Chi?
Spesso non so dire chi possa essere il protagonista dei miei romanzi, e di Voltami nello specifico. Anche chi compare per una sola riga ha il diritto di sentirsi protagonista di una storia nella Storia. Mi spiace dunque privilegiare qualcuno a discapito di altri. Ma poiché devo rispondere alla domanda, dirò che in Voltami il principale artefice di tutto è il Primo Conflitto mondiale. Senza di esso la vicenda non sarebbe esistita. Non ci sarebbe stata Ophelia Andersen, colei che a Parigi aprì un Dipartimento per la ricostruzione dei volti dei reduci sopravvissuti. Per “inventare” lei mi sono ispirata alla statunitense Anna Coleman- Ladd, realmente esistita, realmente a Parigi, realmente creatrice di maschere perfette. Senza la Grande Guerra non ci sarebbero stati i reduci che nel romanzo si raccontano a Ophelia mentre lei gli lavora i volti. Non ci sarebbe stato l’Atlantico – muro d’acqua tra l’America e l’Europa. Non ci sarebbero stati l’odio, la vergogna, la pena, le tenerezze e il non comprendersi tra esseri umani. Perfino l’offesa all’esistenza di milioni di morti non sarebbe potuta entrare in Voltami. E scordare non è mia abitudine. Neppure concedere oblio a chi mi legge. Voltami è un romanzo crudissimo, ma non quanto i volti scarnificati dei soldati tornati a casa. Diciamo che non ho concesso sconti ai sensibili. Li concede, forse, una guerra? Scrivere questo romanzo mi ha lasciato addosso odore di trincea e di polvere da sparo: serve a poco lavarsi. Dubito sarà rapido il mio distacco dal dolore che ho dovuto raccontare. Ma andava fatto. Raramente la Letteratura ha il ruolo di consolare, se onesta. Una lettrice, recentemente, ha definito la mia scrittura “inquietante”, da non affrontare mai più. Ne è all’oscuro, ma mi ha fatto un grande complimento. La fame, la guerra, la notte non possiedono colori sgargianti e neppure leggerezze da descrivere. Si abbia il coraggio di guardarle in pieno volto, possibilmente domandandosi, Da quale parte voglio stare?
Cosa?
Come già detto, affronto un conflitto bellico. Tramite uno stratagemma narrativo non solo il Primo Conflitto mondiale, ma anche il Secondo. E le guerre umane in genere. La ragione sta nel fatto che negli ultimi secoli in troppi hanno taciuto e non desidero essere conteggiata in questa categoria. In Voltami, Ophelia Andersen riesce ad avere accanto “magicamente” Celin, Picasso, Celan, Modigliani, Rilke, Cortazar, Lorca, Artaud e molti altri. Così accade, faccio accadere, perché molti degli artisti presenti nel romanzo, oltre che a Ophelia, dovevano fare compagnia a me.
Quando (e “Dove”)?
L’idea è nata scoprendo per caso su internet le gesta di Anna Coleman – Ladd, praticamente sconosciuta ai più, ma non al mio amico pittore Tonino Mattu, che da anni dipinge i volti devastati dei reduci della Grande Guerra. Prima di iniziare a scrivere il romanzo andai da lui per piangere insieme. Poi acquistai sette cappelli usati. Anche loro protagonisti a Parigi, quanto il numero sette, onnipresente in tutte le pagine. Le ragioni di Voltami: chi vive una guerra non si saprà mai liberare dagli incubi. Io sono un incubo.
Perché?
Perché ho amato ogni volto toccato da Ophelia Andersen. Perché il vocabolo contiene “ami” e perché c’è una precisa scena dove uno dei protagonisti pronuncia questa parola. Niente altro di intrigante da rivelare.
scelto per voi
“Parigi 1904
Eppure, anche tra le genti comuni dolevano i nervi, spesso saltando in aria per un nonnulla.
Cosa stava capitando?, domandavano ai vecchi improvvisamente più protettivi verso di loro, più avari nel risparmiare grano, legumi, frutta secca. Domandavano, i più giovani, obbedendo senza protestare all’ordine di rafforzare le case. I vecchi non rispondevano, tacendo o parlando di oche, angosciati essi stessi dalla medesima domanda
chiodo quotidiano per quel sangue di vene che, quanto un ruscello,
conduce memoria di avi in avi, fino al principio della creazione.
Percezioni più che prove. Alle quali infine si scelse di dare un nome: la necessità di uccidersi tra loro.
