Daìta Martinez, la “Liturgia dell’acqua” e l’albore del bene.

Lo sguardo è mosso dalla visione sorgiva della realtà. Il linguaggio è costellato da intuizioni che richiedono profondissimo ascolto. È una poesia scritta con l’anima pulsante che infiamma curiosità, stupore, e ci consegna frammenti di vita che insieme diventano la storia narrata di un mondo in cui, sovviene Pavese, la ricchezza del reale supera la fantasia, «vuoto dolcissimo vuoto il melograno/ s’immerge nel fondo quasi altezza la/ vergine accuccia una nenia sul prato/ e il petto del lavandino fa ombra agli/ alberi e s’ode della mano il baccano». Parliamo del recente libro della palermitana Daìta Martinez, “Liturgia dell’acqua”, primo volume della preziosa collezione “Nuova Limina”, Anterem Edizioni. La scrittura di Martinez, come introduce Maria Grazia Calandrone, “ricorda i quadri di Salvador Dalí: le immagini sono oniriche, surreali, ma rimane evidente che chi le ha accostate e composte ha avuto chiaro in mente un progetto. E il progetto, qui, sembra essere far suonare la materia, lasciare che il caos del mondo emetta il proprio suono primario, fatto di madri, novene, lampioni, sponde, giochi di carte, alberi, cappelli, cicale. Il mondo che ne emerge è favoloso”.

Qual è stata la scintilla che ha portato il tuo “Liturgia dell’acqua”?

Il bene. L’albore del bene. L’origine a noi custode quale valore da respirare e preservare dall’affollata sovrastruttura di un tempo che si vorrebbe negazione di ogni più piccola meraviglia che ha nome nell’incanto dell’amore. Accade così che i nostri, già fragili, passi si perdano nell’errore dei sassi quando scendono e cedono nel giorno del raccolto. Eppure anche accade che lo sguardo cade sul candore di un fiore e il fiore si fa luogo di carezza tra le ciglia. Così un fiore mi si è scritto di sua innocenza spogliando gli occhi alla ferita di una incomunicabilità umana che lacrima la rinuncia all’esserci per davvero esserci scomponendo nel silenzio il frastuono dell’inutile riconcorsa nel nulla.

Dove sei stata condotta dalla poesia e cosa credi possa la poesia per colmare “il vuoto mormorio delle ore”?

In verso al possibile di uno sguardo altro e da sé e con sé. È un possibile percorribile nella traccia dell’ascolto, quasi fosse un corso d’acqua fluente di sua pura essenzialità che si riporta al sonoro di quell’impercettibile emotivo che scardina la vacuità dell’immobile. Un ascolto, quindi, di delicata attenzione alle pur minime sfumature che respirano a viso aperto quando, sfiorato da un palpito di sole, si scoprono e si consegnano alla libertà dell’essere pensiero per il pensiero del riguardo al seme della parola che cura e bonifica il vuoto mormorio delle ore.

In che modo la vita diventa linguaggio?

Non diventa, la vita è linguaggio.

La poesia è (anche) la lingua dell’invalicabile?

La lingua poetica più è silenziosa più è invalicabile, intendendo per invalicabile quel finissimo intermezzo che si ripara tra parola e melodia, tra significante e il suo significare attimo che cattura l’attimo senza mai in realtà trattenerlo in quel segno che la scrive. Ed è per tentare questo invalicabile che si resta scoperti dentro l’origine del giorno, per trovarsi nudi al seno di una ricerca che sappia scavare nella sua nascosta solitudine.

La forma quanto incide sulla “verità” della parola poetica? 

La verità in poesia è principio che ha luogo nella parola. È un legame sotterraneo esigente l’onestà dell’esprimibile là dove non vive spazio per nient’altro che non sia visione di un battito accaduto. La forma è forma che ha esigenza di questa relazione, della realtà della relazione. Perché è una relazione che si contempla tra parola e struttura e si struttura grafica che ha i suoi contorni e che in me, nella mia scrittura, diventa scenografia di senso entro la quale si schiude il paesaggio della comunicazione.

Immagina di dover dare delle “istruzioni” essenziali per scrivere una poesia, quali daresti?

Non sono brava nel dare istruzioni. Io per prima sono incapace a seguirle, ostinata a essere sempre comu testa mi rici. Un consiglio, questo sì! Leggere e ancora leggere. Poesia e non solo poesia, ma lasciarsi rapire da ogni più lieve bagliore che cattura, anche in un sempre provvisorio, l’attenzione del nostro collo scoperto nell’imprevisto di un incontro. Leggere è sempre un incontro che ci sfiora e ci invita a innamorarci della bellezza che in noi poggia il fianco nell’inciso di ogni alfabeto di luce.

Qual è stato, ad oggi, il dono più prezioso ricevuto in dono dalla poesia?

La reciprocità dell’altro.
Preziosissimo, mai dato per scontato, dono.
È stupore che mi commuove.

Per concludere salutando i nostri lettori, ti invito a scegliere una tua poesia dal libro “Liturgia dell’acqua” e, nel contempo, ti invito a portarci a ritroso nel tempo, a prima della stesura completa o della prima stesura, per raccontarci quanto “accaduto” così da permetterci di condividere (e meglio comprendere) il percorso che l’ha vista nascere.

nient’altro che silenzio il nido sulla
schiena del ciliegio così l’ultima tua
volta sulla bocca di palermo insorta
la minuta stanza l’aurora tra le dita

L’aurora, il tempo silenzioso di un abbraccio. Un abbraccio che ha pudore e l’odore del ciliegio, di palermo, di una stanza che ha il volto esposto nell’interno di una piazza dove è amare semplicemente per amare. In questo semplicemente scoprire il coraggio e la levità della cura, il farsi nido di una liturgia.

Poi silenzio, ancora silenzio.

 

(la versione ridotta di questa intervista a cura di Grazia Calanna, è apparsa sul quotidiano LA SICILIA del 16.02.2022 pagina Cultura, rubrica “Ridenti e Fuggitivi”).

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