Angelo Sturiale, la poesia è un ‘haiku’ naturale della mente pensante

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“Le battaglie si conducono da soli: è la fine l’orizzonte e il / panorama che si staglia tra le innumerevoli pagine di una / partitura ulterire ancora da scrivere, è tutta già qui dentro l’anima”. Versi tratti dal libro Tempeste di te di Angelo Sturiale raffinato compositore, artista visivo e poeta. Si definisce nomade, avventuriero e trasparente. Peculiarità che affiorano tra le righe di un’intervista arricchita dai versi e da una traduzione dello stesso autore.

Quali i ricordi legati al tuo primo approccio con la scrittura, alla tua prima poesia?

Risalgono all’adolescenza: il solo gesto di prendere in mano e aprire il mio diario, per annotare o “registrare” pensieri e riflessioni, in forma poetica, sulle giornate e sulla mia vita turbolenta e farraginosa di allora, era già un rituale assai peculiare! La adrenalinica tensione che scaturiva dall’atto trasparentissimo e luminoso di denudarsi di fronte l’invitante superficie cartacea – ordinando con parole e silenzi, verità o finzioni, le disavventure e scoperte del mio mondo geografico, interiore, anarchico e aperto quasi esclusivamente alle arti e ai corpi d’amore – fu sempre compagna privilegiata dei miei pomeriggi d’estate, assolati solo da me e dal mio consapevole, narcisistico ed egocentrico (adolescenziale appunto!) tentativo di storicizzare e psicanalizzare le mie emozioni, sentimenti, sogni, utopie. Di dar loro un ordine cronologico e di rileggerle compiaciuto e orgoglioso per tanto lirismo, musicalità, autenticità… La carta e la penna come strumenti supremi per un disegno di un vero, disinibito specchio dell’anima. Ma ahimè, il narciso che era allora in me, negli anni a seguire dovette suicidarsi come esige la tradizione, dentro il lago-specchio di quei diari, buttando alle ortiche quegli scritti e confessioni troppo autoreferenziali. Ripresi qualche anno dopo la scrittura, ma con lenti e obbiettivi diversi, affinati anche attraverso la condivisione e il sincero feedback di colleghi artisti e lettori intimi, che leggendo altri miei diari con altri linguaggi e tonalità espressive, mi spronarono a rendere pubblici quegli scritti in origine gelosamente privati.

Quali i poeti (e gli artisti) dell’anima (per quali ragioni, con quali legami) e, più in generale, quali le letture significative per la tua formazione?

Davvero impossibile individuarli tutti: ci provo. Istintivamente penso alle poesie di Genet, Michelangelo e Pasolini. Le architetture di Gaudì, Hundertwasser e Zaha Hadid. Le musiche di Xenakis, Szymanowski, Mahler e Richard Strauss. Le arti visive classiche Islamiche, Celtiche e Giapponesi. I minimalismi e massimalismi estremi e le avanguardie storiche: tutte! Alcune delle letture significative per la mia formazione sono state, sempre in disordine e senza una linearità apparente, il Tao-Te-Ching e Baghavad Gita, gli scritti estetico-filosofici della Scuola di Francoforte, Adorno, Kraus e il grande Nietzsche, la letteratura radicale di Sade e gli affascinanti e attualissimi saggi sul corpo e la contemporaneità di Onfray.

Due poesie – una tua, una di altri – alle quali sei più affezionato?

