#1Libroin5WPOESIA.: Federico Ziberna, “Nei giardini di Ade”, Eretica Edizioni.

#1Libroin5WPOESIA

Chi?

Il” protagonista dei versi è “una” protagonista. Euridice. La moglie di Orfeo, “il” poeta, per antonomasia, dell’antichità. Se qualcuno ha rappresentato il canto (e quindi la poesia), quello, più e oltre Omero, è stato Orfeo. Unico, potente, delicato e ancora più dell’altro sconosciuto: il suo verso? capace di piegare la volontà degli dei. E invece. E invece: qui è la donna, quella per la quale l’eroe scende negli Inferi e che nella vicenda il poeta perde a causa del proprio gesto, inopinato – e, come si dice “proprio ad un solo passo” da un possibile ritorno alla vita –. È “una” donna che sta qui, al centro, della vicenda, non “il” poeta. Una donna che ha imparato il mestiere della periferia, dell’abbandono. Il suo, fino a quel momento? appare nella storia come canto cantato, cantato cioè altri. Ma la voce che parla, che decide che può parlare da sé e finalmente, per sé? In autonomia dal poeta e dal suo mito, qui è “una” donna che parla.

Euridice abbandona il mito, la via del principio e degli assoluti: non si è perduta, non ha voluto venire, piuttosto o forse. Nessuno glielo ha chiesto, in fondo, ad Orfeo, di venire, e di cosa ella abbia provato più tardi, anche su questo, il mito tace. Era tutta una storia quindi, quella di Orfeo. Una storia implicitamente ed esplicitamente maschile e incentrata sulla potenza della sua parola e del suo gesto, anche quello erroneo (“lui” il poeta, “suo” il terribile dolore e lamento e sempre “suo” il canto in grado di indurre gli dei a concedergli una possibile via di riscatto per l’amore che “lui” poi perde: sempre “solo suo” dunque, come già ricordato l’errore finale).

Dov’è Euridice, in questo mito?” La risposta è cancellata dalla luce solare che inonda “il” poeta: ed è Euridice che è condannata, nel mito come nella storia, a non essere (e poi non rimanere) altro che come ombra. “Ma non era una donna?” Una moglie? Non ha vissuto Euridice? Non ha desiderato anche lei? e il suo, di dolore, la sua, di morte, l’unica reale, dove e quando vengono celebrate?

Euridice: un’ombra “del Poeta” in vita, e un’ ombra “del Poeta” nella morte.

Come tale: Euridice viene indicata e destinata a essere sola, trascurata, dimenticata nell’oscurità. Resta negli inferi, i suoi Inferi.

Della pelle lunare di “una” donna viene qui tentata una restituzione, una restituzione non macchinosa, non ricostruita, un tentativo di rispettare il suo pallore, i suoi chiari-scuri niente affatto teatrali o archetipici. Non chirurgia viene tentata, casomai cosmesi. La pelle di Euridice non è perciò mito disincarnato, che la trascina sul palco invisibile da cui Orfeo canta, fuori dal tempo; è un desiderio della carne, restituito alla sua carne, ai suoi cedimenti, ai suoi fraintendimenti anche: tutta una questione che si dice e si predica “al femminile”.

Al raggio si oppone così l’onda, al mito la quotidianità: all’astrazione la concrezione della conchiglia che si aggrappa tenacemente alla vita. Con tenacia? Talvolta. Ma che talvolta al contrario sopraffatta si lascia andare al dolore, precipita nuovamente al fondo, del mare, della terra.

Cosa?

“Il chi” si connette, sulla stessa linea, per Euridice, inevitabilmente, al “cosa”: la poesia infatti – in questo caso – non è faccenda di parole, o non solo. Piuttosto di atti, di richieste, di urla, di screzi, di pianti, di gioie.

Euridice, si diceva, è “una” donna. Ma non è “una”, è sola ma non una: Euridice è sempre “molte e molteplici”, innanzitutto e tanto più: dopo-tutto, nella morte. Perché Euridice viene uccisa dal destino, dal serpente, dagli dei, dalla dabennaggine di Orfeo. Viene uccisa per così dire costantemente. È un sacrificio il suo, ripetuto. E il fatto correlato sfugge insidioso, che: del colpevole, della colpa, di quello, di quelli, di quella (un’antagonista?), viene cancellata ogni traccia.

