Marco Pelliccioli narra “L’inganno della superficie” con le mani nella contemporaneità.

Non è semplice per un poeta mettere le mani nella contemporaneità, si corre spesso il rischio di scivolare in una piatta e didascalica descrizione letteraria, e il risultato può essere uno sterile affresco che nulla aggiunge a una percezione del mondo che già si conosce attraverso la frequentazione della realtà che ci circonda. Non è questo il caso di Marco Pelliccioli, che con il suo nuovo libro L’inganno della superficie ci guida attraverso i cambiamenti del nostro tempo, colti attraverso l’occhio ben più profondo e sincero di chi sa osservare le cose trasformandole in un linguaggio altro, che è poi l’unico e vero intento della poesia. Ma a sovrapporsi a questa esplorazione che l’autore compie nella realtà di oggi c’è anche il sano e stratificato contatto con le radici, dove l’attualità e il passato si accompagnano in un’esistenza sentita come percorso che inevitabilmente lascia qualcosa di sé sulla via. Ecco che allora alla rappresentazione ironica, asciutta e incisiva nei riguardi del soggetto frenetico contemporaneo, si contrappone quella di Angiolina, figura dolcissima e mite, che appare e ritorna quasi improvvisa, mai perduta veramente, nella sua semplicità materna e quotidiana. L’autore fa una scelta ben precisa per metterci di fronte a questo confronto, utilizzando come metro l’uso del linguaggio, in un parallelo tra termini dialettali più essenziali, invenzione che l’uomo ha prodotto nel corso del tempo per una comunicazione concreta e diretta nell’ambito della sua quotidianità, e nuovi anglicismi che identificano per lo più il sovrabbondante e astratto mercato finanziario che comprende anche l’autocelebrazione di sé nei sempre più invadenti “social network”.

 

Si frange in luci rotte, braccia
ringhiere, altre portiere
l’acqua del corso al largo di Porta Ticinese
(non pattina via piatta
come le superfici di vetro in verticale)
si increspa negli stracci, mollette
altri crepacci, dove sprofondo a picco
in voci, bitte, ormeggi
che ormai non sono più
(il porto in via Pantano, dalla Vettabbia al
[Lambro

al mare per il Po,
il lago dove un tempo, di lato la Ca’ Granda,
il marmo da Candoglia,
i panni strofinati, la scorba, il cavagnin
a terra sul brellin)
minuta goccia d’acqua
infranta sulla “cover” di uno “smartphone in wi-fi”
che ignaro la disperde per scattare invano
un “selfie” con lo “stick”

«Non disperate», dice un lavander,
«domani slacciano gli ormeggi…»

Le poesie del libro, spesso anche in prosa, richiamano i piani sequenza cinematografici, dove la macchina da presa indugia con soggettive prolungate, in una dimensione del tempo e dello spazio che si configura come superficie ingannevole, sia che si tratti di una realtà affettiva destinata a perdersi troppo presto o di un’umanità che si sgretola in un’anonima e stereotipata omologazione. L’autore concede ampio margine ai dettagli, alle riprese brevissime o di più ampio respiro, guidando il lettore su tutte quelle immagini che a uno sguardo assente potrebbero sembrare insignificanti. È il film di un poeta che opera un montaggio con fotogrammi del presente alternati a quelli del passato, dove la quieta e casalinga Angiolina intenta a friggere le cervella, entra in contrasto con una donna manager moderna che al supermercato infila prodotti in offerta nel carrello della spesa mentre parla al telefono di lavoro. O il panettiere sull’uscio della sua bottega, col grembiule sporco di farina, che pensa solo a vendere il pane, e stride in attrito con l’uomo-gelatina che indossa abiti firmati e pianifica i conti dell’azienda.

 

L’UOMO-GELATINA

L’uomo, alla porta, sbuffa la farina caduta sul
grembiule, non conosce “early adopters”, plance,
processi di validazione. Non ha pianificato conti in
“kappa” o “identikit”. Vuole soltanto vendere il suo
pane, ed è perplesso dal piano di rilancio dell’uomo-
gelatina, malconcio eppur firmato: pantaloni
arrotolati sopra la caviglia, auricolari, lampade
alogene nel fiato.

Pelliccioli non combatte una battaglia tra una nostalgica malinconia del passato e una malcelata insofferenza del presente, a cui egli stesso appartiene. No. È semplicemente un uomo che fa i conti con la storia, con quella di tutti noi, che presuppone la conoscenza e lo svelamento oltre la superficie, attraverso i più coraggiosi moti di odio e amore che guidano gli stessi occhi e la stessa parola poetica. L’autore sa bene che alla fine, comune sorte di ognuno, è la vita stessa, che misura il dolore e la bellezza nel seno della trasformazione, della possibilità di percepirsi esistenti e in progresso soltanto aprendosi alle dinamiche del mondo, alle quotidiane fatiche esistenziali e agli spiragli di sentita serenità che si aprono nel nostro parteciparvi. Ed è sempre la voce più pura del poeta-fanciullino che sa esprimere tutto ciò, come nei versi commoventi di queste due poesie:

 

Quando scendo le scale
e tu, mi sembri già lontano
le guance un poco rosse
la bollicina, il naso
la bocca un poco aperta
cresce dentro di me il magone
del pesco alla stazione
che vede andare via
i fiori sul binario.

 

 

Quanto dolore spalancano le strade
nella lama rossa del mattino
lei avvolta da un formicolio di foglie
lui che avanza mesto a capo chino
lei ristretta al fianco nella borsa,
vita, che non lasci via di scampo
se non stringere la blusa
rimboccare le maniche sul braccio
lasciare aperti i polsi
per un rivolo di cielo
che scorra nelle vene.

 

 

 

L’inganno della superficie di Marco Pelliccioli (Stampa 2009)

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