CARTA

Attendi. Come un amante-lama o un’amante-grotta, che si offre al mio
piacere notturno e tiranno, o carta adagiata ad un destino ignoto al mondo.
Su quel tavolo, la lettura e la scrittura dei segni graffiati da una notte insonne,
e settimane o mesi ancora a elaborare e crescere di desiderio, tra le acque
allegre e gravide di immagini, e i sogni e le metafore continue e affamate dal
tuo biancore liscio e aperto alla mia fantasia deforme. Attendi ancora un po’,
o carta innamorata, attendi le mie albe inquiete e i miei angosciosi deliri,
attendi me che non ti so più amare, ma che ti cerco ancora tra un fantasma
colorato e un disegno popolare, tra le nicchie sbilenche di una trama
infuocata da ghiacci floridi e solenni, tra le pieghe annerite da una serie
infinita di dolorosi ricordi e progetti complessi, di luminose strutture e
selvagge utopie, tra i sintagmi imperscrutabili e le tue gambe e i polsi e le
cosce e i miei occhi che non sanno più osservare, ma che divorano ancora
e sempre e solo attraverso te, incessantemente, le proiezioni del tuo
inseguirmi invano tra le distanze e i chilometri incolmabili che ci separano,
ma che ci nutrono ancora e che fioriscono supremi tra i bui violenti del
nostro evitarci. Attendimi, attendimi ancora solo per un po’, o carta disperata…
L’enorme lampada che di notte veglia su te, disegno di segni imperatori, di
giorno si sostituisce al sole che ti brucia ogni centimetro, ogni porzione di
corpo disteso ai venti di tempeste e alle supreme fantasie dolenti, o carta
mia amata, carta innamorata… E mi stordisce questa mia luce e la tua
frequenza, che nausea i sensi e le logiche mentali con tutto quel marasma
indiavolato di caos e viuzze, con le linee precisissime e le spirali spezzate,
coi lemmi ammaccati e le nature frammentate da allegrie infantili e orgasmi
impuberi, da spasmi volgari e steppe primordiali, in cui ogni decimetro di
senso incontrollato si accoppia ai desideri più reconditi di noi, amanti ai
margini lontani, lontanissimi, fornicando incastrati ai bordi di una mappa
surreale… O luce, che fai esplodere verso le irraggiungibili altezze del mio
mondo le cifre multiformi e le lettere al rovescio, i numeri sgargianti e i
mozziconi di segni e parole tra i disegni illogici e le architetture interiori,
tra le viscere sgraziate e gli indicibili segreti della mia stracolma esistenza…
O luce, che scaldi le nevi del mio incedere violento tra le silenziose strade
dei paesi più remoti e le voragini improvvise in cui si racchiudono le chiavi
del mio sragionare, tra i sentimenti arsi dal nulla e le proiezioni bambine e gli
instancabili viaggi assolati e isolati da te, o carta mia amata, carta innamorata…

JEAN GENET, tratta da “Pompe Funebri” (la traduzione è mia):

Palazzo della mia memoria dove si rivolta il mare miracoloso alato gregge che pascola paura di gesso e notte Dio vangelo di dita raggelate gemme dall’oro flebili accordi di bosco rosso berretto nero arco celeste sguardo di pozzi Iberici e Dio del cielo delle braccia nude dal timore prodotto e dal fuoco quieto capezzale da cui immagino oggetto segreto malessere sciame di ventagli smarriti secoli alla fine solo dio e sola casa ninfea dolce fiore di tiglio rifugio dio della sera o di foreste addolorate ossa bianche e torturate donate ad un principe felice palazzo della mia memoria dove si rivolta la paura questa guardia che veglia alla tua porta e questi fiori di lancia e questa spugna o mio Dio eccomi là offrire il mio canto estrarre l’occhio vostro stanco come un filo che si dipana dal buco e il mio corpo interamente svuotato da questo tenero filo dorato diverrà filo di vostri sogni e riserva di pietà chiara incisione per le vostre conchiglie d’estate preziosa bobina o Dio i vostri aggeggi hanno tanto bisogno d’amore le mie notti e i miei sonni custoditeli affinché egli dorma e ascoltami Signore di ossa inchiodate perforate trame da altri luoghi richiusi paradisi intorno a rami attorcigliati senza più eco una pastorella a plenilunio disteso sopra fili di un asciugatoio cammina cammina per le perdute chiese dei marmi del mare

Pensando al tuo essere compositore e artista visivo, abbiamo scelto una riflessione di Oscar Wild, “la vita imita l’arte più di quanto l’arte non imiti la vita”, per domandarti qual è la tua opinione in proposito?

