“Poesie” di Velimir Chlébnikov. “Artista e artigiano del linguaggio, la sua poesia è il risultato di un lavoro continuo e preciso sulla lingua russa”

«Gli anni, gli uomini e i popoli/ fuggono via per sempre,/ come l’acqua fluente./ Nel dúttile specchio della natura/ le stelle fan da rete, noi da pesci/ i numi sono spettri in grembo al buio.», versi emblematici di Velimir Chlébnikov, scelti da “Poesie”, due volumi pubblicati da Einaudi (Saggio, antologia e commento di Angelo Maria Ripellino. Nuova edizione a cura di Alessandro Niero e Riccardo Mini.  Introduzione di Alessandro Niero). Questa nuova eccellente edizione, ripropone la storica, uscita nel 1968 nei “Supercoralli”, con l’aggiunta del testo a fronte e di un saggio introduttivo che, anche con materiali d’archivio, ripercorre e storicizza il lavoro di Ripellino sul grande poeta futurista. Protagonista dell’avanguardia russa del Novecento, Chlébnikov (1885 – 1922), ereditò dal padre l’amore per la natura e le scienze naturali, dalla madre l’interesse per storia, letteratura, arte e musica. “L’esperimento è in lui riscoperta di arcaici strati della cultura, di vecchie tappe del destino dell’uomo”, osserva Ripellino.

 Con “POESIE” di Velimir Chlebnikov, inizio col chiedere: perché (oggi), dalla voce dei curatori, leggere questi volumi? Cosa può la poesia “contro” la dilagante incapacità di ascolto (e cognizione)?

(risponde Alessandro Niero)

Innanzi tutto, è doveroso chiarire che il curatore dei volumi in senso stretto è Angelo Maria Ripellino (1923-1978). Poesie, infatti, rappresenta la riedizione in due volumi di una storica traduzione del noto slavista palermitano uscita nel 1968 per Einaudi nella collana «Supercoralli». Quel volume, in verità, appariva tipograficamente di paternità pressoché ripelliniana, tanto vero che in copertina figurava: Angelo Maria Ripellino, Poesie di Chlébnikov. L’occasione, quindi, è quella di rileggere, in una sede prestigiosa come la collana «Collezione di Poesia» di Einaudi (la cosiddetta «Bianca») un lavoro che, sebbene cronologicamente lontano, non ha smarrito la sua bellezza, sia per quanto riguarda l’autore tradotto, sia per il suo importante traduttore. Se ci è consentito usare una metafora gastronomica, parleremmo di versioni che il tempo ha saporitamente “stagionato”.

Per quanto riguarda la «dilagante incapacità di ascolto», siamo dell’opinione che la poesia, nel suo invito a un ascolto profondo, sia ormai diventato uno dei pochi, pochissimi strumenti che costringono ad aguzzare le orecchie: non soltanto “esige” di fare uno sforzo per entrare nel mondo altrui (di qui l’equivoca e riduttiva etichetta di genere letterario “difficile”), ma anche di attivare l’udito in senso lato, ossia di disporsi a gustare la musica delle parole inscindibile dall’affilatezza semantica dei versi. Per quanto possa sembrare strano, siamo inclini a credere che la poesia, anche la più oscura e approssimativa, sia una forma di precisione (o un tentativo di essere precisi).

Quali parole vi “trovano” se chiedo di tratteggiare Velimir Chlebnikov? Ovvero in un lungo tempo di “ascolto” cosa vi hanno “restituito” i suoi versi, meglio il suo “fare” (poesia)?

(risponde Riccardo Mini)

Crediamo che la poesia di Chlebnikov, come la sua vita, restituisca l’impressione del viaggio continuo, del movimento ininterrotto in uno spazio e in un tempo amplissimi, in cui si uniscono epoche e spazi geografici differenti. Ci si può per questo trovare al tempo stesso sulle sponde del fiume Volga, alle prese con i khan mongoli, nel Sahara, in Tibet o nella Mosca del futuro. È inoltre interessante notare, connesso a questo tema, il modo in cui il poeta tende a un utopismo di stampo futurista, ma sempre connotato da un ritorno al passato, una tensione verso un passato folclorico e mitologico antico russo, quasi un’arcadia slava. Fa da contraltare a questa caratteristica della poesia chlebnikoviana l’abilità di ridurre il poetato ai minimi termini, riducendo, per esempio, nella poesia di copertina, il mondo a “un sogghigno / che luccica fioco / sulle labbra di un impiccato”. Sembra dunque di muoversi in un universo poetico amplissimo e minuscolo al tempo stesso.

