La centralità del legame madre-figlia emerge a toni indissolubili dal “Taccuino della madre” di Sonia Caporossi (Progetto Cultura, 2021). “Siamo davanti a una dimensione di assoluta sincerità”, introduce magnificamente Cinzia Marulli. Siamo dentro una realtà che risuona e nella quale, sovviene Jung, “la madre è la figlia e la figlia è la madre”. Una commistura che nessuna morte potrà mai valicare, «la cera non resse al legame filiale/ la voglia del sole le sciolse le ali/ la fine del cielo la condusse al nulla/ e ora voi respirate una parte di me».
“due metri nell’eterno che dura solo un attimo”, con i tuoi versi per chiederti: in che modo la (tua) vita diventa linguaggio?
Posseggo due atteggiamenti molto diversi rispetto alla parola scritta artisticamente intesa: in prosa, ho cercato da anni di delineare una poetica neomassimalista, che facesse della prosa d’arte nella riscoperta di alcuni stilemi metastorici del neobarocco espressivo il punto di rottura rispetto al minimalismo scrittorio maggiormente diffuso, tramite l’utilizzo di ipotassi, un deciso plurilinguismo e un tentativo di fusione tra l’istanza saggistico-filosofica e l’attitudine narrativa; in poesia, al contrario, ad ogni libro tendo ad adattar la forma al contenuto. In questo senso, dal punto di vista del contenuto, ho tentato un rinnovamento delle modalità autobiografiche attraverso la trasposizione alla terza persona e alla pluralità franta degli io. La composizione dei miei testi poetici, in genere, è quasi immediata, ma essi vedono la luce molto tempo dopo la redazione scritta, che a volte, accade quasi di getto, come in preda a una pulsione improvvisa: il tempo trascorso fa sì che il sedimento si stacchi come una membrana ormai divenuta aliena a me. In questo libro, “Taccuino della madre”, il lutto della perdita, nonché il dolore generato dal rapporto di amore/odio nei confronti della figura contraddittoria e fragilissima di una madre oppressa dal male di vivere e dai sensi di colpa, sono stati resi attraverso una lingua in cui ho operato di sottrazione come mai mi era capitato di fare prima. Il risultato è un linguaggio terso ma emotivamente carico, che spero riesca a comunicare i sentimenti retrostanti a questa esperienza dualistica di rispecchiamento madre/figlia che ho cercato di mettere in versi.
Qual è o quale dovrebbe essere la lingua ideale della poesia?
Per ogni poeta che possa definirsi tale, la lingua della poesia è formalmente un continuo fieri. Nella mia personale visione non esiste una lingua ideale, canonicamente intesa, giacché l’espressione si adatta al contenuto e al contesto per esprimere al meglio la sostanza poetica di una materia la quale, oggettivamente, può essere qualsiasi cosa. Non esiste infatti, secondo me, un argomento o un tema che debba essere escluso dal novero del poetabile: tutto può essere detto, anche (come spesso mi capita di fare) il dolore estremo o l’atrocità. Il verso iperesteso o quello corto ed esangue rappresentano due diverse modalità di espressione di un’intuizione cangiante a seconda del contenuto stesso: ecco che contenuto e forma non possono essere scissi affatto, solo la loro compenetrazione dà luogo all’opera compiuta. Tutto il resto è correzione di bozze.
La forma quanto incide sulla “verità” della parola poetica?
È decisamente la forma, nella mia visione estetica, a condensare in sé il reale principium individuationis del poetico, in quanto, come dicevo prima, il contenuto o materia è al contrario indifferente; non nel senso che non sia importante, bensì nel senso che la scelta del tema è determinata non da regole o bieche tassonomie, bensì dall’intenzionalità dell’autore. La forma rappresenta il momento indecidibile in cui l’atto creativo prende consistenza e si manifesta nella traductio ad objectum, nella trasposizione in-formata, ovvero nell’opera via via nel suo darsi e nel suo farsi e, infine, nell’opera una volta compiuta. In questo senso, la forma è il Bestimmungsgrund del poetico in quanto tale, la sua istanza è profondamente veritativa.
Immagina di dover dare delle “istruzioni” essenziali per scrivere una poesia, quali daresti?