Istintivamente naturale, indissolubile e viscerale è per me il legame “arte-vita”. Questo perché – senza andare troppo lontano – espressioni così familiari, e forse abusate, come per esempio “una vita fatta ad arte”. O che so io, “l’arte della vita”, non possono che costituire in maniera molto pregnante per me, realtà così fortemente tangibili: non avrebbe molto valore infatti vivere una vita in questo mondo (almeno sotto l’unica forma che ci è data rivestire mentre soggiorniamo transitoriamente su questo pianeta), considerandola tristemente ed inevitabilmente solo un’esistenza biologica/cronologica senza un’ideale estetico, senza un progetto formale di sé. Che difficile e improbabile sarebbe pensare ad una mia forma alternativa di vita costituita da un mero elenco di atti quotidiani (sociali) abitudinari e consuetudini senza alcuna sfida nei confronti di se stessi e del mondo circostante, lasciato immacolato fin dalla nascita da un insieme di comportamenti usuali e integrati, senza quel barlume che dovrebbe sapere un po’ di leggenda, di mito, di singolarità! E allo stesso tempo un’avventura senza ritorno, un viaggio non organizzato, come la vita, appunto, che ci sorprende sempre con la sua fantasia e la sua infinita forza creatrice e distruttiva… Già: la vita, nell’arte della vita dell’arte! (Rido!) In realtà, non saprei proprio quanto la vita imiti l’arte o quanto l’arte la vita. Per quanto mi riguarda, trovo l’arte un punto di osservazione sulla vita assai esaltante perchè molto meno programmabile della vita: l’arte supera sempre se stessa, riformula funzioni, regole e finalità, guarda al mondo spesso con anarchia. Ma attenzione: ci sono vite esemplari, interessantissime e grandemente artistiche anche in non-artisti! E vite assolutamente vuote e deboli in tanti – diciamo così – “artisti”… Il contenitore non sempre coincide col contenuto…! Ed è ai contenuti che va il mio interesse, non alle facili carrozzerie o carcasse da esibire.

Puoi parlarci, illustrandone le peculiarità, del tuo progetto la “scrittura del suono”?

Nasce anzitutto dalla pratica ventennale di scrittura della musica su pentagramma, ma anche dalla passione verso tutto ciò che è appunto scrittura, codice, simbolo, segno. Scrivere il suono per me non solo ha rappresentato una maniera di rivolgermi al segno e alla musica, ma anche alle arti visive. L’idea di poter rappresentare un’idea musicale attraverso la scrittura e il disegno è stata da anni una colonna portante della mia attività e produzione artistica. Per 20 anni è stata legata pressoché alla funzionalità dell’esecuzione musicale, ma ultimamente ha preso una piega direi inaspettata, ma certo assai stimolante: il suono e la musicalità in un certo senso si sono implose ed espresse attraverso l’apparente silenzio di un quadro o di un disegno, utilizzando però i colori di sempre: il bianco e il nero, i colori della penna ad inchiostro sulla carta pentagrammata. Scrivere il suono inoltre, riportandone sul supporto cartaceo le linee e strutture del suo apparire e scomparire nello spazio acustico, mi ha consentito pure di aprirmi ad altre forme di scrittura, come quella “poetica” ad esempio: da sempre, persino prima della pratica compositiva. Ma per anni ho tenuto gelosamente chiuse dentro i cassetti metaforici della mia casa-anima i miei diari poetici, che solo adesso hanno trovato naturalmente la luce, attraverso la pubblicazione della mia prima raccolta “Tempeste di te”. Ma conto quanto prima di realizzare un libro in cui, in maniera organica e conturbante, si intersecano parole e segni, cifre e pensieri, frasi, punte, curve e linee. In cui punteggiatura e ortografia grammaticale e disegni astratti dialogano tra loro, alimentandosi e spiegandosi a vicenda. Elementi in parte contenuti – anche se in una forma ancora accennata – nel grande disegno/testo “Poema Orizzontale”, che chiude il libro “Tempeste di te”.

Pesando al tuo libro, “Tempeste di te”, Algra Editore, quali (e per quali ragioni) vorresti fossero i messaggi irrinunciabili per i tuoi lettori?

Credo quelli legati ai sentimenti e riflessioni scaturite dai viaggi fisici e mentali che la fantasia e l’immaginazione mettono in atto in ognuno di noi, al di là degli oggetti, i soggetti, i dati narrativi descritti. In altre parole, se il mio “diario poetico” – così mi piace definire il mio libro – viene interpretato al di là degli elementi autobiografici e le mie contingenze personali, ne si apprezzeranno senza dubbio i contenuti a-temporali, i riferimenti geografici e gli slanci lirici in maniera più libera e autentica, augurandomi che tutto ciò possa provocare in qualsiasi lettore la sensazione istintiva ed inevitabile di rispecchiamento altamente soggettivo in essi. Ma ancora una volta, non per le cose de-scritte! Ma per il linguaggio dell’anima che ascoltiamo in noi stessi quando riflettiamo, in silenzio, su ciò che ci accade, su ciò che sentiamo in noi, attraverso “l’altro” fuori da sé. Le poesie del libro, per essere gustate, elaborate e digerite attraverso la mente, andrebbero lette – e soprattutto rilette – non necessariamente in sequenza e tutte in una volta. Un messaggio che credo e spero arrivi ai lettori, è legato alla lettura-recitazione vera e propria dei testi, idealmente ad alta voce: una lettura non distratta, né veloce, in cui le parole abbiano il tempo necessario di risuonare dentro, ed essere “vestite” dalle proprie personalissime e disparate voci interiori. La “naturalezza” e istintiva fluidità della lettura, dietro cui si nasconde un lavoro ossessivo, “artificioso” e strategico di dettagli su ritmi e prosodie per provocare luci logiche e liriche, è funzionale alla recitazione dei testi (ma quanto meno teatrale possibile!), condivisi, perché no, persino con amici e lettori in gruppo. Un altro messaggio poi, è quello legato alla poetica dell’horror vacui: riempire lo spazio della pagina, saturare la carta di messaggi e chiavi interpretative, in cui l’occhio di chi legge deve per forza perdersi e ubriacarsi tra i tanti segni e le polisemie intrinseche dei versi. Così come avviene spesso nei miei disegni, in cui la linearità è inesistente.

