Poesia e fulgore, rubrica a cura di Franca Alaimo
Susana Szwarc, Trecce, Lebeg Edizioni. Traduzione di Lucia Cupertino
«Acchiappò la bambina. L’acciuffò per le trecce. Le chiuse la bocca e cominciò a togliere le mutandine. Ma si fermò. Perché comiciò a piovere […] e poi, con le forbici affilate, le taglia le trecce. E corre perché l’urlo che emette è troppo forte. Rimbomba. Rintrona. E l’uomo getta le trecce nel fosso. Anche le forbici e il pettine. E la bambina si alza col suo vestito a fiori inzaccherato. Porta le mani alle trecce e il vuoto che tocca la fa piangere».
Tutta la vita ossessionata da questo ricordo lontano, quelle trecce tagliate e gettate nella cisterna insieme al candore dell’infanzia.
Perciò in questa poesia, che si fa romanzo e viceversa, piove sempre, e la protagonista ormai adulta continua a indossare un vestito a fiori e, nel mezzo di una tempesta, ama restare a piedi nudi in una pozzanghera, non si ripara, non fugge, si offre disarmata allo sguardo degli altri.
Una povera folle, dice qualcuno, mai più davvero amata, mai più capace di amare veramente o che forse ama troppo per essere credibile: i genitori, le sorelle, il marito, i figli. Meglio ricorrere alla scrittura piuttosto che alle parole, perché dinnanzi al foglio lei può raccontarsi, muta. Meglio lasciare ai parenti la certezza di conoscerla, piuttosto che non essere più riconosciuta quando va a trovarli, Perché lei è da sempre sola, chiusa nella cisterna della memoria, nel buio, nel pianto.
Infatti, lei, di cui è fatto il nome solo alla fine (si chiama Ofelia, l’immersa nel fiume che la trascina, i capelli sparsi sull’acqua), ama piangere quando piove. Sentire sulla faccia la disperazione del cielo frantumato mischiarsi alla sua.
Tante sono le figure che passano tra le parole, scompaiono e ritornano, muoiono tante volte e altrettante risorgono, perché il tempo non scorre secondo una successione lineare di ore, mesi ed anni, ma avanza e torna indietro, s’accovaccia nella memoria del passato e improvvisamente rinasce e fa male come quella prima volta, frammentando gli episodi di una biografia, inscenandoli più volte sul palco delle contraddizioni, in un moto ondoso inarrestabile, doloroso.
L’unico rimedio sembra essere affidato ai meravigliosi inganni di una guaritrice che oppone al vero la fantasia, la risata che scaccia i demoni, che sembra rimproverare la donna di avere perso la magia che guida secondo altri sentieri dell’accecante chiarezza della ragione.
Il feticcio della memoria verrà reso sterile alla fine di questo mescolarsi di parole, che ricorda in qualche modo il flusso di coscienza rappresentato per la prima volta da Joyce, quando le nocche del fazzoletto in cui sono custodite le trecce verrano sciolte: «e le trecce si disfano. Il fazzoletto non annodato, allungato, solo, comincia a cadere. Lo guardiamo fermarsi proprio sulla mattonella che separa la strada dal marciapiede».
Con queste parole ha termine Trecce della scrittrice argentina Susana Szwarc.
La prima cosa che ci si chiede, dopo averr chiuso il libro, è: Che cosa ho visto? Che cosa è accaduto?
La mente e l’anima del lettore, infatti, sono state come rapite da un vorticare di suoni, sono state aggredite dalle parole chiave, come coltelli acuminati: trecce, pioggia, pozzanghera, capelli, pettine…trecce, pioggia, pozzanghera, capelli, pettine, ancora e ancora. Sì, é stato un viaggio pauroso dentro una psiche sofferente, è stato camminare su un pendio scosceso, ci si è inzuppati, sporcati, ci si è perduti e poi infine, come quando ci si sveglia da un incubo, tutto è sparito, disfatto alla luce del sole.
Siamo tornati con i piedi sulla terra. Ma la vertigine, quella della poesia, non è più dimenticabile. Ci ha portati in un altrove che sembra irreale, ma che esiste solo per chi, come i poeti, sa guardarlo.