Tersa morte, ultima raccolta di Mario Benedetti (nella foto di Dino Ignani), è uscita nel 2013 per la collana “lo specchio” Mondadori. Un libro che per compiutezza, risolutezza, necessità espressiva, si è fortemente distinto nel panorama editoriale italiano degli ultimi anni. È il terzo volume pubblicato da Benedetti per la collana di Mondadori. Segue Umana gloria del 2004 e Pitture nere su carta 2008.
Il primo di questi due libri, quello che ha dato al suo autore la definitiva consacrazione, è una raccolta in cui si rielabora il passato, si recuperano le cose, le persone, i luoghi che sono stati e che non sono più, quelli che rimangono nel ricordo. Benedetti mette insieme testi inediti e precedentemente pubblicati, e volge indietro lo sguardo alla sua vita, nomina le cose, le tocca, con uno stile già netto, secco, inappellabile; la nostra lingua quotidiana, ripulita dell’inessenziale, una «sintesi originale di rasoterra e prosaico da una parte, e stupefatto stile lirico dall’altra», come lo ha definito Andrea Afribo in un saggio sull’opera del poeta friulano (in Poesia contemporanea dal 1980 a oggi).
Pitture nere su carta è invece una sorta di esperimento poetico, un libro rapsodico, frammentario e fulminante. Ispirato alle Pinturas negras di Francisco Goya è stato composto, come rivela lo stesso autore, in brevissimo tempo, in preda a un bisogno febbrile. Un libro complesso, apparentemente sfuggente che «parla di quel che resta, i resti della mia vita, del mondo che ho conosciuto. Uno sguardo ultimo, dall’alto […]». E lo fa con uno stile sfilettato, asciugato, conciso, fatto di versi brevi e brevissimi, di una precisione infallibile.
Ripercorrere le tappe precedenti – anche se molto brevemente e in maniera parziale –, ci aiuta a comprendere a fondo la compiutezza di Tersa morte. Lo colloca meglio all’interno dell’opera del nostro poeta. Il titolo è già lampante e fornisce la chiave di lettura di tutta l’opera. Fondamentale però non è il secondo, ma il primo termine del sintagma; «tèrso» indica qualcosa che è lucente e limpido; chiaro. Ma anche qualcosa che «lascia trasparire nitidamente le immagini» (Dizionario Treccani), come uno specchio o un cristallo. Qualcosa che riflette o attraverso cui guardare; che ci separa dalle cose, ma che allo stesso tempo le lascia vedere con nitidezza. Come quella morte che ci separa dal mondo e dalle persone, che si posiziona alla fine del nostro cammino, a un livello sconosciuto. Ma anche la morte che illumina i nostri gesti, li irradia e li carica di valore, che spalanca il significato del nostro esserci. Che trova un senso laddove senso non c’è e quindi per farlo deve cercare tra i frantumi, negli scarti, nei riflessi della vita (La pioggia resta a metà del cielo per il tanto piovere. Ci si dimentica di sé e il sosia ripete le onde del mare. Si diventa la donna o l’uomo che non si vede/ chi sono nella propria vita, nel riflesso fisso del mare./ Si diventa altri occhi per morire dovunque, dovunque/ è l’aquilone del tetto sopra il condizionatore Hisense).
Tersa morte sembra nascere dal lutto per la madre e il fratello scomparsi, dal ricordo del padre, dalla voglia di riesplorare il dolore e il passato. E banalmente potremmo dire che ruota attorno al tema della perdita, del lutto, della fine. Ma in realtà, come nota anche Luciano Mazziotta su “Poetarum silva”, questa è soprattutto una raccolta sulla dimensione dell’assenza, che rovescia il dasein rilkiano delle Elegie duinesi; «tutti i protagonisti di questo libro, infatti, vengono colti nel loro non-essere o non-essere-più: sono assenti dal reale gli affetti che hanno costituito i “materiali di un’identità” dell’autore, e come assente si propone il soggetto stesso, un “io” che non asserisce nulla se non la propria condizione di “immagine”» (Sollevare dei pesi, deporli. Lo sguardo s’inscurisce nella forma/ di una porta marcita dove abita una signora sola./ Il sosia ascolta mia madre non morta, parla di mio fratello/ o gli scrive. Pensa al protrarsi della vita che mi sopravvive).
