#1Libroin5W.: Cateno Tempio, “Il filosofo è un cadavere”, Ortica.

#1Libroin5W

 

Chi?

I libri di filosofia non hanno veri e propri protagonisti, ma il soggetto ruota sempre attorno al pensiero. Se pure dobbiamo personificare l’attività del pensare, allora tale personificazione si attua nel filosofo, che in fin dei conti è il protagonista di ogni scritto filosofico. Forse è per questo che possiamo dire di “leggere Kant” o “leggere Nietzsche” quando ci accostiamo ai loro scritti: è la scrittura filosofica che plasma il soggetto, è il libro che definisce la persona. Il protagonista di questo mio libro è dunque il filosofo, o me medesimo in tale spoglia veste, ma sotto la forma di cadavere, o più modestamente sotto formalina. Impressionato come su lastra fotografica e impressionante come apparizione di fantasima, il cadavere ambulante (come lo zombi) ci mostra quel che siamo, ci mette di fronte alla nostra nuda essenza di corporeo disfacimento. Il filosofo sembra aggirarsi nel mondo contemporaneo come uno zombi in un centro commerciale. La malsana attrazione che prova il filosofo per tutto ciò che lo circonda: cinema, arte, sesso, è la manifestazione dell’appetito insaziabile che si fa carne attorno alle nostre ossa; è il desiderio, vero motore delle pagine di questo libro e che si esprime, spesso e volentieri, con piacere morboso, attraverso chiari termini sessuali.

Cosa?

Se è vero che, come pure si dice in questo mio libro, il filosofo mette bocca su tutto e gode – esteticamente e sessualmente – a mettersi in bocca dei capolavori (artistici, concettuali, corporei), allora è sempre della totalità che si parla in filosofia, vista comunque da prospettive più o meno ampie. Ma il segreto sconcertante del filosofo è che parlando del tutto è il nulla ch’egli intende. La totalità è come un gioco a somma zero. Una raccolta di aforismi, se pure organica come la presente, difficilmente può essere riassunta, con difficoltà si può tracciare una trama che non si riduca a un mero elenco di argomenti. Ma il tentativo compiuto in questo scritto è duplice: restituire al linguaggio filosofico una concretezza terrena e a volte becera (non mancano le parolacce); approdare a un’interpretazione della contemporaneità attraverso un’analisi filosofica dell’arte e del cinema, luoghi d’ombra, nuove caverne platoniche, paradigmi di una rappresentazione concettuale in cui si mostra il contrassegno del mondo in cui viviamo.

Quando?

Il libro è tutto sommato piccolo, ma ha avuto una gestazione più che pachidermica. In realtà si è composto lungo diversi momenti, nel corso degli ultimi cinque o sei anni. Scrivere è per me sempre un atto faticoso, che deve scontrarsi con la mia connaturata pigrizia. Ciò che si trova nel libro è frutto di riflessioni molto spesso occasionate e occasionali: presentazioni di libri altrui, sortite estemporanee anche sui social network o molto più sovente di animate e infinite discussioni notturne in qualche bar di Milano o Catania, complici doviziose dosi di alcol. Mi sono deciso poi a riorganizzare il tutto durante la chiusura per l’emergenza sanitaria, tra marzo e maggio di questo terribile 2020. Strana sorte di codesto libro: completato durante il primo lockdown sotto il sempre più cocente sole siciliano (dopo avere vissuto tre anni a Milano, tra 2015 e 2018, ho rivissuto in Sicilia fino a questo settembre); uscito a fine ottobre, a ridosso del secondo lockdown, mentre mi trovo in mezzo alla nebbia e al sempre più pallido sole milanese (mi sono nel frattempo trasferito nuovamente a Milano). Eppure non vi compaiono neppure una volta le parole virus, quarantena, pandemia, epidemia e persino malattia. Abbiamo un cadavere, ma pare godere di ottima salute.

Dove?

Negli anni, in tutti questi anni di frammentaria e discontinua composizione, il libro si è andato completando un po’ ovunque. Ricordo, e fu ormai più di dieci anni fa, che degli amici crearono un sito in cui far confluire i nostri aforismi. Da lì viene forse il gusto sentenzioso per la brevità, ma viene anche dalla prime letture di Nietzsche e di certe pagine di Kierkegaard. Poi con gli anni le librerie, i teatri (penso alla bella esperienza che è stato il Teatro Coppola a Catania, gestito da amici di cui ho avuto talvolta il piacere di essere ospite), i circoli, le associazioni (anche paesane, a Regalbuto, dove sono cresciuto), ma poi anche, come dicevo, i bar e i pub, ecco, sono tutti luoghi in cui il pensiero messo per iscritto nel libro si è formato e precisato. È stato sempre un pensiero in confronto, che ha sentito il bisogno di dispiegarsi in mezzo alla gente, agli amici. Non ho particolare piacere nel presentare libri (anzi ho più piacere nel presentare quelli degli altri che i miei), ma quando accade prediligo di gran lunga farlo nei pub e nei bar (e mi sento di accennare in particolare a Città Vecchia, il bar catanese del mio amico poeta Enzo Cannizzo, per quello che lui e gli altri amici che frequentano questo luogo hanno rappresentato per me e per la mia attività culturale), accompagnato da buone sorsate di whisky, bevendo in compagnia.

