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Foto di Pasquale Comegna

 

allo specchio di un quesito

 

Per Karl Kraus bisognerebbe scrivere ogni volta come si scrivesse per la prima e per l’ultima volta. Dire quanto sarebbe giusto per un congedo e dirlo così bene come per un debutto, per Sandra Petrignani?

    Una volta ho chiesto a Moravia cos’era la letteratura per lui, cosa era stata la letteratura quando era giovane e cominciava a scrivere. Mi rispose: “Era semplicemente tutto”. Anche per me è stata a lungo “semplicemente tutto”. Ora, di fronte alla domanda di questo bel sito, l’EstroVerso, dotato di nome dalle diverse risonanze, mi chiedo: è ancora così per me? O forse è una risposta che ha senso solo nella giovinezza? Da giovani si è drastici e assolutisti, poi si viene a mano a mano a patti con la vita, e del resto la vita si riempie di cose interessanti. Eppure, nel fondo di me, ancora ci credo che nella mia vita la letteratura sia tutto, ma per una ragione più complicata. Ecco, oggi toglierei il “semplicemente”, perché di semplice non c’è proprio niente. La letteratura è tutto, perché sono riuscita a metterci dentro tutto il resto, la vita mia e degli altri, tutto l’amore e tutto il dolore.

      Ho detto letteratura e non “scrittura” che però è il tema della domanda che questo sito mi pone. Ho detto letteratura perché non riesco a pensare alla scrittura separatamente dalla lettura. La stretta relazione con altri scrittori venuti prima di me, scomparsi ma vivi perché vivi sono i loro libri, o comunque più vecchi, è imprescindibile per il mio scrivere. Le loro anime sono costantemente vive dentro di me, agiscono nel mio spirito nelle azioni della mia vita quando scrivo e quando non scrivo, sono la mia acqua e il mio pane quotidiani.

      Kraus lega l’idea di scrivere all’idea di un congedo e insieme un debutto. Ha un’idea aurorale e mortuaria della scrittura. Forse a suo modo dice la stessa cosa di Moravia, che scrivere è cioè “semplicemente tutto”, l’alfa e l’omega. Non a caso scelgo questa espressione biblica. Perché ci troviamo nel territorio del sacro. “Territorio del diavolo” diceva Flannery O’Connor, un’autrice – ho il sospetto – che i giovani autori e persino le giovani autrici non leggono quanto dovrebbero. Territorio del diavolo o dell’angelo, per non nominare la Suprema Autorità, non esiste vero scrittore che non scriva se non invasato, ossia in combutta con gli spettri, con un qualche aldilà sconfinato che però confina – sempre, necessariamente – con la sua più privata, indecifrabile interiorità.

      E con gli altri scrittori, viventi, e con quelli che vengono dopo? si chiederà. Ho con loro un rapporto cameratesco. Non potrebbe essere che così. Con quelli della mia generazione condivido, in più, una specie di nostalgia per tempi in cui non c’era bisogno di incontrare fisicamente i lettori, come succede oggi che i libri bisogna accompagnarli per mano in giro per festival, librerie, circoli e via dicendo. Non sono più in grado di andare da soli per il mondo, come bambini esposti a troppi pericoli. Ma succede che questi festival e questi incontri si trasformino in una bella giostra divertente, occasione di gite fuoriporta e di tavolate goliardiche. Può anche essere simpatico, ma è un andazzo che porta lontano, terribilmente lontano da quel Tutto che è nel cuore di chi scrive mettendo in gioco ogni volta la parte silenziosa e delicatissima di sé.

 

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