Poesia e fulgore, rubrica a cura di Franca Alaimo
Chissà quanti atlanti e mappe e trattati botanici, di zoologia, mineralogia (quelli che Cristina Campo suggeriva ai poeti di consultare per trarne le più preziose suggestioni), immagini, disegni, saggi sulle civiltà orientali avrà sfogliato e letto Gertrud Kolmar (Berlino, 1894 – Auschwitz, 1943?) nel suo lungo esilio tra le pareti domestiche -specie dopo la morte della madre che la trasformò in custode della casa e del padre- per concepire una poesia così fantasmagorica, traboccante di immagini esotiche ed esoteriche, evocate in una gamma infinita di colori e forme, in un incredibile mescolio di animali, piante, fiori, divinità, creature terrene e mostri.
Il mondo sotterraneo dei minerali e quello celeste degli astri s’intessono allo stesso modo di lucentezze ed oscurità; miti, riti e civiltà si intrecciano con effetti ora strambi, ora festosi, ora drammatici (alcuni dei quali così grotteschi e dilanianti da sembrare anticipatori della crudeltà dei campi di sterminio, di cui comunque l’autrice ebbe notizia prima di trovarvi la morte lei stessa), intanto che la memoria annoda insieme eventi reali ed altri partoriti dalla fantasia, senza che, a volte sia possibile distinguere gli uni dagli altri.
Si ha la sensazione che il pensiero di Gertrud Kolmar affondi la sua radice in quel sentimento della vita come possibilità caotica e imprevedibile dell’essere, così da conservare, pur sfrangiandosi esso in mille rivoli, un’energia inesauribile.
I versi della Kolmar potrebbero essere letti ad un uditorio di bambini (i più sensitivi fra i possibili fruitori, loro che intuiscono la vita prima di confondersi vivendola) come delle fiabe in cui coabitano bellezza e paura, creature viperine ed esseri angelicati, sventure e felici scioglimenti. Certamente essi saprebbero riconoscere nella stessa autrice la vera eroina di questa fiaba poetica, colei che, come scrive Cristina Campo, ha saputo «dimenticare tutti i suoi limiti nel misurarsi con l’impossibile» spiccandosi «l’anima dal cuore».
Tra apparizioni e paesaggi lussureggianti l’autrice rievoca le vicende drammatiche della sua vita, spesso ridotte in metafore sibilline, e, fra tutte, l’aborto di un figlio (frutto di un amore per un ufficiale che l’abbandonerà), a cui è costretta dai genitori per salvare la reputazione familiare.
Di questo bambino non partorito la poeta dice: porto e nascondo la sua testa e così / posso cercarlo / certe sere. Fu un trauma che si risolse in un irrimediabile senso di colpa e in un rapporto altrettanto ferito con la poesia, coltivata come una necessità, ma in un silenzio quasi autopunitivo, che, evitandole la ribalta, la lascia, sì, pressoché ignota al mondo letterario, ma libera di ondivagare in un un altrove indistinto, fuori dallo spazio-tempo, in quel suo singolare versificare, il cui traboccamento allude a una sensazione soffocante, crudele, morbosa, divenendo infine solo metafora della sua interiorità, del suo impeto vitale, della sua generosità sentimentale mortificata, di una memoria proiettata in un futuro improbabile attraverso la reiterata forma imperativa: “Vieni” che suggerisce immagini erotiche infiammate e struggenti.
Come scrive Helena Janeczek nella prefazione a “Mondi”, dal testo di apertura a quello finale «corre un filo sottile che propone […] l’unica forma di esistenza, o di resistenza ancora possibile»: una sorta di ubbidienza passiva che le consente, però, una dedizione totale alla Poesia, una forma alternativa di maternità. E non importa che il mondo non la prenda in considerazione, piccola com’è e nascosta, perché, come pure sa ed afferma Emily Dikinson, l’altra sposa solitaria della Poesia, Qualcuno ha già preparato per lei una corona con due basilischi verdeoro intrecciati e attende di celebrare la sua ascesi, la sua celeste consacrazione.