E dunque furono le memorie sui periodi di pace mai duraturi a comprendere il quesito? Che qualcosa in ciascuno di primitivo dovesse obbligatoriamente rispettare i cicli? Le usanze?
L’essere umano soffrirebbe dovessero scomparire i nani? Soffrirebbe, la scomparsa di un potere, se pur superiore di un solo centimetro?
Uccidersi tra loro.
E dunque.
Inutile mormorarselo soltanto attorno a un tavolo da cena; nei bistrò da notte fonda; in riunioni clandestine in cantine avvinazzate; di donne in donne innamorate di uomini che avrebbero voluto nascondere nei propri grembi; da madre a madre con figli in età giusta per combattere.
La guerra: l’orgoglio regalato con sapienza antica, già induceva, spoglia di vergogna, al bacio di bandiera i popoli del mondo. Non sarebbe accaduta all’improvviso, ma la sua pianificazione dava segnali inequivocabili. Un terrorismo subdolo, un velenoso apostolato era in atto sulle menti, affinché nessuno si trovasse impreparato al momento giusto del proclama ufficiale.
Uccidersi tra loro.
La paura prese fuoco negli intossicati dalla poesia, inabili a fuggire lontano perché nessun “lontano” si sarebbe più trovato, se già allontanatosi lo spirito da corpi con metrica in versi da massacro.
Qualsiasi azione – da città in città o villaggio o quartiere o stalla – era ormai mutata da mesi, in attesa tachicardica sospesa tra le nubi mirate di sbieco: il Potere più alto si era ammalato di noia, con sbadigli compulsivi, con l’avidità a digiuno.
Occorreva porre rimedio movimentando i popoli su scacchiere, asservendoli a strategie e giochi infìdi, perversi, affinché potesse ruttare al sapore del sangue di umani macellati, bevuto da calici scolpiti nei diamanti, dopo brindisi scandalosi. Il Potere si stava organizzando e puzzava avvelenando la buona volontà di vivere, scannato il futuro.
Come una peste il silenzio iniziò a prevalere vistoso tra le genti più
propense alle sottomissioni, iniziando a fargli comprendere il perché.
Sembrarono tempo perso gli amori e le speranze, procreare, perfino il saluto negli incontri se l’immagine ricorrente non sapeva essere diversa da una veglia al capezzale di se stessi in fin di vita.
Di contro, in identica percentuale, il chiasso si imponeva negli strilli dei corvi; in nubifragi fuori stagione; in afe esalanti il profondo dolore terrestre. I treni evitavano di fermarsi alle stazioni: confusi nelle narici dai mutanti odori delle città; fuggivano sperando di deragliare se così senza senso adesso la grazia del viaggio in andata e sicuro il ritorno.
I treni sanno,
i treni, appena venuti al mondo, perché più veloce potesse essere il passo del viaggiare, imploreranno ruggini e salti di binari perché mai più siano costretti a trasportare l’orrore che accadrà, e accadrà ripetutamente.
Accadrà. Ma ancora più avanti nel tempo.
Eppure in apparenza nulla farebbe presagire nel 1904 una nuova
catastrofe di Stati contro Stati, di sfaceli di luoghi, di prigionie, di vincitori o vinti.
Nessun presagio d’odore di polveri da sparo sulle belle donne inguantate a passeggio, sui damerini che alla loro vista tolgono i cappelli chinandosi al loro cospetto esclamando arditi e spensierati,
Incantato!
Nulla, in superficie.
Proprio Parigi è per l’Europa il simbolo di un’epopea prospera, quasi oltre la felicità: feste indimenticabili, teatri mai spogli di pubblico, l’elettricità a stupire di luce nuova fino agli orli delle periferie, le carrozze sostituite dai primi mezzi di trasporto. E dunque perché le genti avvertono disagi esistenziali inspiegabili, quegli strani lividi al midollo osseo,
quasi l’attesa di un inganno alle spalle, già appostato e pronto a
sbranare ogni illusione. L’abbiamo detto: i cromosomi vanno di sangue in sangue, al pari delle memorie, e abbiamo detto anche questo: così stava succedendo nella Capitale Francese come in quasi tutta l’Europa.
L’intuizione che una gioia è sempre a termine, quanto la pace tra gli esseri umani.
Matematicamente, osservando i cicli storici, una nuova guerra li avrebbe annientati: domani, tra due anni, tra dieci?
Tra dieci.”
In copertina la foto di Giusy Calia