“Nel nome della madre” di Aimara Garlaschelli, un «dono di eterno ritorno».

«Quando vedrai alare le voci/ per fare nido sui prati?». Non un semplice quesito – incontrato leggendo “Nel nome della madre” di Aimara Garlaschelli, pubblicato da Einaudi -, agisce infinito, e ci conduce «nello spazio intimo del mondo». Una “preghiera laica”, un canto dirompente nell’apparente compostezza della metrica, «una misura/ con epicentro dentro la Natura», dentro «il ricordo di quella prima pace,/ quel ‘mare nostrum’ amniotico», dentro la ferma percezione eraclitea, «‘non si sfugge a ciò che mai tramonta’», dentro «l’esperienza del cuore». Un poemetto, (a partire dai versi dell’ottava elegia duinese, tradotti da Dario Borso), ricco di rimandi, da Pascoli a Eliot (del quale la stessa Garlaschelli, nel 2018, tradusse “La Terra desolata”), come un «dono di eterno ritorno» concepito, potremmo dire, da una lungimirante “sentinella del vero”. 

In che modo la (tua) vita diventa linguaggio, sebbene la “latenza” della parola”?

Non penso le parole siano nascoste, almeno tanto quanto non sia latente la realtà del mondo per un ipovedente. E, forse, quel legame antico tra la poesia e l’aedo cieco non è del tutto come pensiamo. La vista e le parole latenti sono una sinestesia per tenere insieme due sfere sensoriali diverse, perché le parole appartengono al suono, un suono interiorizzato. I suoni delle parole non hanno bisogno del silenzio del mondo, ma solo che l’io taccia. L’«io» è quel pronome che, come una lente lurida, rende ciechi o, sempre parafrasando Gadda, un pidocchio che ci fa grattare fino a lacerare ogni pudore. Per rispondere alla domanda, la mia vita è linguaggio, che si fa “parola” solo quando posso buttare l’io nel pozzo e ascoltarne il tonfo sordo sul fondo, oppure, quando vi cade dentro da solo, perché l’io è anche il più recidivo e distratto dei pronomi.

Qual è stata la scintilla che ha portato il tuo poemetto, “Nel nome della madre”?

Per tenere i passi sul filo di metafora, camminare lungo un crinale è il luogo migliore per far rotolare a valle il personale. Basta poco, soprattutto se si è soli. Per fortuna nessuna scintilla, perché i boschi sono resi secchi dalla siccità. Si è formato, invece, uno sciabordio di due versi che sbattevano in uno stato di “mente vagabondante”. Quando si cammina soli lungo un sentiero, in montagna, il nostro pensiero è come un cane sciolto dal guinzaglio. Corre avanti, ritorna, si fa segugio di ogni scricchiolio e all’improvviso scompare. In quel momento bisogna scegliere se assecondare o meno il richiamo del bosco (la.. “selva oscura”), lasciarlo libero o, riprenderlo al guinzaglio. I due versi erano: i tuoi figli sono al mondo / madre vai loro incontro. Così, mi ritrovai Nel nome della madre.

“Quando vedrai alare le voci/ per fare nido sui prati?”, con i tuoi versi interrogativi per chiederti: la poesia può colmare la pensosa solitudine del poeta?

La forma del punto di domanda «?» ricorda un padiglione auricolare, ma quando lo disegniamo a mano libera diventa il ventre di una donna gravida. L’ascolto, la gestazione e la creazione non sono stadi di solitudine, ma di relazione con l’altro. Non credo nella “solitudine del poeta”, anzi mi provoca una sensazione urticante per come è stata declinata in orpello manierista. Inserisco la frase seguente tra virgolette perché sono le parole indignate di un’amica che mi scrive: «poeti e poetesse (anche scrittori e scrittrici) scrivono saggi, fanno traduzioni (di recente sono opinionisti/e, recensori/e di libri su quotidiani), lavorano nell’editoria, hanno un rapporto costante con la tradizione e con la poesia e la letteratura contemporanea. In una parola, stanno nel mondo». L’essere soli è un attributo dell’umano tutto, poeti compresi. Che soli non lo siamo, una delle verità trascendentali della vita. «Quando vedrai alare le voci/ per fare nido sui prati?», l’interrogativo è una allocuzione alla Madre. Siamo nell’immaginario del mare, del mar Mediterraneo, dei naufraghi. Ho scelto «alare» perché è un termine (anche) specifico, infatti indica una manovra per portare all’asciutto un natante. Più il lessico è preciso e più le parole sono perturbanti, cioè sregolano i sensi.