In ultima, Chlebnikov è artista e artigiano del linguaggio, la sua poesia, il suo linguaggio, personalissimo e ricchissimo di neologismi, è il risultato di un lavoro continuo e preciso sulla lingua russa, e richiede quindi (sia nell’originale, sia nella traduzione italiana di Ripellino) un’attenzione particolare al gioco linguistico e alle immense possibilità della creazione linguistica, da riscoprire con occhio e libertà quasi infantili, sulla scia di Chlebnikov, nella cui intonazione si combinano tragico e scherzoso, solenne e burlesco.

“Accenderò il destino,/ quanto me ne bisogna/ per la vita e la morte”, la poesia è (anche) la lingua dell’invalicabile?

(risponde Riccardo Mini)

Il poeta ha la facoltà di porsi come creatore e al tempo stesso attore del suo universo poetico. Questa significa che il poeta ha in poesia la possibilità di dire tutto, e dunque anche l’invalicabile. In Chlebnikov questo si manifesta in modi diversi; si pensi ai versi di Lúgubre, componimento dai toni e dai temi nietzschiani, nel quale il poeta annuncia: “Quando sarò venuto a noia a me stesso, / andrò a gettarmi dentro il sole d’oro”, proclamando quindi la sua morte (“Son morto, morto, ed è sgorgato il sangue”) ma anche il suo eterno ritorno (“Mi sono ridestato in altro modo”), e mostrandosi così l’unico artefice del proprio destino. In un’altra poesia il poeta sembra contrapporsi agli dèi, ai quali rivolge un’invettiva blasfema: “Faccenda vostra, dèi, / se ci avete fatto mortali” e ai quali promette di scagliar contro “lo strale avvelenato dell’angoscia”. L’universo poetico chlebnikoviano appare come un caotico insieme di frammenti in cui, come detto, tutto sembra trovare rappresentazione. Ripellino, nel suo saggio introduttivo, scrive che “Il sacerdote dei fiori” – Gul mullā, così definivano Chlebnikov i persiani in occasione di un viaggio del poeta nell’odierno Iran, nel 1921 – “frequenta l’immensità” e “cerca nell’infinitesimo rispecchiamenti del cosmo”. Quella di Chlebnikov è continua peregrinazione poetica, scoperta ed esplorazione di un mondo senza confini, sensibile di essere cantato in tutte le sue sfaccettature e sfumature e in cui anche l’indicibile trova espressione.

“Si affila il filo azzurro delle notti,/ soffia in tutto ciò che v’è di caro,/ e qualcuno chiamava con languore,/ pensando alle amarezze della sera.”, la poesia può colmare la pensosa solitudine del poeta?

(risponde Riccardo Mini)

Chlebnikov era, in vita e in poesia, un vagabondo. Sembrava non riuscire a fermarsi mai, pareva per lui impossibile adattarsi alle consuetudini della vita comune o sottostare a delle regole. In una sua prosa, Chlebnikov scrive: “Provavo un’autentica fame di spazio”, dando così espressione concreta a un’esigenza fisica, a un vero e proprio bisogno di aria. Questa caratteristica, unita al suo aspetto – i capelli lunghi, gli occhi azzurri – e al fatto che scrivesse versi straordinari, hanno contribuito a creargli, già in vita, un alone di poeta-profeta e pellegrino, ai quali tuttavia si accompagnavano anche l’isolamento, lunghi periodi di solitudine e l’incomprensione riservata a un “poeta difficile”. La poesia può contribuire a colmare la solitudine che avvolge il poeta, che tuttavia, proprio nei suoi versi, torna sul tema più volte. Significativi in questo senso sono due componimenti scritti dal poeta poco prima di morire – le due poesie che chiudono l’antologia da noi presentata – in cui Chlebnikov si scaglia contro i detrattori, parla di “scritture-vendetta”, esordisce con: “Ancora una volta, ancora una volta / io per voi / sono stella” e prevede la rovina di coloro che non lo hanno compreso o voluto comprendere: “vi sfascerete sugli scogli / e gli scogli rideranno / di voi, / come voi avete riso / di me.”.

La poesia è realmente traducibile? E se lo, è più corretto parlare di traduzione, di reinvenzione, o di riscrittura?

