20Primitivo americano è un libro dionisiaco, dell’abbandono all’eccesso della fame, della gola e del desiderio; ed è un libro dell’esultanza per l’immersione nella proliferazione disordinata e incontrollabile della natura, di cui la poeta si appropria a piene mani in un gesto liberatorio e sempre legittimo. Le poesie celebrano sensazioni fisiche primordiali come la percezione del pericolo del freddo estremo o dell’appagamento assoluto nel nutrirsi di altra materia naturale che è al tempo stesso diversa e uguale a sé, come il miele o la carne di un pesce che si è ucciso. Oliver mette in scena sia la metamorfosi del non-umano in umano – quando, folgorata dalla meraviglia, descrive una cerva che partorisce come una donna bellissima – sia dell’umano nel non-umano, quando descrive se stessa come un orso che rapina un favo di miele o se ne riempie la bocca con una grossa zampa. Coinvolge il lettore nella condivisione di aree indistinte di esperienza dell’umano e del non-umano su terreni di coabitazione come quello della palude, dove la tentazione di cedere all’istinto di fusione con la materia, con il suo farsi e disfarsi inarrestabili, il suo perenne divenire informe e multiforme, sfociano in una condizione pre-identitaria in cui l’origine e la destinazione di ogni cosa creata si incontrano.
(dall’Introduzione di Paola Loreto che abbiamo intervistato)
Un poeta per un poeta, per riproporre, insieme, “Primitivo americano”. Qual è (o quale vuole essere) il significato recondito di questa operazione in un tempo (diciamolo) martoriato dall’assenza di ascolto, quanto da una sempre più diffusa incapacità cognitiva? E, ancora, perché, oggi, leggere poesia, perché leggere questo libro?
La poesia è di per sé un richiamo all’ascolto. Fa spazio interiore. Qui una poeta si è posta in ascolto attento di un’altra, delle sue parole, delle parole della poesia, se ne è nutrita, e ha sentito il desiderio di restituirle ad altri. Credo che il nostro mondo sia sempre più drammaticamente diviso tra una massa sempre più sorda – o meglio, assordata da un rumore di fondo insensato e finalizzato solo alla sollecitazione di consumi privi di bisogno – e un gruppo sempre più sparuto di marziani che reagiscono nella direzione opposta della ricerca della cura e dell’attenzione per sopravvivere, e per farlo nelle condizioni di salute (mentale e fisica) migliori possibili. In realtà la mia esperienza è che c’è tanta sete (e pratica) della poesia in Italia e non solo. Non sempre comporta l’ascolto (una delle manifestazioni di quel rumore di fondo è il narcisismo della poesia) ma spesso sì, e questo mi ispira fiducia e speranza.
Sapendola paladina della natura, la Oliver, certamente penso di poter affermare che tra le ragioni che hanno animato la scelta di questa curatela risiede una forte “affinità elettiva”, vuoi parlarcene?
Sì, l’affinità elettiva è stato il primo motore del mio avvicinamento a Mary Oliver e ad altri poeti americani che hanno avuto a cuore la salute dell’ambiente che ci ha originati e in cui viviamo. Con lei l’affinità è stata più forte perché ho sentito il suo rapporto forte del corpo con il corpo della terra, anche se lei lo avvertiva nel camminare nei boschi dell’Ohio e delle zone più riposte del Cape, e nel moto del camminare, io nel salire sulle montagne. Credo di avere compreso, per mezzo di una cognizione “incarnata” e “situata”, come si usa dire oggi negli studi cognitivi più utili di cui si avvale la critica letteraria, tutto quello che ha profondamente intuito, e provato. E c’è un’altra forma di affinità che è stata fondamentale per sceglierla con la speranza di tradurla senza fare torto alla sua poesia: capisco bene anche il suo linguaggio poetico, apparentemente “facile” e privo di metrica, ma in realtà frutto di un lavoro appassionato, instancabile, fedele e puntiglioso di lima e calibratura delle parole, dei suoni, e del loro ritmo. Mi è venuto naturale, perciò, e mi ha appassionata, manipolarne uno simile nel riscriverla in italiano.
Quali parole ti trovano se ti chiedo di tratteggiare la Oliver secondo l’idea che, in un lungo tempo di “ascolto” (a te necessario per “conoscerla”, per “tradurla”), ti hanno “restituito” i suoi versi, meglio il suo “fare”?
