Poesia e fulgore. “Non è mai notte non è mai giorno” di Francesca Serragnoli, (Interno Poesia, 2023)

Poesia e fulgore, rubrica a cura di Franca Alaimo

            È soltanto una questione d’amore, un abbandono alla capacità generativa della parola, ciò che muove la poesia di Francesca Serragnoli, nella consapevolezza che «tutto contiene tutto», secondo una citazione da G. Barzaghi, come sanno bene i bambini che d’ogni cosa sanno fare altra cosa: il bambino, solamente il bambino / getta via i pianeti dal letto / batte le mani / come l’aria fosse la porta.

Così l’autrice infila, una dopo l’altra, parole spesso semanticamente lontane, perle della stessa collana che è la lingua sulla cui superficie si specchiano immagini senza peso, colme di echi misteriosi: una serie di piccoli dipinti onirici in cui l’assurdo spiega più della ragione il coesistere del troppo nella vertigine del reale. Fanno ingresso nei versi della Serragnoli anche la fiaba con una rana del Borneo che canta tutta la notte / in cerca di qualche altra rana / grande come un’unghia, e la magia che costruisce una serie di scatole cinesi dove dai diversi contenitori si può estrarre, ogni volta, qualcosa di nuovo e sorprendente, così come dagli occhi chiusi della persona amata scende il matto di Amarcord oppure una mora in gola, intanto che la poeta, incantata dal loro colore di foglia, come una vecchia radice sdraiata / ricorda sbocciare i fiori / guarda il cielo azzurro / coprire le gambe all’aria / con il lenzuolo di lino di Cristo, e dal  suo riso sgorga la sensazione di toccare col dito il fuoco.

I due termini ‘occhi’ e ‘porta’, tra i più ricorrenti nei testi dell’autrice, sembrano essere in correlazione tra loro, messaggeri di improvvisi splancamenti su un altrove grazie ad una sapienza accumulata non attraverso la lingua esatta della ragione, ma a quella emotiva e gorgogliante dei simboli, che raccolgono distanze e le colmano. Francesca Serragnoli aggiunge, fra l’altro. alle suggestioni delle immagini offerte dalla realtà quelle inventate (cioè trovate per la prima volta) da altri poeti, musicisti, pittori, registi, filosofi, mistici, convocando nei suoi versi Leopardi, Bach, Monet, De Chirico, Hopper, Fellini, Kierkegaard, Bobin, in ardite congiunzioni che squarciano il tessuto banale dell’informazione massiva.

La fede (forse meglio si direbbe atteggiamento) dell’autrice consiste, insomma, nel disconoscere separazioni, di stare sempre sull’orlo in modo da abbracciare insieme giorno e notte, luce e buio, bene e male, quelli che la civiltà occidentale nomina come opposti e che, invece, sono espressioni dell’Uno e dell’Alta Immaginazione di cui è stato fatto dono per squisito amore divino a tutti gli uomini. Perfino quando quest’ultimi diventano “gli intubati di Dio” nelle stanze di un ospedale in cui sono guardati dai sani come esseri limitati, quasi senza identità, continuano ad essere benedetti uno ad uno dallo Spirito Santo: finché sento quel frullo / piegato come l’angelo davanti a Maria // la sedia è la casa / dove incrocio le braccia / sul mio domani. Per questo gli occhi possono ancora essere, pure nella malattia, leopardianamente ridenti e fuggitivi, mentre le gambe scendono dal letto, fingono di correre sui prati, se è vero che anche nel dolore, anche nella paura della morte, restiamo esseri vibranti, contemplativi.

“Non è mai notte non è mai giorno” di Francesca Serragnoli, (Interno Poesia, 2023, prefazione di Isabella Bignozzi)

Ci sono parole per Francesca Serragnoli che non hanno confini, quali gli occhi, come è stato già detto, che guardano a tutto ciò che si fa vita, o le mani chiamate a sperimentare le superfici delle cose e i corpi degli altri senza mai volerli possedere, poiché solo in questo modo quello che se ne va / regala ciò che all’andarsene apre ed è, tenendole aperte, che fra una parola e l’altra / s’allarga un lago (altra parola ricorrente quest’ultima, insieme ad acqua e mare, come figure di lavacro interiore, di innocenza). E, ancora, il sostantivo ‘porta’, a cui pure si è già accennato, carità della protezione e insieme apertura al mondo, curiosità di vedere e conoscere. E i bambini e ogni altra presenza che alluda ad un mondo incorrotto, antecedente all’esilio terreno, a sensazioni di gioia, chiarità, biancore.

Eppure il mondo che l’autrice rappresenta non è astratto: si tratta, a leggere bene, di raffigurare piccoli eventi della quotidianità, ma transfigurati, visto che il mondo dell’aldiqua contiene anche quello dell’aldilà, e, se il poeta vuole narrare il secondo, non possiede altro mezzo per farlo che legare parole e immagini, anche le più lontane e con questi fili nascosti cucire insieme visibile e invisibile, reltà e sogno, corpo e Spirito. In questo modo la follia può scendere dalla cima di un albero come pensò Fellini nel film Amarcord, oppure fare girare in una stanza il sole e la luna come mosche, imitando un quadro di Hopper.

Si tratta, insomma, di ricamare la bellezza, ricorrendo a fili variopinti per dare vita ad un magnifico arazzo. Più che evidente la lezione di Cristina Campo che scrive: «La bellezza, innanzi tutto, nella sua immisurabile portata». Non per niente il libro della Serragnoli si apre con una poesia dedicata all’autrice che Ceronetti definì «Una luce – per chi è in grado, per intuitiva iniziazione, di riconoscere quel che sia Pneuma e filialità luminosa, ancora». (Gli Imperdonabili, Adelphi Ed.)

In essa è presente in tutta la sua vivida urgenza la poetica di Francesca Serragnoli, incentrata sull’Amore “sapiente vilipendio del Nulla”, “erotico atlante”, che sa come infilare nei letti/ gambe di gigli di santi, e che con la voce sa perfino incrinare l’asse terrestre.

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