora l’ho pregata di raccontarmi ogni cosa, e lei lo ha fatto con la sua consueta grazia. Mi permetto di condividere con voi questa avvincente narrazione: «L’ho incontrato più di una volta. Sua moglie, la danzatrice Maria Cumani, insegnava danza all’Accademia d’Arte drammatica che io frequentavo, e Quasimodo veniva spesso ad assistere alle lezioni. Io avevo sedici anni ed ero molto intimidita. Fu Maria ad accostarmi alla lettura dei “Lirici greci”, a farmi danzare, non sulla musica, ma sulle sublimi parole, sugli accenti di quei versi. Quando mi presentò al marito, risi come una “scioccherella, tanta era la confusione della mia mente di bambina, sì, di bambina, perché tale ero. Lui era un uomo apparentemente scostante, un fico d’India direi, spinoso e dolcissimo. Ma questo lo capii soltanto dopo, quando seppi che era Lui, il magnifico interprete di tale poesia.

E lo amai ancor di più quando lessi la sua “Lettera alla madre”: “Mater dulcissima, ora scendono le nebbie” ed anche “Certo, ricordo, fu da quel grigio scalo/ di treni lenti che portavano mandorle e arance/ alla foce dell’Imera, il fiume pieno di gazze/ di sale, d’eucaliptus”, e ancora “Finalmente, dirai, due parole/ di quel ragazzo che fuggì di notte con un mantello corto/ e alcuni versi in tasca. Povero, così pronto di cuore,/ lo uccideranno un giorno in qualche luogo”. Sono passati anni luce – quanti! – e mentre faticosamente rimetto insieme questi versi, traendoli dagli abissi della mia memoria, ecco che ancora mi commuovo. Poi m’invitarono a casa loro. Io parlavo poco tanto era grande il rispetto. Lui, sprofondato in una poltrona guardava lontano, oltre il muro. Ricordo l’emozione del silenzio, un sacro silenzio, più eloquente d’ogni pur sublime parola. Poi, memore della mia presenza, si girava a me con un sorriso dolcissimo, e io abbassavo gli occhi, incapace di sostenere lo sguardo di colui che, a parer mio, era il “sommo”. Non D’Annunzio, no… Ma lui!»

Ma Liù Bosisio è anche un’autrice: nel 2009 è stato pubblicato, da Buffoni Maledetti Editori, il romanzo “Il carbonio nell’anima”. Con la penna Liù sfodera uno stile macchiato di squisita delicatezza, che incanta e strugge col suo retrogusto di rarefatta malinconia, lo stesso stile che l’ha fatta amare sulla scena, lo stesso che impone, ad ogni persona che la incontri, di piegarsi alla sua amicizia, e di volerle bene.

 

 

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