Credo di vedere una donna forte e sensibile, intransigente e dalla volontà cristallina, profondamente e autenticamente umana e proprio per questo capace di comprendere oltre l’umano, immaginandosi l’Umwelt (il mondo percettivo e il comportamento istintivo) del nonumano e accogliendolo come parte di sé. Credo di conoscere una donna ricolma di un’intuizione infallibile e radicale – come quella dei mistici – e di un desiderio altrettanto acceso e inestinguibile, che opta, infallibilmente e necessariamente, per l’essenziale: quello che nutre e quindi sfama davvero. Pur di non rinunciare a scrivere, la giovane Mary ha evitato qualsiasi lavoro che potesse interessarla abbastanza da coinvolgerla; e pur di vivere la vita che voleva, con Molly, la sua compagna, sul Cape, racconta di essersi nutrita, nei difficili tempi iniziali, di bacche, funghi e erbe (e uova di tartaruga!) che raccoglieva nei boschi. Quando gli occhi sono affissi alla ricerca della verità le azioni non hanno scelta.
La poesia (dal tuo punto di vista) è più ispirazione o più costruzione?
Entrambe, come sostiene la Oliver nel suo bel manuale sulla poesia, A Poetry Handbook (una “Guida alla comprensione e alla scrittura della poesia”), che si apre con questa frase: “Tutti sanno che poeti si nasce e non lo si diventa a scuola”, e poi però continua dicendo che, come per un pittore o uno scultore o un musicista, oltre a quel qualcosa di essenziale che non si può insegnare, per un poeta c’è molto che si può, e si deve, imparare, e cioè l’arte: la familiarità con la storia, le teorie e le tecniche della propria disciplina. Credo che la scrittura della poesia sia un istinto, e prima ancora un modo di stare al mondo, ma che al suo risultato concorra l’esperienza della poesia: l’averci vissuto insieme per tanto tempo, facendo (il fare della poiesis, che mette insieme le parole, crea degli oggetti sensibili).
Qual è stato, ad oggi, un “insegnamento” ricevuto in dono dalla poesia o, se preferisci, da un verso?
“Questo di sette è il più gradito giorno,/ pien di speme e di gioia”?
Il volume riporta, per ogni componimento, la traduzione in lingua italiana. Questa premessa per chiederti: la poesia è realmente traducibile? E se lo, è più corretto parlare di traduzione o di reinvenzione, di riscrittura?
La poesia non è mai traducibile, se si pensa di trasportare un testo da una lingua all’altra. La poesia è lingua. Se compare in un’altra lingua diventa un oggetto in e di quella lingua: un altro oggetto. Perché la poesia non è solo senso, ma è anche il suono di quel senso – quel suono di quel senso. O il senso di quel suono. (L’idea è di Robert Frost.) Ma i poeti non smetteranno mai di tradurre: di riscrivere un testo, spinti dall’amore per la parola, e dall’innamoramento per il suono-senso di certe configurazioni di parole.
Per concludere, per salutare i nostri lettori, sceglieresti (riportandola gentilmente) una poesia da “Primitivo americano”, spiegandoci, meglio, raccontandoci perché (per quali “ragioni”) l’hai scelta?
Scelgo “Il mare”. Lo faccio perché qui il senso di affinità con le sensazioni e i sentimenti di Oliver tocca il suo apice. La poeta sta esprimendo il suo desiderio di tornare ad essere una creatura primordiale, un pesce che nuota nell’acqua del mare. Credo che sia la nostalgia per una forma di vita istintiva e inconsapevole, priva del pensiero autoriflessivo che guasta tanti momenti della vita di un uomo. E credo che sia un abbracciare la materia senza condizioni e senza più alcuna distinzione tra specie. Oliver sa perfettamente che non si può fare, e che non sarebbe giusto farlo. Ma in questa poesia, in questo momento, il senso di mancanza dolente per la nostra origine nella materia, per la nostra animalità, è forte ed emerge in un canto. Sono stata una nuotatrice, da adolescente. E capisco tutto: conosco la sensazione di scivolare nell’acqua come se fosse il proprio elemento che Oliver descrive qui. È una delle più belle del mondo. Ti lascia in una pace completa, un appagamento totale e non più desiderante. Ti fa elemento, indistinto. Ti fa terra, Gaia.
IL MARE
Bracciata dopo
bracciata il mio
corpo ricorda quella vita e reclama
le parti perdute di sé –
pinne, branchie che
si aprono come fiori nella
carne – le gambe
vogliono serrarsi ed essere
un muscolo solo, giuro che
conosco
l’esatta sensazione
di essere coperta
di squame grigio blu!
il paradiso! Distesa
in quel grembo materno,
in quella casa dei sogni
di sale e movimento,
che versamento
di nostalgia implora
dalle ossa stesse! come
anelano a rinunciare alla lunga marcia
nell’entroterra, la fragile
bellezza dell’intelletto,
per tuffarsi
e semplicemente
tornare a essere un corpo fiammante
di sensibilità cieca
che scivola via
nel corpo di fibre di luce del mare,
svanito
come la vittoria dentro
quella genesi risucchiante, quel
fragore sgargiante, quei
nostri
perfetti
inizio e conclusione.