Perché?

La domanda del perché di un libro è in fondo la domanda sul perché della scrittura. Risolta quest’ultima questione, rimarrebbe poi da dire perché si scrive un libro in particolare. Potrei accampare diverse scuse, e tra le più disparate, sul perché della scrittura, ossia i motivi per cui scrivo, e che andrebbero dalla vanagloria al piacere estetico, da una sorta di istinto alla scelta razionale. Credo siano tutti motivi reali e validi, ognuno a suo modo. Ma la verità è che non saprei spiegare il perché fondamentale, se non quello che fa riferimento a una sorta di impulso necessario, quasi una coazione a ripetere che necessariamente deve fare i conti con la fredda razionalità del tentativo di esprimere i concetti con le parole scritte. In passato ho detto che si scrive per la stessa necessità che muove a diventare ciclisti o acrobati. O forse qualunque altra cosa. Davvero, non vedo differenza. Tuttavia, se le mie pagine hanno illuminato un angolo della realtà, se hanno scovato un’idea, un pensiero, un concetto imprimendolo su carta, allora il libro trova un suo senso, e ne sono felice, per quel che vale. Il giudizio, come sempre, è rimandato al lettore. Ciò che rimane, al netto della pigrizia, è la voglia di scriverne ancora e parlarne e discuterne e ingaglioffirsi con gli amici, facendo notte per vicoli e bar.

dal libro, scelti per voi 

Il pensiero è forma, la scrittura è materia, la filosofia è il sinolo, per dirla in metafore aristoteliche. Che la filosofia riposi in pace sulla scrittura, ne fa un prodotto di morti per i morti. Non si dà filosofia della vita; e dire filosofia della morte risulta tautologico. Il pensiero nasce morto e vivente si afferra al morto. L’uomo che raccoglie la sfida della conoscenza lotta per la sua stessa vita. Ma l’inganno consiste nel fatto che raggiunta la sapienza si perde la vita. Vivendo, non si sa; sapendo, non si vive.

(p. 34)

Noi, di tutte le età, di tutte le epoche, eccelsi o mediocri, che altro siamo quando tracciamo parole su un foglio, se non un compulsivo moto di protesta, un guizzare della fiamma di gioventù destinata anch’essa a perdersi? Se il genio consiste nel salvare una lingua del fuoco giovanile e farne torcia che mai non si spenga – come dice Papini –, vive eterno chi vive giovane, idealmente, nella bella età delle illusioni e dei sogni. Fiamma che arde e consuma se stessa.

(p. 53)

*

Spararsi è intromettersi tra una pallottola e il mondo.

Un suicida è un uomo in anticipo sui tempi.

Invecchiare è sopravvivere agli amici. 

(pp. 97-98)

*

Filosofia è amare la morte. Amore per la conoscenza è amore per un freddo cadavere. L’unico senso dell’amor fati, dell’amore per il destino di cui parla Nietzsche è l’amore per la morte. Dobbiamo amare il nostro destino; ma cos’è il nostro destino? Pur con mille sfaccettature, anche per miriadi di strade diverse, il nostro è un destino di morte, la morte è il nostro destino. Come che sia, per qualsivoglia vicissitudine, il fato ci conduce alla morte. L’amor fati, quindi, è amor mortis. Solo allora potremo conoscere qualcosa, quando saremo morti. Solo allora le nostre labbra narcisistiche potranno toccare le fredde e liquide labbra della morte: solo allora la conoscenza potrà capire la morte, nonostante questa le sfuggirà comunque. Solo allora potremo capire che il cerchio si chiude, che per tutta la vita abbiamo inseguito il nostro riflesso, ossia l’essenza che si vede in specchi, sogni e cadaveri. Per tutta la vita cerchiamo di conoscere; ma toccando la morte capiamo che per tutta la vita abbiamo conosciuto solo noi stessi, tuttavia solo come oggetto di riflessione, come cadavere immobile.

(pp. 110-111)

ph Aurora Terzitta

Cateno Tempio (Catania, 1983) insegna filosofia e storia al liceo. Ha pubblicato i saggi Quel che viene a mancare. Il saggio critico e Carmelo Bene (con D. Dell’Ombra, 2012), Apocalissi e conversione. Sulla catastrofe dell’occidente (2014). Ha curato il volume Critica dei morti viventi. Zombie e cinema, videogiochi, fumetti, filosofia (2016). È autore dei romanzi L’eroe della montagna. Ascesa e cadute di Marco Pantani (2016) e Vita in frantumi (2018), vincitore nel 2019 del premio “Vivo in Sicilia” all’Etnabook – Festival Internazionale del Libro. Ha pubblicato le raccolte di poesie Ultimi versi (2015) e Postumi (2019). Nel 2020 dà alle stampe Il filosofo è un cadavere

Potrebbero interessarti