“Triptyque” di Miguel Ángel Cuevas, “un’inesausta” e brillante “ricerca di sillabazione”.

Miguel Ángel Cuevas – Triptyque, Éliott Éditions, 2024
recensione di Laura Caccia

Un trittico. Tre opere, tre lingue, tre voci: Triptyque di Miguel Ángel Cuevas nelle edizioni ēliott, collection Les langues du poème. Vi sono comprese le opere, nelle versioni bilingue già pubblicate in Italia: Escribir el hueco / Scrivere l’incàvo (2011), Piedra – y cruda / Pietra – e cruda (2015), qui riunite in Creux – et pierre / Hueco – y piedra / Incàvo – e pietra, e Postuma (2021), con la traduzione francese di M.Gendreau-Massaloux e M. Cheymol. E vi abitano le lingue e le voci: il castigliano e l’italiano del poeta spagnolo bilingue, non solo due idiomi, ma due diverse voci che si riflettono in variazioni di suoni e di sensi, senza tuttavia tradursi in senso letterale, ora riverberate, in nuove risonanze, dalla lingua francese. Voci che condividono un cammino nella stessa direzione attraverso un dialogo incessante, ognuna però nel profondo della propria estraneità, pur nella comune radice di lingua e di pensiero. Come, a proposito di oscurità, accennava P. Celan, nel suo discorso sulla poesia: “esistono forse, e nella stessa, identica direzione, due diverse estraneità – l’una accanto all’altra”. La radice, oltre alla comune lingua madre, appare la parola stessa o, meglio, la sua assenza. Che dà origine ad un’inesausta ricerca di sillabazione. Quando il pensiero si dibatte in una tensione inesauribile:  «MA / ogni parola / abbatte / la latebra / del senso. // Di quale. // Ditemi: / No.». E l’estraneità si addentra in ogni fenditura della lingua. E delle lingue. In ciascuna e nelle crepe messe in luce dal loro specchiarsi: «Interstizio, terra / intermedia dentro, parola / dentro nella / parola, / fra / l’una e l’altra, l’altra / estranea che / nessuna lingua incarna, / colma / corporea». Un’ulteriore estraneità che non appartiene solo al linguaggio. Piuttosto al sommerso della parola dove abitano il mistero, l’assenza, il silenzio. Una pienezza che la lingua, anche nel suo riflettere e riflettersi in altra, non può incarnare, forse solo proteggere.

L’immagine appare quella di due lingue, due rive messe a protezione e, insieme, a scavo congiunto del sommerso del greto, del mistero che vi giace invisibile e del dolore che vi scorre all’interno. Un greto che si fa eroso, via via, più scoperto, più a nudo grazie alle parole che sulle rive riescono ad erodere sé stesse. La duplice riva che ora, nelle lingue di Triptyque, si fa triplice. Aprendo a visioni tridimensionali della parola, attraverso le sfumature e gli scarti linguistici che ne sfaccettano e ampliano il senso. E favorendo la visione di quello che, come già nelle versioni originali bilingue, si configura di continuo come un trittico. Non solo per i richiami, presenti in diversi testi, alle opere su tavola dell’arte, quella specifica «tavola, impregnala di olii, di bitumi». Soprattutto per come si fanno prevalenti, nelle opere qui raccolte, tre immagini in particolare: l’incàvo, la pietra, la cenere. In successione e in compresenza. Scavando sempre più a fondo, in una ricerca ininterrotta e implacabile, nelle profondità della parola. Dentro la sua estraneità. Dentro la sua assenza. All’interno dello stesso fondale, o greto, di riferimento. Nella sua forma cava: «l’incàvo in cui la forma / spoglia di sé, espulsa / addentro, / accoglie il corpo. // Come uccello librato / sul proprio volo». Nel suo fondo petroso: «La voce: / dalla pietraia / nella gola. // Scheggia / trascinata dall’alveo / al fondale / del canto. // Colpo di pietra / cruda / spaccata». Nei suoi residui di secche e coaguli: «Lieve pomice grigia, / cenere galleggiante disseccata». Nella concavità, nella petrosità, nella cinigia. E nel sudario, che ne fa sintesi. Cercando, nel contempo, di ridare voce alle spoglie, vita a grumi ed ossame. Come balsamo per riportarli alla luce: «Dà loro, esumali, il loro nome». Insieme morte e disseppellimento, annullamento e resilienza, per tornare al respiro. Come evidenzia una visione d’insieme del trittico più orientato agli elementi vitali: «del suo incàvo radice pietra versata / talea nel cerchio di pietre».

