Alessandro Cartoni, “Cartoline degli addii”, poesia che “lascia testimonianza”.

tre domande, tre poesie

Alessandro Cartoni (Ancona 1964, in copertina nella foto Simonetta Venturi) è docente di lettere nelle scuole secondarie. È membro del laboratorio collettivo Carboneria letteraria. Suoi racconti sono apparsi in antologie per Transeuropa, Lavoro Editoriale, Eclissi, Perrone, Pequod. Nel 2008 vince il concorso per il premio InediTo, per la sezione racconto. Nel 2010 pubblica la trilogia Io sono la nemesi (Perrone), nel 2017 la raccolta Dove ballano le ragazze (0111 Edizioni) e nel 2018 il romanzo Reclusione (Licosia). Nel 2022 ha pubblicato per Robin edizioni la raccolta di racconti Foto di famiglia con sgomento. E, con Fallone editore (2022) la silloge poetica Cartoline degli adii.

Qual è stata la scintilla che ha portato il tuo “Cartoline degli addii”, meglio: in che modo la (sua) vita diventa linguaggio?

Più che per una scintilla o per una particolare epifania, il libro nasce dalla constatazione che i testi che sorgevano o erano già nati nel tempo, anche attraverso stagioni diverse, momenti differenti, o suscitati da figure diverse di donna, ebbene tutti alla fine si concentravano attorno alla figura dell’assenza, e al momento del congedo. L’addio dunque come una forma stessa della condizione umana, come il quid stesso del nostro essere fatto proprio del dileguare. Per capirci: non solo testi che parlano di abbandoni amorosi (ci sono anche quelli) o di rapporti che si interrompono o si consumano, ma anche testi sulle cose andate, sui mondi di ieri, o sull’implacabile passare del tempo che lascia tracce o rovine e che comunque ci attraversa. Per dire alla fine che la vita stessa è “rara” perché trascorre e non si ripete

La poesia è (anche) la lingua dell’invalicabile?

La domanda è interessante perché forse coglie un aspetto della tradizione italiana che francamente mi ha sempre lasciato perplesso. Mi spiego: la poesia a mio modo di vedere è un modo di espressione che non ha nulla di sacerdotale o di mistico, il poeta non è un veggente ma è uno che “lascia testimonianza” mi convince più Montale che Rimbaud. La condizione del poeta non è diversa da quella degli altri uomini, non ha più risorse o più emozioni degli altri, degli “uomini che non si voltano”, l’unica differenza è che sceglie di parlare da una posizione eccentrica, o se vogliamo marginale, ed è questa obliquità che dà senso alla parola. Se sono al centro delle cose l’ordine del mio discorso sarà centrale, organico, centripeto, se sono decentrato rispetto a questo ordine, l’ordine del mio discorso sarà centrifugo, evasivo, la mia produzione di senso dovrà tener conto di questo e ne verrà certamente marcata. Aggiungerei tuttavia che nell’inquinamento semiologico in cui viviamo questa posizione del poeta non può e non deve condannarlo alla incomunicabilità, perché farsi capire da tutti, come ci hanno insegnato gli Americani, rimane un dovere della poesia.

Per concludere, la invito, per salutare i nostri lettori, a riportare tre poesie dal suo “Cartoline degli addii”; di queste ne scelga una per condurci a ritroso nel tempo, a prima della stesura completa o della prima stesura, per raccontarci quando “accaduto” così da permetterci di condividere (e meglio comprendere) il percorso che l’ha vista nascere (nel contesto del libro che l’accoglie).

Le propongo queste tre, l’ultima delle quali è nata prima del resto e forse dà il senso del percorso della raccolta

le pozze di sole nella stanza
la lucertola entra e non sa nulla
del freddo, con timidezza
qualcosa si disfa nell’aria
il vento ha una voce
che si perde, il tempo
è un vortice di foglie
raggrinzite,
il falco attraversa questa luce
senza nulla da attendere,
sornione l’autunno
è già alla finestra
e ci guarda passare

*

avresti voluto giorni lunghi
senza niente davanti
morbida la spina dorsale
del tempo con la luce
diafana
e l’orizzonte basso
che rivela i passaggi
sulla linea del mondo.
Non è andata così,
il mondo è rientrato
in un sacco,
l’orizzonte si è alzato
a muro,
carpentieri impensabili
hanno sparso la calce
sui muri e i pertugi
dell’anima,
nemmeno una macchia
d’azzurro o di verde
in questa vicenda

*

la palla che rotola
nella giungla d’erba alta
al sole della sera,
sconfigge l’illusione che abbia
senso lanciarla oltre il recinto,
invece piano si nasconde
e non si trova più,
la guardi pensando
che in fondo non sei vecchio,
che basterebbe poco
per riprenderla
o per seguirla là
nel folto dove la luce
si fa avara
e tutto si confonde

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