(risponde Alessandro Niero)

Il tema è da sempre ampiamente dibattuto e non ha, crediamo, una soluzione definitiva. Se dobbiamo dar retta a uno studioso come Roman Jakobson, per la poesia è possibile soltanto la «trasposizione creatrice» e non una traduzione classicamente intesa. Quindi ci troveremmo automaticamente nella regione della riscrittura. È anche vero, però, che si traduce poesia da sempre e, per di più, anche testi che non hanno i crismi formali della «trasposizione creatrice» vengono recepiti come poetici e hanno (e hanno avuto) una circolazione significativa. La questione, insomma, travalica ampiamente il prodotto-traduzione in sé e le sue caratteristiche, per coinvolgere fattori come la tradizione poetica di accoglienza, il sistema culturale entro cui si inscrive l’attività del traduttore e molto altro che sarebbe tedioso elencare. Se dobbiamo proporre un’immagine del testo poetico tradotto (parliamo, in questo caso, dell’italiano come lingua di arrivo) crediamo che si possa vedere – appoggiandoci a quanto scritto in più circostanza da uno di noi due (Alessandro Niero) – posizionato in una specie di “zona franca” costantemente assediata dalla pressione degli istituti (anche formali) dell’originale e dalle consuetudini della cultura di accoglienza. In altre parole, è da vedersi collocato come in una zona “terza’, dove contemporaneamente si sa di essere qui, nel contesto della lingua italiana, e altrove, ossia là donde si è partiti. Semplificando un po’ (ma non troppo) è un po’ come quando da piccoli ci si serviva dell’imperfetto ludico dicendo «facciamo che eravamo».

E, ancora, la poesia è più ispirazione o più costruzione? Qual è stato, ad oggi, un “insegnamento” ricevuto in dono dalla poesia o, se preferite, “semplicemente” da un verso (sarebbe bello vogliate citarlo e commentarlo)?

(risponde Alessandro Niero)

Riteniamo che ridurre la poesia a mera ispirazione (qualunque cosa voglia dire questa misteriosa parola) o a mera costruzione sia, in entrambi i casi, riduttivo e penalizzante per la poesia stessa. Per dar vita a un componimento sono necessarie entrambe le componenti, ossia deve esserci un bilanciamento tra una parte, diciamo così, irrazionale e irriflessa e una parte razionale e consapevole. Personalmente crediamo molto al “lavoro” intorno a un testo, alla sua “tornitura”, alla dimensione artigianale: perché la poesia è anche (ma non solo) tecnica, è anche forma, e non semplice effusione verbale.

Quanto al “dono” o l’“insegnamento”, molti sarebbero i versi che potremmo citare legati alla nostra storia personale e culturale. Ma decidiamo di concentrarci sui primi quattro di una poesia, Esorcismo con il riso, che sta proprio fra le prime incontrate – anzi re-incontrate – nella frequentazione di Chlebnikov:

Oh, mettetevi a ridere, ridoni!

Oh, sorridete, ridoni!

Che ridono di risa, che ridacchiano ridevoli,

oh, sorridete ridellescamente!»

Per quanto ridotti a due (‘ridoni’ e ‘ridellescamente’), in questo incipit folgorante c’è uno dei cuori pulsanti della poetica di Chlebnikov, ossia la passione – intellettuale e viscerale a un tempo – per i neologismi. Questa moltiplicazione di sostantivi, aggettivi e avverbi che si dipartono dalla parola ‘riso’ (in russo smech), dovrebbe restituire al lettore il senso delle possibilità ancora non espresse in una lingua; anzi: il senso dei vocaboli non ancora nati in una lingua. Il traduttore qui, così come ha fatto Chlebnikov, ha dovuto generare, quasi partorire parole non esistenti nei vocabolari, ma potenzialmente esistenti, sprigionando tutta la magia di una creatività che è sì, volendo, imparentata con la filologia e l’etimologia, ma, ha anche un’energia nella quale tutti ci possiamo riconoscere, se solo ci ricordiamo la grande facilità con cui, in modo innato, i bambini creano parole strambe o bizzarre partendo da una parola conosciuta. Questo elemento di germinazione primordiale, non necessariamente cólta e quasi infantile, è ciò che ci colpisce di più in questa poesia, che di primo acchito sembrerebbe un parto della mente, ma in realtà è il realizzarsi, finalmente senza barriere, delle potenzialità nascoste della lingua. Non è un caso infatti che tra i maggiori estimatori – e furono molti – di questo testo che anche un suo côté ludico e divertito, figurasse Kornej Čukovskij, uno dei più importanti autori russi per i piccoli (e non solo). Diciamo ciò non tanto per amore di cronaca nel ramificatissimo fenomeno della ricezione di Chlebnikov nel suo stesso paese, ma per indicare come un elemento “bambino” – e quindi capace di intercettare tutti – non sia alieno alla sensibilità del poeta. E anche in traduzione, qualora si compia una operazione analoga a quella fatta da Ripellino, tale sfumatura può essere più che adeguatamente apprezzata.