La visione tridimensionale pare mostrarsi ovunque. Nello spazio testuale: tra la superficie, il sommerso e l’oltre. Nella parola: tra afasia, prosciugamento e traccia. E, ancora, nel corpo: tra sangue, morte e pienezza carnale. E nel dolore: tra i crimini umani nella storia, la sofferenza di un commiato, la resilienza umana e poetica. Pare di intravedere,  soprattutto nei confronti della parola, una tensione inesausta tra lacerazione, impossibilità e desiderio, nella necessità e, insieme, nella difficoltà di giungere a nominare quanto preme dal fondo. La lacerazione, il vuoto: «LITANIA: / sudario. / Trafigge ciò che nomina. / Rivela  / l’esatta dimensione: / nessuno, niente». L’impossibilità, l’assenza: «SOTTERRA / versata nel suo buco affonda / la parola / non iscritta non / pronunciata». Il desiderio, l’intento: «PARLO / per toccare la parola che nomina: / per toccare ciò che la parola / nomina». Toccare la parola, toccare ciò che nomina. La parola, il corpo e la cosa: questo continuo, sofferto dialogo. A cui si accede, più che con la mente, con qualcosa che ne consenta, insieme, il contatto e lo slancio oltre, verso la sua essenza. Toccare la parola fino alla più sofferta riduzione. Toccare la parola fino al fondo del suo desiderio e della sua ossessione, fino al fondo del suo degrado e della sua purezza. Toccare ciò che nomina, penetrare nel suo mistero. Arrivare a percepire l’impercettibile, a palpare l’impalpabile. A dare voce alla parte cava, invisibile: «MACCHIARE IL BIANCO: RAG / giungere il bianco: / disseppellire l’aria: // la cavità del nome: / nominarla:».

Un trittico, soprattutto, pare imporsi: in assenza. Nella concretezza, però, della materia e dei corpi, come della lingua. L’assenza delle cose: la rosa di Nessuno di Celan, che si fa «Una / rosa inaridita la / rosa di nessuno. // Erta non vizza, / estirpata dalle / radici». L’assenza dei corpi: il sudario, il seppellimento: «Sudario cereo, dell’orma tua / calco, sparite le acque». L’assenza della parola: «Cadenza inerte, lingua / serrata a morto. / Chiazza / esule». Le due rive proteggono e scavano il nulla. Tra la vita e la morte, la presenza e l’assenza, la pienezza carnale e il lutto. Riuscendo ad arginare il vuoto. E a capovolgere, nella resiliente testimonianza del poeta, quanto potrebbe apparire «certitudine», come un trittico dell’arte a cerniera, che espone il suo lato nascosto, sorprendente, proprio nel momento in cui avviene una chiusura sulla vita e sulla lingua. E che, come già nel trittico di Hans Memling, ci mostra una vera e propria resurrezione: «CIÒ CHE AVETE VOLUTO SEPPELLIRE / spogliandolo del nome suo am / massandolo // qui cresce s’incorpora prende / corpo riconoscibile e terra /  e nome. // Ritorna dalla morte». Una resurrezione anche della lingua, nei suoi aspetti fisici, carnali. Dopo un transito «stupefatto tra residui», trovando la possibilità di fare nascere parole dall’arsura e dal seccume: «Magari, nella o dalla traccia, / apparirà l’impronta, accadrà l’orma». Un trittico, considerata la sua radice etimologica in ‘piega’, consente, nel riferimento alla tavola pittorica, non solo l’esposizione del visibile, ma anche la messa a vista, fosse solo raramente, della parte nascosta, di solito non manifesta, nella fase del ripiegamento. La piega, però, ci porta anche a quanto è presente in ogni punto dell’opera: il mostrarsi della parola e del pensiero attraverso una piegatura, un incurvamento, una crepa. Dentro un frammento.

La poetica del frammento di Miguel Ángel Cuevas abbraccia tutte le sue opere: dai titoli delle edizioni bilingue 47 Frammenti (2005) e Ultima fragmenta (2017) al corpus dei libri presenti in Triptyque. Vi abita una voce che rinuncia alla soggettività in prima persona. Vi trova luogo la fenditura che attraversa il pensiero e la vita. E vi si trova quella “implacabilità”, di cui scrive P.Celan, nell’assottigliare le parole. Come anche quanto scrive M.Blanchot a proposito della parola di R. Char, che si mostra nella sua lacerazione, come un frammento di meteora. Nell’opera del poeta spagnolo, però, non si tratta tanto di un frammento giunto improvviso, quanto piuttosto di una tenue luce che filtra come un’eco dopo un’azione dura di scalfittura e di abrasione sulla materia e sul pensiero: «Graffiare la / malta. // Forare / nel nome la petrosa / matrice. // Appostare il sibilo / della scheggia, / l’eco della lastra / schiantata». O dopo la loro arsione e dissoluzione: «Frugando sciogliere, ardere / il grumo». Per arrivare a quel chiarore, che per un attimo illumina la parola del frammento: «lume / squarcia la tenebra screpola / rifulge sparisce». Un chiarore che appare simile a quella “cenere di luce” che attraversa le opere di Claudio Parmiggiani, nella definizione dello stesso artista, dopo l’incendio della materia ridotta ad “icona dell’assenza” nel fumo della combustione, polvere che si deposita sui residui del mondo, ombra capovolta in trame di luce.