È un io lirico indebolito e sfibrato – tratto ormai costitutivo della poesia contemporanea, quella che viene «dopo la lirica», come sostiene Enrico Testa – che si aggira tra le macerie della memoria come un fantasma, costretto a duplicarsi, a diventare «sosia» di se stesso (Il sosia guarda è il titolo di una sezione centrale della raccolta) per ripercorrere la propria storia. Il poeta nota e annota, segna il trapasso degli oggetti e delle persone, colloca tutto nel breve tempo della vita. Legge l’esistenza nella morte, nella scomparsa, nella condizione fragile e finita, già malata, da sempre. Sente il peso della mortalità che ci opprime. Eppure non c’è agonia sentimentale, non ci sono segni di lotta. Il mondo e la sofferenza sono passati a setaccio con rassegnazione, attraversati verticalmente, in un lento e paziente sprofondamento. Il poeta accetta la mancanza, anche della parola. Non c’è mai in Tersa morte la tentazione di trascendere le cose, di rimandare a un altrove lontano. La parola è allo stesso tempo taglio e lama; affonda negli oggetti, li lacera, li perfora e poi si apre come una fessura, ci invita a guadare con onestà, senza cercare risposte. Ci costringe ad accettare la nostra condizione e quindi a «vedere nuda la vita», ripulita dall’inessenziale.
Vedere nuda la vita
mentre si parla una lingua per dire qualcosa.
Uscire di sera rende la sera più bella
ma è il poco sole obliquo la sera senza parole.
Vedere nuda la vita quando c’eri con le tue cose.
Adesso le cose sono sole,
non c’è la promessa del tuo svegliarti
e continuare con le ciabatte, le tazze i cucchiai.
Non è valsa la pena affaccendarsi.
Il gioco dei giorni è la promessa che non sapevi
a perdere sempre da prima.
Ma il punto forza della raccolta sta nello stile di Mario Benedetti, nella sua capacità di creare versi solidi, inattaccabili. E non è un caso che l’aggettivo «tèrso», in senso figurato, indichi una «tecnica dotata di grande chiarezza» (questo va da sé), ma soprattutto «accessibile a tutti» (Dizionario Treccani). Nel suo intervento a “Trevigliopoesia” dello scorso anno, Benedetti ha confessato che ciò che lo interessa maggiormente è «far vedere, mostrare, come un pittore – non astratto, materico – che permette di aver una visione più vera e tangibile della realtà: la poesia si tocca, è qualcosa da toccare vedere». E i suoi sono versi essenziali, di una bellezza brutale, da cui non si può fuggire; la vita ci appare in tutta la sua inospitalità, nella sua veste più cruda e trasparente. Ma anche nei suoi vuoti, nelle sue assenze. Bendetti utilizza una forma «plastica», che gioca sul «ritmo» e sul «timbro delle parole», una sintassi fatta di frasi spezzate, di periodi incompleti, di proposizioni oggettive che si nascondono, di rinvii che si perdono. Eppure ogni parola, ogni coccio ha un peso specifico incalcolabile, è il frutto di un estenuante lavoro di ricerca. Alla fine tutto torna. E forse proprio perché non c’è nulla che possa tornare davvero (Sono questo, questa mortalità/ che mi assedia, che si concentra/ negli occhi, nelle mani. Intorno/ sono mute le cose, le facce/ che si muovono senza motivo,/ e sento dissolvermi tra questo).
Tersa morte è un’opera potentissima. Che ci colpisce e ci percuote, ma di piatto e senza foga. Non strugge, non annienta. Sono testi che affondano nel male e nel dolore senza mai recedere, senza perdere un millimetro, con una risolutezza sentimentale ed espressiva inarrivabile. Una poesia che non concede nulla, non adombra, non cela, non consola. Bellissima e spietata. Come noi stessi, come la vita.