Eppure Euridice vive ancora. Laggiù lei non scompare: va via dalla luce, ma come ombra rimane e si mantiene, pure nel paradosso del buio, dove la scrittura, va chiesto: a cosa servirebbe? Ecco perché le sue parole “contano”. Contano non solo nel senso di avere importanza, ma perché “danno letteralmente i numeri”. Sono follie, quei suoi verbi, così umani anche, e non astrazioni. Sono vagheggiamenti, vaneggiamenti, andirivieni, lamentele, cuciture su strappi, regressioni, progressioni, previsioni. Conta anche, la sua parola, perché in effetti è un “calcolare”. Non si fraintenda, come sarebbe facile, seguendo Orfeo, il suo non è un calcolare logico, no, quello è tutto dell’eroe digitale del tutto-o-niente, della soglia che o si valica o non si valica, e rappresenta comunque sempre un confine netto. Quello di Euridice è molto più simile al calcolo dei bimbi, quello fatto con un pallottoliere, muovendo le sfere, come le parole, su e giù, infilate in una canocchia: “calculus” essendo la pietruzza. Le prende e ci gioca, Euridice: i sassolini, le gemme, le preziosità che la vita non le riserva più: lei le lancia arrabbiata nel vuoto che la circonda, le lascia cadere nello stagno, ne guarda i rimbalzi. Ricorda, rammemora. Uno, due tre. Poi nuovamente. Ossessivamente anche. Uno, due, tre: rimbalzi sull’acqua. Un desiderio che forse sì, forse no, si avvera o sprofonda. Cuce e parla fra sé, Euridice, avvolta nel nulla.

La donna, le donne, cuciono. Rammendano. E rammentano. Il che non le confina in un ruolo fissato dalla poesia: tutt’altro. Rammendando e rammemorano. Le Euridice (plurale, sempre, il suo/loro nome), sistemano le pietre e le risistemano, riordinano la vita, la morte, provando delle sequenze: scrivono – se lo fanno – al buio di una riflessione impossibile.

Questo il motivo del sottotitolo, in qualche modo, del volume: “nei Giardini di Ade”. Perché la donna, le donne, sanno abitare anche gli Inferi. Li conoscono da sempre: è lì, negli Inferi che sono state confinate dal mito, e talvolta pure nella vita. Inferi che le donne abbelliscono, che sanno rendere in qualche abitabili, che trasfigurano in impossibili-ma-possibili, “giardini”.

Quando?

L’idea del volume, il suo quando, è storia complessa. Perché è stato rivisitato, dalla sua partenza, durante un periodo molto lungo, anni in verità, trovando via via sistemazioni diverse, in tempi ne hanno rispecchiato l’evoluzione. Euridice pur essendo oramai eternizzata (non certo da queste mie voci restituite), si muove con la vita, la osserva, se ne commuove nel ricordo, sta nel presente fissato come un chiodo. I suoi “quando” sono gli incidenti della vita, quindi, i suoi tempi decisivi, le sue svolte nell’arrampicata, talvolta una scalata pericolosa, altre solo una piacevole passeggiata: le sue cadute, i suoi precipizi e drammi. Ecco perché “quando” sono i suoi “cosa”. I suoi pensieri, che – vale la pena di ripeterlo – sono i fatti. I fatti quotidiani, i tradimenti, le piccole speranze, le truci vendette, i risentimenti e talvolta lo slargo luminoso di un amore gigantesco, che tutto può divorare. Senza astrazioni. Niente voli fra le stelle: piuttosto danza dei piedi scalzi sulla terra.

Dove?

La mia città natale, Trieste, una piccola città di confine, probabile influenza sul tema, vista la sua travagliata storia. Paese di viaggiatori, porto abbandonato, luogo – nel tempo del mito – di sbocco e scalo vivace, di traffico, di avventura inesauribile. Non una Venezia però, è evidente. Trieste non è un mito a tutto tondo, non è un Impero. Più piccola, più modesta, più donna (o ragazzo, vedi l’inevitabile accostamento con i versi di Saba). Con il volto meno marcato insomma: un paradosso, come tutti i confini, come tutte le pelli, le superfici, i luoghi cioè in cui “mio” incontra – o può incontrare – “tuo”. Il volto del marinaio, ci si pensi, è quello di Popeye: corrugato eppure così giovane. Assurdo senza troppi giri di parole.

E Odessa. Già. Odessa. Questo il secondo luogo del mio lavoro. Perché il mare: sempre. E il confine. Ad Odessa ho completato – tempo fa, prima di tutto quello che tutti più o meno sanno di questo “dove” – Euridice. Una città stupenda, una città europea, italiana, francese: un luogo dalle radici impensabili.

Straniera è la sua notte, gelido il suo paesaggio nei suoi inverni, torrida durante le estati. Resta gentile ad autunno. E’ femminile in primavera. Odessa – una città controversa, che, come forse Trieste, è abbandonata dentro, da sempre, perché abitata dalle onde e dai confini. Una città – e finisco – dove la lingua parlata fino a ieri era esclusivamente o quasi il russo, come lo sloveno, e il tedesco lo fu a Trieste: una città di contaminazioni, sì, pesanti, ma ineffabili – e allo stesso tempo. Vive le sue contraddizioni, non tenta di farne una soluzione logicamente possibile.

Perché?

