Stiamo diventando tutti fotogenici, fotodisponibili, fotodisinvolti, fotocomponibili, fotoconsacrati, tutti pronti al marchio dello scatto. Può una società che consegna con tale leggerezza la propria intimità, il privato, all’esibizione costante, definita da Vanni Codeluppi vetrinizzazione sociale, contestare un sistema dalle fondamenta? Tra le nuove forme di perversione, socialmente accettata e condivisa, potremmo annoverare il fotofeticismo. L’immagine parla una lingua abbagliante, spesso ricattatoria e a una dimensione, priva di conflittualità, complessità. All’impoverimento del linguaggio e di conseguenza del pensiero, corrisponde un rafforzamento della segnaletica visiva su tutti i piani della vita quotidiana. Di questa riduzione mortifera, nonché manipolatoria e ipnotica, obnubilante, ne è un esempio non trascurabile la diffusione consistente di acronimi, in campo politico e educativo, sigle sempre nuove che blindano le capacità cognitive, funzionali all’agire più o meno indisturbati per far passare leggi e violare diritti che, se non sappiamo chiamare per nome, non possiamo difendere. La manipolazione più crudele arriva in modo sottile, apparentemente innocuo, si veste da mero intrattenimento e gioco. Ecco che la nuova maniera di esprimere le nostre emozioni passa per l’uso virtuale di emoticon. E ne esistono di sempre diversi, sofisticati, eloquenti, animazioni elaborate che simpatizzano con i fruitori. Questo nuovo dizionario emozionale come neolingua orwelliana. Gli (o le) emoticon e animazioni potrebbero assimilarsi anche al concetto di olofrase utilizzato da Lacan in ambito strettamente clinico (1). In questo clima tanto accondiscendente quanto inconsapevole, votato ai bassi istinti, poliziesco in senso deteriore, di intolleranza, di condanna piuttosto che di giustizia, sacrificare gli altri diventa regola di vita, legge di sopravvivenza. Non so chi sia in grado di saltare sulla sedia leggendo le parole di Pasolini, nell’ultima intervista a Furio Colombo, poche ore prima del suo assassinio:
“Voglio dire fuori dai denti: io scendo all’inferno e so cose che non disturbano la pace di altri. Ma state attenti. L’inferno sta salendo da voi. È vero che sogna la sua uniforme e la sua giustificazione (qualche volta). Ma è anche vero che la sua voglia, il suo bisogno di dare la sprangata, di aggredire, di uccidere, è forte ed è generale. Non resterà per tanto tempo l’esperienza privata e rischiosa di chi ha, come dire, toccato “la vita violenta”. Non vi illudete. E voi siete, con la scuola, la televisione, la pacatezza dei vostri giornali, voi siete i grandi conservatori di questo ordine orrendo basato sull’idea di possedere e sull’idea di distruggere. Beati voi che siete tutti contenti quando potete mettere su un delitto la sua bella etichetta. A me questa sembra un’altra, delle tante operazioni della cultura di massa. Non potendo impedire che accadano certe cose, si trova pace fabbricando scaffali.” (2)
Freud, come esergo a L’interpretazione dei sogni aveva scelto il verso di Virgilio «Flectere si nequeo superos, Acheronta movebo » (Se non potrò piegare gli Dei, smuoverò gli Inferi). L’esperienza del vero sembra affondare le radici nell’inferno della vita, e, come sapeva bene lo stesso Freud, che ha sempre riconosciuto un debito nei suoi confronti, la parola poetica è probabilmente la più indicata a disinnescare i viziosi e subdoli ingranaggi del potere, o quanto meno a mostrare nudo l’animo umano e rivelarne i desideri profondi, inconsci. In un articolo del 1982 Antonio Porta scrive una sorta di toccante ed energico apologo sulla figura del poeta, che ci sentiamo di dedicare a Pier Paolo Pasolini:
“Un poeta sa di trovarsi, come tutti gli altri, tra l’incudine e il martello, tra due Ordini pronti a schiacciarlo e che lo schiacciano, insieme a tutti gli altri, quando arrivano a combaciare: l’Ordine del Linguaggio e l’Ordine Politico. Quando un poeta, come gli altri uomini, viene schiacciato, paradossalmente la sua voce sopravvive: ed è essa che costituisce la famosa «differenza» tra l’Ordine che uccide e la vita che rinasce. Un poeta ama mettere il linguaggio in disordine. Rispetto al linguaggio dell’Ordine usa il suo linguaggio: quello poetico, appunto, che non può che apparire «strano» a prima vista. Ma non c’è solo la prima vista, ce n’è anche una seconda e una terza. A una terza vista, cioè a un grado elevato di profondità percettive, il linguaggio di un poeta diventa abitabile, vivibile. Siamo in tempi in cui il linguaggio della poesia è anche lingua della fuga e della sopravvivenza. Non perché sia «disimpegnato» ma, giusto il contrario, perché è impegnato negli strati più profondi e significativi del flusso della Storia”. (3)
(1) “[…] L’olofrase è infatti una figura retorica che, al contrario della metafora, non rappresenta nulla, non veicola alcuna messaggio, ma segnala piuttosto il fallimento dell’azione rappresentativa della metafora. Un’olofrase è una parola-frase, una frase non scomponibile, congelata, pietrificata. Lacan la definisce come una solidificazione della catena significante che immobilizza il discorso. In essa il soggetto non è rappresentato ma vi si trova incluso come un «monolito». Il punto è che questo monolito non è metaforico. Non metaforizza il soggetto ma lo inchioda a un’identificazione assoluta, priva di dialettica. Il soggetto resta incatenato all’Altro, fa uno con l’Altro. L’olofrase annulla la separazione tra il soggetto e l’Altro e l’intervallo che separa tra loro i significanti. (M. Recalcati, La personalità borderline e la nuova clinica in Civiltà e disagio. Forme contemporanee della psicopatologia. A cura di Domenico Cosenza, Massimo Recalcati, Angelo Villa, Bruno Mondadori, Milano, 2006, p. 9)
(2) F. Colombo, Perché siamo tutti in pericolo, intervista a P.P. Pasolini, La Stampa, inserto“Tuttolibri”, 8 novembre 1975. “Questa intervista ha avuto luogo sabato 1° novembre, fra le 4 e le 6 del pomeriggio, poche ore prima che Pasolini venisse assassinato. Voglio precisare che il titolo dell’incontro che appare in questa pagina è suo, non mio. Infatti alla fine della conversazione che spesso, come in passato, ci ha trovati con persuasioni e punti di vista diversi, gli ho chiesto se voleva dare un titolo alla sua intervista. Ci ha pensato un po’, ha detto che non aveva importanza, ha cambiato discorso, poi qualcosa ci ha riportati sull’argomento di fondo che appare continuamente nelle risposte che seguono. «Ecco il seme, il senso di tutto – ha detto – Tu non sai neanche chi adesso sta pensando di ucciderti. Metti questo titolo, se vuoi: “Perché siamo tutti in pericolo”»
(3) A. Porta, Un poeta deve avere le antenne, in La Stampa, 22 novembre 1982 e con il titolo Il poeta e la storia in “Il Progetto Infinito”, a cura di Giovanni Raboni, Quaderni Pier Paolo Pasolini, Roma, 1991, pp. 19-20.