La forma quanto incide sulla “verità” della parola poetica?

Ci sono due strade che partono dalla tua domanda. Una entra nella linguistica, nella critica del testo, nella verità sonora del verso. Il suono – inteso come unione tra fonemi, ritmo metrico, attributi della sola testualità e non dell’esecuzione/interpretazione orale del testo – è la verità estetica del verso. Dove non c’è suono, non c’è significato poetico. L’altra via è più ampia e consente di camminare insieme, a lungo, senza raggiungere mai la destinazione. Oggi, mi piace salire sulle spalle di Saussure e risponderti che la poesia non è che un fatto di coscienza (pensiero) associato incoscientemente a immagini sonore (le parole scritte); ma preferisco il passo di Bonnefoy: «La poesia nasce come ci si sveglia al mattino. Il poeta non fa altro che continuare il sogno notturno». Sulla «verità» di un sogno, ogni lettore e ogni lettrice ha una sua risposta.

La tua scrittura, si sente, è animata dal “sentimento di un eterno vero”, immagina di dover dare ai più giovani delle “istruzioni” essenziali per scrivere una poesia, quali daresti?

Per scrivere una poesia bisogna scrivere. Tuttavia, non sottovaluterei l’impatto di una frase tautologica, la tautologia è il Big Bang del linguaggio. E, come per l’universo, anche per la poesia, dopo non è che un susseguirsi di concatenazioni, di rotazioni, gravitazioni, spinte telluriche e magma che raffredda.

Per concludere salutando i nostri lettori, ti invito a scegliere una tua poesia (o uno stralcio di versi) dal libro “Nel nome della madre” – (riportala gentilmente) – e, nel contempo, ti invito a portarci a ritroso nel tempo, a prima della stesura completa o della prima stesura, per raccontarci quanto “accaduto” così da permetterci di condividere (e meglio comprendere) il percorso che l’ha vista nascere.

Ci sono più movimenti: delle parole nei versi e dei versi nello spazio. Perché non c’è un prima, o un dopo, senza un dove. Ad esempio, questi versi non sono mai cambiati, le parole sono come sono fin dalla prima stesura, ma tutt’insieme hanno atteso su resti di testi precedenti, prima di “alarsi” qui: «Per questo non hai più parole / (la bocca è una reliquia) /in te non c’è più nulla che sia tuo / per te, passano e sprofondano / i nomi, i giorni e una farfalla». Invece: «Voi, angeli del mio cuore, restate / creature di dolore / sentinelle del vero / sterili calici di fiori / del nostro mondo devastato» è cambiato. Il passaggio aveva, infatti, un verso in più: «Voi, angeli del mio cuore, restate / creature di dolore / sentinelle del vero / sterili calici di fiori / altro non potrete fare / nel nostro mondo devastato.» L’ho eliminato. Al fondo, o in principio, c’è sempre una scelta. Noi siamo un “sì” e un “no”. Due sillabe che insieme formano la parola “madre”.

*

Aimara Garlaschelli (nella foto di Karina Zen) è nata a Sondrio nel 1971. Vive a Milano. Ha pubblicato: Figure di silenzio (LietoColle 2016) e Il rito delle ore (ETS 2019); una traduzione di The Waste Land, di T.S. Eliot (ETS 2018); il poemetto Nel nome della madre (Einaudi 2022).  È in uscita Alfabeto della posterità (Scalpendi 2022).

 

(la versione ridotta di questa intervista a cura di Grazia Calanna, è apparsa sul quotidiano LA SICILIA del 02.10.2022, pagina Cultura, rubrica “Ridenti e Fuggitivi”).

 

Potrebbero interessarti