Scegliereste, e per salutare i nostri lettori, una (o, chiaramente, due, fossero, come immagino, scelte differenti) poesia di Velimir Chlebnikov che ha cambiato (più di altre, e ammesso sia accaduto) il vostro “modo” di essere (stare) nel mondo (e, magari, spiegandoci il perché di questa scelta/preferenza)?

 (risponde Riccardo Mini)

Abbiamo deciso di riportare due poesie: Bobėòbi si cantavano le labbra e Il rifiuto.

Bobėòbi si cantavano le labbra
vėėòmi si cantavano gli sguardi
piėėo si cantavano le ciglia
liėėėj si cantava il sembiante
gzi-gzi-gzėo si cantava la catena:
cosí sulla tela di alcune corrispondenze
fuori della dimensione viveva il Vólto.

Riteniamo che la poesia Bobėòbi si cantavano le labbra esprima al meglio l’atteggiamento del poeta nei confronti del linguaggio di cui abbiamo parlato in precedenza. La creazione di un linguaggio unico e personale, le diverse sigle sonore attribuite alle diverse parti del volto, quella che Ripellino definisce “scomposizione volumetrica” che “trapassa in disgregamento acustico” rappresentano l’estrema libertà creatrice e creativa che sottostà alla poesia chlebnikoviana, un rapporto con la lingua quasi primigenio, in cui lo spirito creatore dell’artista si unisce a una libertà quasi infantile e quasi universalmente sperimentata. Si tratta di un’opera che è al tempo stesso manifesto delle infinite possibilità dell’artista e apertura verso il diverso e verso un’esperienza diversa della conoscenza.

Il rifiuto

È per me di gran lunga più gradevole
osservare le stelle,
che sottoscrivere una sentenza di morte.
È per me di gran lunga più gradevole
ascoltare le voci dei fiori,
che bisbigliano: «è lui!»,
quando passo per il giardino,
che vedere i fucili,
che uccidono quelli che vogliono
uccidere me.
Ecco perché non sarò mai
e poi mai
un uomo di governo!

Il rifiuto è insieme un inno alla libertà e alla comunanza con la natura circostante, rappresentata dal cielo, dai fiori e dal giardino, e critica feroce rivolta alla violenza e ai perpetratori di violenza. È insieme messaggio di pace ed estrema comunione col mondo circostante, invito ad ascoltare ed estremo rifiuto di qualsivoglia sopruso.

Alessandro Niero (nella foto di Edith Bunimovich) insegna letteratura russa all’Università di Bologna. Si occupa principalmente di poesia russa del secondo Novecento, della sua ricezione in Italia e di traduzione poetica. Sue le monografie L’arte del possibile. Iosif Brodskij poeta-traduttore di Quasimodo, Bassani, Govoni, Fortini, De Libero, Saba (Cafoscarina, Venezia 2008) e Tradurre poesia russa. Analisi e autoanalisi (Quodlibet, Macerata 2019). Ha curato diversi volumi di poeti russi, i più recenti dei quali sono: Boris Pasternak, Quando rasserena (Passigli, Firenze 2020), Irina Ermakova, Lo specchio di bronzo (Einaudi, Torino 2023) ed Elena Švarc, Mattino della seconda neve (Bompiani, Milano 2023). Per la sua attività di traduttore di poesia ha ricevuto diversi riconoscimenti nazionali e internazionali.

Riccardo Mini (nella foto di Francesco Cinà) ha conseguito il titolo di dottore di ricerca presso Sapienza Università Sapienza di Roma e la Karlova Univerzita di Praga. Si occupa di poesia russa contemporanea, in particolare tardo-sovietica e dell’opera di Elena Švarc. Concluso il dottorato, lavora come traduttore, curatore e lettore per diverse case editrici italiane. Tra i lavori più recenti: la co-traduzione del libro La mia Russia. Storie da un paese perduto di Elena Kostjučenko (Einaudi, Torino 2023), il contributo e lo studio dei Motivi persiani di Sergej Esenin (Passigli, Firenze 2024, traduzione e cura di Iginio De Luca), la curatela, assieme ad Alessandro Niero, di Poesie di Chlebnikov (Einaudi, Torino 2024, traduzione, saggio e commento di Angelo Maria Ripellino) e la traduzione del libro La fine del regime di Aleksandr Baunov (Silvio Berlusconi Editore, Milano 2025).

(la versione ridotta di questa segnalazione-intervista a cura di Grazia Calanna, è apparsa sul quotidiano LA SICILIA del 23.02.2025, pagina Cultura, rubrica “Ridenti e Fuggitivi”).

Potrebbero interessarti