A più di quarant’anni dall’uscita di Somiglianze, la poesia di Milo De Angelis si presenta come un crocevia ormai ineludibile per la generazione poetica entrante: lo testimoniano due tra le opere prime più significative degli ultimi anni, Santa ricchezza (CartaCanta, 2015) di Lorenzo Babini e A questa vertigine (Italic, 2016) di Pietro Russo, ove l’esempio del poeta milanese si espande oltre sé stesso intrecciandosi con suggestioni di varia ascendenza.
Santa ricchezza, in tre movimenti, esplora i varchi che il mistero apre su sé stesso, sottoponendo l’«origine» a interrogatorio, tentando l’abluzione in quel «gorgo» che, da Pavese in giù, assurge a emblema delle «forze della notte». Questa poesia-catabasi (Dantis ossa è la sezione centrale) sa la consunzione organica, il fuoco finale, ma ha anche il coraggio di avventurarsi nelle oscurità pericolanti dell’Altro (la torre, il palazzo, il castello), nella «bellezza della vita che combatte».
A questa vertigine, in sei sezioni, osserva la scena del mondo da quell’istante di presenza in cui essa si rivela finita e transitoria: componendo in una solida geometria musiva richiami evangelici, spunti filosofici, immagini verghiane, Russo getta un ponte tra l’esperienza e un assoluto sempre invocato, accendendo la lingua di riflessi estremi e interrogazioni ultimative.
Possiamo ormai asserire senza tema di smentita che «Somiglianze» (1976) è il libro di due generazioni poetiche: il rigore insonne della sua visione, il suo stile pindarico si confermano capaci di segnare la vita intima dei lettori. Qual è il tuo rapporto con quest’opera? Cosa ti dice di te che non sai ancora?
Lorenzo Babini. Somiglianze è stato il libro che forse ho letto e studiato più di ogni altro. È il libro che ha smascherato le nostre coscienze di uomini contemporanei rendendoci al nucleo tragico dell’esistenza. Parte della sua forza è riassunta in una frase contenuta ne La corsa dei mantelli del 1979, dove De Angelis, riprendendo alcuni versi di Somiglianze, aggiunge: «non chiedere mai nulla che sia meno della gioia».
Pietro Russo. Somiglianze è stata una delle prime letture “non canoniche”. Ricordo bene la sensazione di essere il campo di battaglia tra due forze opposte, una che mi attraeva al cuore del libro e un’altra che mi scaraventava lontano da esso. Devo dire che ogni rilettura – e nel tempo sono state tante! – ha confermato quell’“imprinting” iniziale. Per me tornare al suo universo vuol dire ridefinire l’asse e la direttrice di una “linea d’ombra” che in qualche modo mi appartiene.
Poi la forma si illimpidisce, le parole cadono da spazi immensi, in “Tema dell’addio” (2005) ancor più che in “Biografia sommaria” (1999). Come leggi la svolta ‘narrativa’ di De Angelis?
L. B. Non parlerei di svolta narrativa. C’è una dimensione limpida, distesa e narrativa in molta poesia contemporanea, ma non appartiene a De Angelis. Parlerei piuttosto di un nuovo modo di intendere il valore gnoseologico della poesia e di scommettere su di esso dopo le sintesi di Millimetri, Terra del viso e Distante un padre, che avevano bruciato in sé ogni discorso, ogni possibilità di svolgimento.
P. R. È innegabile che i dieci anni di silenzio che precedono Biografia sommaria rappresentino una svolta tra un prima e un dopo. Personalmente ritengo che sia dovuta alla necessità, assolutamente fisiologica, di incanalare il magma incandescente degli inizi in una ‘narrazione’ più sequenziale della realtà, meno vorticosa ma non per questo meno fluida.
Per i poeti antichi l’autonomia stilistica rispetto ai modelli rasentava il vizio; oggi è spesso identificata con il diritto di modellare le forme sui propri ritmi interni. Ma esiste un apprendistato formale stricto sensu? Com’è che un giovane autore studia e fa proprio lo stile di un poeta come De Angelis?
L. B. Per suggestioni più o meno consapevoli o per educazione a una forma di sensibilità. A uno tanto incostante e irregolare come me nella scrittura manca la coscienza di un apprendistato. Non ho mai avuto l’intenzione di adottare uno stile poetico e non credo che scrivere una poesia oggi sia essenzialmente una questione di stile.
P. R. Penso a Gustav Mahler: «Tradizione vuol dire custodire il fuoco, non adorare le ceneri». Non solo credo che esista un apprendistato formale, ma ritengo che esso sia strettamente necessario e che risponda alla vocazione-volontà di ‘custodire’ ciò che ci precede nel tempo. Posso dire di aver assimilato la lezione di De Angelis che il verso è unità metrica ed esistenziale: non è arbitrio, libertà assoluta, anarchia; piuttosto rivela la necessità ineludibile di una voce interiore.
La poesia di De Angelis indaga i rapporti fra accidentale e assoluto, trapassato remoto e infinito presente, smarrimento e risorgenza: «C’è un guizzo di luce, sulla lamiera, proprio in mezzo alla strada, nel cuore stesso dell’incidente». Nella tua poesia prevale una delle due direzioni?
L. B. Una poesia che vive solo di accidenti diventa giornalismo. Una poesia fatta di assoluti invece, se non si deteriora in codice misterico e matematico, porta comunque in sé qualcosa di disumano. Tra le due opzioni mi sono scoperto a più riprese tentato dalla seconda, ma cerco di evitarla come si evita un pericolo. È stato anche il rischio di un importante percorso poetico a cui Luzi, in una celebre edizione, ha dato il nome di “Idea simbolista”. C’è qualcos’altro insomma, qualcosa di cui oggi non riesco a dare definizione teorica.
P. R. Direi di no. Quello che cerco, nella poesia degli altri come nella mia scrittura, è il naturale equilibrio tra questi due poli. L’assoluto in sé – il «guizzo di luce» – non significa nulla: ha senso solo se calibrato su precise coordinate storico-spaziali, se ha la forza di diventare «incidente», di penetrare questo «cuore».
«Mi trovo in un vuoto storico. Vivo, da sempre, un rifiuto motivato della politica. […] Conta solo la presenza, nei miei anni, dei libri che amo.» Ti rifletti in queste parole di De Angelis? Come si pone la tua ricerca poetica nei confronti della storia collettiva?
L. B. In Santa ricchezza ho cercato un dialogo con la letteratura italiana delle origini, con l’antica poesia provenzale, con epigrafi e monumenti. Gli elementi della contemporaneità apparivano come icone su sfondo dorato, come significanti primari. Vedo compiersi in me e in molti dei miei coetanei un’estrema forma di soggettivismo: dell’interesse per un destino collettivo conservo solo oscuri presagi.
P. R. Sento abbastanza vicina questa riflessione ma con un motivo di distinguo: più che di rifiuto, per quanto mi riguarda, parlerei di distanza. Intendendo ‘politica’ non nell’accezione che rimanda all’idea di bene comune, ma come quell’indecoroso baraccone che riempie i giornali. Quest’ultimo è distante da me e dalle esigenze della mia generazione, è la manifestazione tangibile del narcisismo di alcuni ‘padri’. Appartiene certamente al mio percorso poetico, invece, la sensibilità per un orizzonte condiviso di idee e di valori.