“Scrivo per il dovere morale di verificare se una propensione naturale è un talento”

Marco Giacosa su l'estroverso

Ho due amici che sanno tutto di tennis. Uno passa il lunedì, il giovedì e il sabato al circolo, si allena con il maestro e talvolta fa tornei; l’altro non ha mai preso una racchetta in mano. Gli ho chiesto come sia possibile che in vent’anni di passione non abbia mai avuto la voglia di provare a fare quello sport, la risposta è stata: «Non mi va».
Scrivere, per me, è passare tre sere al circolo, è il tentativo di produrre la medesima dose di piacere che mi arriva dalla lettura. È una propensione naturale.
Quando avevo otto anni, il premio per un voto a scuola era una moneta da 500 lire che investivo in un secondo quotidiano. Papà era abbonato a «La Stampa», se mi comportavo bene avevo la possibilità di prendere «Tuttosport» o «La Repubblica» o il «Corriere della Sera» o «Il Giorno». I miei compagni avevano in stanza i poster di Platini o Maradona, io gli articoli di Vladimiro Caminiti e Gianni Brera. Guardavo il calcio per capire i pezzi che avrei letto il giorno dopo, sognavo di essere mandato a guardare le partite e poi scriverne; andare, osservare ogni dettaglio e raccontare.
Non c’è un momento in cui ti rendi conto di essere un po’ diverso dagli altri: forse quando sei quello che strappa più fogli centrali dai quaderni, quello che alla ragazzina non manda un biglietto ma una lettera. C’è senz’altro un po’ di arroganza, un senso del dovere di spiegare le cose, la paura che l’altro non capisca: soltanto dopo ti rendi conto che ha sempre avuto ragione Blaise Pascal, che nel 1656 disse: «Mi scuso per la lunghezza della mia lettera, ma non ho avuto il tempo di scriverne una più breve».
La propensione naturale – leggere, vivere, (osservare), raccontare per mezzo della scrittura mi conduce a diciassette anni nella redazione di un neonato settimanale locale. Guadagno una pietra ma sono un liceale e universitario che passa i weekend facendo per qualche anno ciò che ama: gira la provincia, improbabili campi di calcio calpestati da improbabili calciatori di cui scrivere a tarda notte. Nel piccolo, l’epica delle grandi redazioni: gioco a fare Caminiti.
Sono tuttavia figlio di una terra e di una generazione che dice: «Sì, ma come ti mantieni?». Qualche anno prima avevo scelto di studiare economia, una non-scelta al pari di quell’altra – giurisprudenza – che fanno tutti quelli cui manca il coraggio di affondare nelle cose che uno ha dentro. Non affondo. Non ho coraggio. Faccio altro.
Eppure continuo.
Leggo. Vivo. (Osservo). Scrivo.
Carta, file, web.
Perdo interesse per lo sport.
Aumento interesse per la letteratura. Per i romanzi, per i racconti; per la tecnica. Quindi studio: tecniche di narrazione, retorica, come e perché un testo funziona e altri no (quando si può capire: non sempre ci riesco, ad esempio non ho ancora capito come abbia fatto Salinger a scrivere Il giovane Holden). Lo studio, mi permetto questo consiglio a qualche lettore giovane, è il segreto di ogni soddisfazione: sia essa aggiustare un rubinetto, che scrivere o tenere un discorso davanti a centomila persone.
L’amico che fa tennis tre volte a settimana mi dice che un giorno pensa alla tecnica, un giorno al fisico e soltanto un giorno fa partita. Scrivere mi ricorda quello che fa lui: il tempo dedicato a studiare e approfondire la lingua e le tecniche di narrazione (esistono tanti testi, molti classici) è tanto importante quanto «dedicarsi al fisico» cioè leggere (classici, o contemporanei sentiti affini), quanto «fare la partita», cioè scrivere. Un testo, quale sia la sua forma, racconto, articolo, racconto lungo, romanzo, post per blog, stato di Facebook, è sempre il risultato di ciò che siamo.
E noi siamo ciò che abbiamo fatto e facciamo.
cop marco giacosa l'italia dei sindaci su l'estroversoL’ultima cosa che ho fatto è un libro che si chiama «L’Italia dei sindaci», uscito il 26 marzo per Add Editore. È racconto dell’Italia da parte dei sindaci, l’Italia raccontata con gli occhi di chi ha deciso di dedicare tempo e lavoro – gran parte della propria vita – a gestire la cosa pubblica. La forma del racconto è l’intervista inframmezzata da parti narrate in prima persona: ho viaggiato, ho visto le città, non ho parlato con i sindaci via Skype o al telefono, quindi è anche il racconto di un viaggio durato mesi per questa nostra Italia che associo all’aggettivo «bellissima». Si potrebbe scrivere un libro sullo scrivere questo libro: parlare per ore su come è nata l’idea, e si è sviluppata, e poi realizzata. Per farlo in poche righe, pensando a Pascal, non c’è tempo.
In somma, scrivo per il dovere morale di verificare se una propensione naturale è un talento. E ogni talento, per il medesimo dovere morale, va allenato e approfondito indipendentemente dal risultato.
In definitiva, scrivo perché mi fa stare bene. Se una cosa ti fa stare bene, e non danneggia nessuno, falla.

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