L’eco di un chiarore che, in Triptyque, riassume l’esito di un percorso verso una possibile, se pur stremata, rinascita. Dopo la «già muta cavità della voce». Dopo la parola arsa della contemporaneità. Dopo l’imperativo: «Versato / fuori / nella parola: / dice / niente. / Scarifica la / crosta // e torna. O / taci». Grazie al vibrare in polifonia delle lingue, delle voci. Nel loro tra-durre e tra-dursi: non tanto in senso letterale, quanto etimologico, nel loro portare e andare oltre. Oltre sé stesse, oltre i sensi apparenti, oltre i suoni manifesti. Un lavoro strenuo sulla parola. Alle sue radici. Portando alla luce termini preziosi, pregnanti e inusuali. Capaci, in brevità, di espandere significati. Restringendo e, nello stesso tempo, dilatando il campo semantico. Mettendo a fuoco ogni vocabolo con massima precisione e, insieme, inedita espansione di senso. Come se la materia poetica fosse, a pari di quella fisica, interamente concentrata in minimi nuclei, tanto più densi quanto più esigui. In grado di mobilitare e aggregare una pluralità di accezioni. E mettendo a fuoco, in modo letterale, la lingua stessa, che diviene oggetto di un’incessante arsione. Una lingua, insieme, di crepe e di affioramenti, di afasia e di accensione. Un’accensione poetica che, come pietra focaia, innesca scintille per gli sfregamenti lessicali e sonori dei termini. E che si riverbera nelle versioni delle tre lingue romanze, che consentono di ampliare e mantenere a lungo il chiarore. Come se la pluralità degli idiomi riuscisse a sostenere e a proteggere l’assottigliarsi e il prosciugarsi del linguaggio. Nel suo farsi essenziale. Nel suo ritrarsi tra le sponde in secca. Nel duplice senso, però, del ri-trarre e del ri-trarsi: trarre, trarsi indietro e, insieme, raffigurare. A rendere l’esausto inaridirsi e, insieme, il rinascere del tutto. Nello scarificare la parola per farne sgorgare la linfa. Con assonanze che insistono sullo sgretolare e, insieme, liberare il suono. In una rigenerata e quasi impossibile musicalità. Con un risuonare in basso ostinato, in controcanto, lasciando a nudo ogni voce sul fondale arso del greto. Senza finzioni, mascheramenti, coperture liriche. Anzi, agendo per attrito e sfregamento della materia e della lingua, per bruciarne gli involucri apparenti. La parola di Miguel Ángel Cuevas, mirabilmente scarna ed essenziale, è parola del tra-dursi e del ri-trarsi. Dell’andare oltre, traendosi indietro. Del dare senso, assottigliandosi in modo implacabile. Del condurre all’essenza. Scarificando la pietra, innescando la parola. Fino a farne cenere. Fino a farne luce.

Laura Caccia

 

Da: Escribir el hueco / Scrivere l’incàvo / Écrire le creux

 

Meter una pala en el aire y sacar el aire
Jorge Oteiza

LETANĺA:
mortaja.
Traspasa lo que nombra.
Revela
la dimensión exacta:
nadie, nada.

Introdurre una vanga nell’aria e tirar fuori l’aria
Jorge Oteiza

LITANIA:
sudario.
Trafigge ciò che nomina.
Rivela
l’esatta dimensione:
nessuno, niente.

Donner un coup de pelle en l’air et enlever l’air
Jorge Oteiza

LITANIE:
linceul.
Elle va au-delà de ce qu’elle nomme.
Elle révèle
la juste dimension:
personne, rien.

 

Da: Piedra – y cruda / Pietra – e cruda / Pierre – et crue

sabes de las piedras,
sabes de las aguas
Paul Celan

I

costra
exhausta de sangre
seca gris de ceniza

horadada y salitre corroídos
muros despojados cruda
piel de cicatrices

lumbre
rasga la tiniebla agrieta
fulge desparece

sai delle pietre,
sai delle acque
Paul Celan

I

crosta
esausta di sangue
secco grigia di cenere

perforata e salnitro corrosi
muri spogli cruda
pelle di cicatrici

lume
squarcia la tenebra screpola
rifulge sparisce

tu connais les pierres
tu connais les eaux
Paul Celan

I

croûte
épuisée de sang
sèche gris cendre

percée, et de salpêtre rongés
les murs dépouillés, peau à vif
de cicatrices

une flamme
déchire la ténèbre, la fend,
luit disparaît

 

Da: Postuma

CONTRACANTO

y no toquéis al muro
Juan de Yepes

I

Mora en los arrabales.