Perché leggere poesia oggi? Non ci sono motivi. Non leggete poesia, non leggetela se non poca e raramente. E non lo scrivo tentando una provocazione che sarebbe poi già usurata per quanto (appunto) già scritta e letta, e meglio certamente, da altri prima di me. Lo scrivo perché non è sensato, non è sensato leggere poesia.

Ovvia la conclusione linguistica: la poesia non è “sensata” perché non parla di sensi, come di significati. Quelli ancora: sono una roba da Orfeo. La poesia va letta con parsimonia e spreco e i suoi sono – mia opinione certo, che altro dovrebbe essere?  – i sensi della vita. Non è astrazione la poesia, è viceversa pentastellata: costituisce l’olfatto, il tatto, prende parte all’udito e al gusto. Le sue parti sono uniche, non plastificate. Non usa guanti. Prendetela come un’ovvietà. La mia osservazione e la poesia. Prendetela come un’ovvietà finché improvvisamente non vi trascina nel mercato orientale che sempre è stato il luogo che preferisce abitare, perché non è un luogo che normalmente si abita. Sta lì, e non sta: si muove e si sente nelle urla dei mercanti, nelle mani che afferrano, rubano, nell’acido lattico delle gambe che corrono: è compiuta e completa nei gesti scurrili talvolta, nelle strade laterali mai viste, nello scempio dell’esistenza che spreca e risparmia. Non dove vola Orfeo.

E lo dico, ovviamente, con il macigno del non poter essere che quella parte del mondo, quella di Orfeo, che si è girato mancando la presa.

 Scelti per voi
Federico Ziberna, “Nei giardini di Ade”, Eretica Edizioni.

È MEZZOGIORNO:
prendi presto la mia mano
nessun intreccio è consentito oltre sulla terra
– è solo l’adesso che regna e la sua luce.

In quest’ora diventiamo meridiane del nostro desiderio!,
senza ombre ma artigli di alti uccelli
via fra i nostri cappelli
andiamo via!
svanendo io dentro di te e tu dentro di me
ala e cielo!

VERRESTI A RIPRENDERMI:
vieni anzi. Una volta me lo avresti chiesto,
aspettando trepidante un cenno di conferma
una volta successiva: solo informata,
che mi facevi la gentilezza,
di sfuggita osservando se avessi capito;
poi me l’avesti semplicemente comunicato
la cintura di castità del chiedere serrata
mentre partivi per la tua crociata nel mondo.

Ora e alla fine e sempre: tutto questo
venire e prendere
lo conosco:
lo sappiamo tutte come va, è mito:

tutto un venire a prendere
per tappe come il giro d’Italia
o il campionato per squadre di mezza classifica
fatto di pareggi e partite giocate in casa.

Verresti a riprendermi:
e di grazia per dove riportarmi,
alle domeniche al Centro Commerciale,
o al cinema il sabato sera.

Verresti a riprendermi:
e così possiamo “in santa pace”
le puntate “finali” di quella serie
che tu ami direi solamente sdraiato sul divano
come ce le godremo!
Scarichi l’amore come un film:
i tuoi amori orizzontali senza sforzi pubici richiesti
né sostitutivi mi era già parso di intuire
nel tuo precedente sonno in vita.

Verresti a riprendermi:
con il tuo suv verresti,
se tu potessi, ma non credo vada, sul traghetto
e mi parleresti del “prossimo” viaggio a Sharm
il formato della sabbia
i geroglifici che emetti le mattine
e i cerchi le stelle e di altre dee sottointese.
Astronomici segreti amori rancori
risolvibili con l’oroscopo.

Non ho molta malinconia
dei tuoi genitori così celebrati
neppure del tuo mitico Egitto economico
per nulla così leggendario ti dirò.

Credevo di essere morta:
verresti a riprendermi.
“Passo al volo” dici – quasi anniversario “giusto in tempo” rammentato –
Montagna scalata a memoria
e uccisa a forza di scopate:
i chiodi piantati sulla via.

Portarmi via:
e dove di grazia
hai prenotato?
per due, così morti?

POI, COME TRAMONTA IL VENTO
dalla terra sul mare
e la luna può vedersi intera e doppia
tacendo le onde

così la voce tua si spense nella meraviglia
e i nostri corpi celesti
specchiandosi presero a cantare

 

FEDERICO ZIBERNA – 1967 Trieste – ha scritto il saggio autobiografico «Mai prima delle otto» (2013, Vertigo), incentrato sulle dinamiche psicologiche dei giocatori d’azzardo, il romanzo «Qui. Wikicronache di un wikiviaggio nel Limbo» (2016, Robin) e «Anima Minor» (2019, A&B), curioso libretto illustrato sull’alchimia. Dal «Il suicida seriale» (luglio 2023, Transeuropa edizioni), liberamente tratto dalla sceneggiatura per una serie televisiva di cui è co-autore, è in fase di realizzazione la prima Graphic Novel sperimentale concepita interamente come frutto della ibridazione di opere di illustrazione umana e artificiale (“Hybrid Intelligence”).

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