“dimenticare il percorso di un tempo amato, […], tanto poi è così che mi si abbrevierà la vita”, con i tuoi versi per chiedere qual è (o quale dovrebbe essere) la funzione della scrittura, della poesia e, più genericamente, dell’arte?

Per me la funzione della poesia, come forse quella dell’arte in generale, è molto vicina all’ideale di “catarsi”, di pulizia, ma allo stesso tempo una necessaria occasione per “sporcarsi” le mani e la mente, attraverso un movimento di pensiero necessariamente all’ingiù, onesto e spietato, verso gli abissi della propria coscienza/esistenza. La poesia è per me terreno privilegiato per intraprendere un viaggio senza destinazione entro se stessi, alla ricerca di interpretazioni “altre” sul mondo, su tutto ciò che ci circonda, su tutto ciò che vorremmo vedere, persino materializzare forse, dentro e fuori la nostra interiorità “invasa” da una realtà che non ci basta, una realtà incompleta, da modificare, da giustiziare! Una realtà a cui costantemente – anche se non ce ne accorgiamo – ci ribelliamo, proprio attraverso l’elaborazione lirico-nevrotica che constantemente effettuiamo tra esperienze, accadimenti, sentimenti, sogni, desideri. La poesia è la forma di espressione che più si avvicina, secondo me, all’attività cerebrale, “poetica” nella sua quintessenza, all’atto del pensare breve, conciso, atomistico: che si mette in atto in maniera automatica all’accadere delle cose e dei pensieri, senza una logica, senza un perché. La poesia è paradossalmente un “haiku” naturale della mente pensante, sana o insana che sia.

Ti invito a scegliere tre poesie (tratte dal libro “Tempeste di te”) per salutare i nostri lettori.

24 maggio 2012

Non si può esprimere a parole ciò che le parole non
possono dire, perché le parole non hanno occhi. E i
tuoi occhi non hanno parole, ma solo energia. È come
starti accanto e respirarti: non posso raccontarti, perché
le parole tra loro hanno sequenze, hanno un prima e un
dopo. E tu invece mi accadi dappertutto, non è possibile
contenerti in una linea temporale, perché sei un corpo
intero che si muove tutto allo stesso tempo e allo stesso
tempo mi inondi di dolcezza e di emozioni intense che
a volerle sciogliere una per una ci vorrebbe almeno un
anno luce! E allora mi accontento della parola luce e
delle sue quattro lettere, per esprimere con parole ciò
che i tuoi occhi non possono dire, ciò che il tuo sorriso
non può raccontare in una sola notte.
 
*
 
CATANIA LA NOTTE
Via Pantano, 14 gennaio 2012
 
Ripercorro in macchina in discesa la valle
che da Zafferana mi riporta da te, Catania amata. Ed è
entusiasmo che si mischia a un sentimento come
di usura, di abitudine, di familiare staticità. Le tue
luci arancioni tra i marciapiedi di via Umberto, lucidi
e rotti, mi sanno di perenne infanzia, di un silenzio
notturno in cui mi godo la tua presenza tra odori e
fetide allegrie leggiere, tra ragazzi spetti e chioschi
assetati di futuro, in cui ci si tuffa tra monologhi e
sceneggiate talentuose, in cui si fa teatro senza saperlo.
E tu, Catania, che guardi da sempre, narcisa, come in
uno specchio le tue bellezze e asprezze, ti apri solo
quando lo vuoi tu. Ma sei chiusa al mondo, nascosta
tra laceranti verità e comode prigioni, tra nudità
eccessive e intriganti melodie che conosciamo solo
noi due. I contorni e disegni tra le finestre illuminate
che di notte spogliano voglie e rivestono drammi, mi
ricordano disegni e contorni inalterati nel tempo, forse
antichi florilegi di paesaggi interiori. E adesso, dopo
aver parcheggiato macchina e modernità, mi spingo
solo ed isolato, tra i passi felpati di notte, tra le viuzze
abbandonate dal mercato dietro la fiera: mi spingo ad
abbracciarti amata e temuta. Ma mi fai compagnia
e mi rassicuri, alimenti le mie perplessità: se devo
cercarti la notte od obbligarmi a dimenticarti di giorno.
 