Lungi da me la volontà di porre regole: andrei in contrasto con i miei stessi assunti pulsional-desiderativi. Tuttavia, qualche indicazione di massima intorno a come io concepisco il fare poetico posso darle. Innanzitutto, secondo me, sarebbe bene evitare i tecnicismi di maniera: ogni singola figura retorica non assume senso se non all’interno della propria funzione espressiva. Nessun vero poeta utilizza un tropo se non lo considera determinante ai fini di un messaggio; e questo messaggio può persino manifestarsi metatestualmente, semplicemente assumendo la natura estetica della mera sensazione evocatrice. Quindi, bisognerebbe lasciarsi andare al libero fluire della musica, perché la poesia è essenzialmente musica: un verso, per quanto intenzionalmente (espressionisticamente) sgraziato possa essere, si riconosce come brutto non per la cacofonia o la mancanza di grazia, che in tal caso sarebbe voluta, quanto per la carenza intrinseca di disposizione ritmica (anche, ovviamente, al di fuori della versificazione classica e del verso libero luciniano, tradizionale, ovvero anche nella più feroce sperimentazione). Non c’è nemmeno un testo di prosa poetica che non contenga in sé questa traccia sonora ineliminabile che lo rende formalmente riconoscibile come poesia.
La poesia è tale se diventa portatrice di una visione condivisa, sovraindividuale?
La poesia è essenzialmente comunicazione e non esiste istanza comunicativa di natura artistica che non soggiaccia a quel tremendo paradosso della filosofia che Immanuel Kant nella “Critica del Giudizio” identificava con la vera funzione del sentimento come “ponte tra intelletto e ragione”: quella di essere, in piena contradictio in terminis, davvero “universalmente comunicabile”. L’aisthesis come facoltà di sentire contiene in sé questa meravigliosa possibilità: far stare in accordo i percipienti e i fruitori dell’opera d’arte all’interno dell’orizzonte di un senso comune che spesso si riduce all’afasia dell’introiezione ma, poi, incalza e sospinge per poter essere detto, scritto, comunicato, anche semplicemente, per esempio di fronte a un tramonto, con un colpo di gomito all’amico che hai di fianco e a cui ammicchi: “tutto questo non è davvero bello?”.
Qual è stato, ad oggi, il dono più prezioso ricevuto in dono dalla poesia?
Considero dono della poesia la possibilità di liberarmi da gravami e some attraverso l’elaborazione di qualsivoglia forma di lutto: già, perché scrivere è un morire, una deposizione senza sudario che permette di cedere finalmente il passo ad altro, di “superare” in senso hegeliano, di “togliere” gli accadimenti del vissuto conservandone il frutto esperienziale che, spesso, è passato attraverso il dolore. Considero dono della poesia la capacità acquisita di esprimere senza remore le pulsioni più riposte dell’essere umano in generale e di un sostrato psichico magmatico che si fonda col nucleo incandescente della coscienza. Considero dono della poesia la consapevolezza che non un solo elemento presente in natura, con Lotman, possa essere considerato estraneo ad essa; pertanto, sarebbe inutile, davvero inutile sfuggirsi nell’autoindulgenza.
Per concludere salutando i nostri lettori, ti invito a scegliere una tua poesia dal libro “Taccuino della madre” – (ti chiedo gentilmente di riportala) – e, nel contempo, ti invito a portarci a ritroso nel tempo, a prima della stesura completa o della prima stesura, per raccontarci quanto “accaduto” così da permetterci di condividere (e meglio comprendere) il percorso che l’ha vista nascere.
ricordi d’infanzia
gli altri bambini scendevano a giocare sulla spiaggia
i pomeriggi risuonavano di grida e tonfi di pallone
quante facce li osservavano da queste bianche mura
ecco il cobalto vagare nel vago ricordo del mare
nuvole d’ebano e cenere sulle loro mani sporche
sulla rotondità perfetta e nuda della terra
rimanevo in casa a guardarli senza invidia
dallo spiraglio australe della finestra spalancata
non ci si può aspettare altro che uno sguardo passeggero
non c’è rimasto altro che un fotogramma sbiadito
non anelavo certo al calore della sabbia
non all’asprezza infetta delle ginocchia sbucciate
desideravo alle mie spalle soltanto le carezze
che priva d’interesse mia madre non mi dava
Questa poesia mette in versi un ricordo d’infanzia scritto e rielaborato nel corso di vent’anni; è uno squarcio percettivo dell’anima: un’estate al mare con mia madre, con solo l’accidico conforto della nostalgia. Lo squarcio è quello di una finestra attraverso cui la me stessa bambina avverte la distanza incolmabile della propria diversità, con tutto il senso della solitudine e dell’abbandono che la scena in sé descrive. È una concrezione di dolore allo stato puro, che si scioglie nel recupero di un senso personale e, proprio per questo, universale delle cose.
(la versione ridotta di questa intervista a cura di Grazia Calanna, è apparsa sul quotidiano LA SICILIA del 03.09.2021, pagina Cultura, rubrica “Ridenti e Fuggitivi” – in copertina la foto di Dino Ignani).