Bruna
zaborra el cerco
rasguña.

 

CONTROCANTO

e non battete al muro
Juan de Yepes

I

In discosto dimora.

Bruna
maceria il cerchio
scalfisce.

CONTRECHANT

et ne frappez pas au mur
Juan de Yepes

I

Elle reste dans les faubourgs.

Brune
poussière de graviers le rempart
égratigne.

Miguel Àngel Cuevas  (Alicante, Spagna, 1958)

Poeta e traduttore. Professore ordinario di Letteratura Italiana all’Università di Siviglia. Ha curato edizioni spagnole di testi novecenteschi italiani (Pirandello, Tozzi, Pasolini, Consolo, Attanasio, Scandurra), e tradotto in italiano poeti spagnoli contemporanei (Valente, Oteiza) nonché la propria opera. Tra le pubblicazioni poetiche: Celebración de la memoria (Alicante, 1987; seconda forma, Memoria, Sevilla, 2013), Manto (Sevilla, 1990), Incendio y término (Alicante, 2000). Dal 2005 pubblica prevalentemente in Italia (sempre in edizione bilingue autotradotta): 47 frammenti (Altavoz, Caltagirone, 2005), Scrivere l’incàvo Studio per Jorge Oteiza (Il Girasole, Valverde 2011; segnalata al premio Lorenzo Montano 2014), Pietra – e cruda (La Camera Verde, Roma 2015), Sibilo (La Cameta Verde, Roma 2015), l’antologia Ultima fragmenta (Algra, Catania 2017), Postuma (Le Farfalle, Valverde, 2021; finalista del premio Lorenzo Montano 2022). Nel 2024 esce in Francia Triptique, trilingue, che include Scrivere l’incàvo, Pietra – e cruda e Postuma, con traduzione francese di M.Gendreau-Massaloux e M. Cheymol (Éliott Éditions, Paris). È autore di saggi sui rapporti tra letteratura e arti figurative. Ha collaborato a diverse iniziative espositive di artisti contemporanei in Italia e in Spagna (tra gli altri: Rotelli, Lanfredini, Casagrande, Granaroli, Santacroce).

Miguel Ángel Cuevas – Triptyque, Éliott Éditions, 2024

 

Laura Caccia (Varallo Sesia, 1954), laureata in filosofia presso l’Università agli studi di Torino, con una tesi di estetica, relatore Prof. Gianni Vattimo, segue il laboratorio d’arte di Varallo Sesia con il Maestro Lino Tosi e si dedica per diversi anni alla pittura. Il passaggio alla poesia avviene con Asintoti (Opera prima, Anterem – Cierre grafica, 2004). Nel 2012 si aggiudica il Premio Lorenzo Montano per la raccolta inedita con D’altro canto (Anterem edizioni, 2012). Nel 2013 il secondo Premio Renato Giorgi con l’inedito Versi alveari. Sempre per l’inedito, nel 2021 è finalista al Premio nazionale editoriale di poesia Arcipelagoitaca con Levociinsorte, nel 2022 è nella terna dei finalisti al Premio nazionale Elio Pagliarani con La terza pagina, silloge pubblicata l’anno successivo (Book editore, 2023).

Sue raccolte o poesie sono state musicate da Francesco Bellomi, con un brano per pianoforte, da Alessio Sala e il Conservatorio Bonporti di Trento/Riva del Garda con un brano per flauto, clarinetto, violino, violoncello, pianoforte, canto e voce recitante, da Cosimo Colazzi e Motocontrario Ensemble, con un brano per viola e voce recitante. Sue poesie sulle riviste “Anterem”, “Le voci della luna”, “Osiris Poetry” e, on line, su “Anterem.Carte nel vento”, “Blanc de ta nuque”, “Trasversale”, “La dimora del tempo sospeso”, “Poesia2punto0”. Sue note critiche di presentazione e recensione di raccolte poetiche contemporanee, edite ed inedite, su “Anterem.Carte nel vento”, “Trasversale” e su vari siti a cura degli autori recensiti, oltre che in alcune pubblicazioni degli stessi. È presente nell’antologia “Blanc de ta nuque II”, a cura di Stefano Guglielmin (Edizioni Dot.com.Press, 2016). Dal 2014 al 2020 è componente della redazione della rivista “Anterem”, diretta da Flavio Ermini. E, dal 2004 al 2020, del Consiglio editoriale di “Opera prima”, curata dallo stesso. Attualmente fa parte della redazione di Anterem Edizioni, con la direzione editoriale di Ranieri Teti, e della collegata giuria del Premio di poesia e prosa Lorenzo Montano. Ed è componente della redazione della rivista “Osiris”, diretta da Andrea e Robert Moorhead, con sede a Greenfield, Massachusetts, USA. 

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