*

DUE DI NOTTE
Zafferana, 16 maggio 2014

Il vento di notte e il buio alle due di notte, di questa notte, tra
gli arancioni delle lampade e i verdi accecati da luci che chiare
o assai scure illuminano vite che dormono e sognano: piccole
vite, ma semplici ed autentiche. E il silenzio e l’immacolato
fruscio, soffuso, lieve, morbido, sottotono, fluttuante, ubriaco
delle foglie attaccate agli alberi che di fronte la piazzetta dove
vivo qui da poco piu? di anno, mi parlano alle due di notte e
indirizzano parole d’amore, di religioso stupore… È di notte,
solo di notte, che ti cerco, inaspettatamente: è la notte che parli
alla mia solitudine, di un attimo, certo; ma gravida e complessa,
difficile da intercettare, tra le tante cose da fare e i pensieri da
ordinare. Che sia proprio tu, poco importa. Che lingua possa
parlare, ancora meno. Sei un angelo come me, forse. Una
chimera, una illusione o la speranza da cui comunichiamo i
nostri desideri. E ce ne andiamo noi due, alle due di notte, mano
nella mano, a volare in alto verso cieli ammutoliti o sprofondare
tra gli abissi di un nulla imprecisato ma certo affascinante e
misterioso, tra le pieghe del suono o i contorni di una forma
che delineandosi nel sogno, si fa segno e geometria di noi,
specchio del passato che non ritorna più… E allora quegli
arancioni delle lampade e i verdi accecati da luci che chiare o
scure illuminano vite che dormono e sognano, si spogliano,
tra venti etnei, tra Santa Venerina e Sarro, tra l’altarino in basso
vicino alla rotonda e il cimitero che da Via Pasolini mi parla in
codice: mi sbatte in faccia una idea di poesia, una onirica fantasia
che nessuno sa più ascoltare o decifrare tra le parole stanche e
i giorni tutti uguali, tra gli amori deboli e i tanti corpi emaciati e
consumati da anni e piaceri, tra bende e slanci, tra lance e segnali
chiarissimi, per cui non può più avere senso continuare così:
questa vita ha bisogno di dire basta ai venti di tempesta, a questo
mare tra i cieli e le nuvole, tra le acque marine o le nevi adagiate
ad un silenzio nobile e plateale…

 

Angelo Sturiale dopo il diploma in pianoforte e la laurea in Lettere moderne incomincia a viaggiare e risiedere in vari paesi grazie al sostegno che le sue ricerche in ambito musicale e le sue composizioni ricevono da parte di istituzioni artistiche ed educative internazionali (Rockefeller Foundation, Unesco-Aschberg, Ministero degli Affari Esteri Italiano, Swedish Institute, Canon Foundation Japan, Pépinières Européennes, Zeitklang). È stato compositore invitato e artista-in-residenza al Conservatorio Trinity Laban di Londra, al Conservatorio Superiore di Musica di Zaragoza, al Conservatorio de Las Rosas di Morelia (Messico), alla Tokyo National University of Fine Arts and Music (Giappone), al Darmstadt Ferienkurse für Neue Musik (Germania), all’EMS Studios di Stoccolma (Svezia), all’OMI Summer Residency di New York (USA), al Bellagio International Village (Italia). È visiting professor all’Istituto Tecnologico di Studi Superiori di Monterrey (Messico), dove è docente di discipline teorico-musicali, nonchè direttore del gruppo musicale universitario experimenTEC Ensemble e uno dei fondatori della Facoltà di Ingegneria in Produzione Musicale Digitale. Nel 2011 fonda il Seibutsu Art Studio, atelier di creazione e promozione della sua opera grafica strettamente relazionata al mondo dei suoni e del segno musicale.

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