Mario Fresa, classe 1973, raffinatissimo critico letterario, collabora con numerose riviste tra le quali “Nuovi Argomenti”, “Almanacco dello Specchio” e “Gradiva”. È traduttore dal latino e dal francese (Catullo, Marziale, Pseudo-Bernardo di Chiaravalle, Musset, Desnos, Apollinaire, Frénaud, Char, Duprey, Queneau) ed è autore di vari libri di critica e di poesia. Tra i suoi ultimi lavori, ricordiamo: Omaggio a Marziale (2011); Uno stupore quieto (2012); La tortura per mezzo delle rose (2014); Come da un’altra riva. Un’interpretazione del Don Juan aux Enfers di Baudelaire (2014); Catullo vestito di nuovo (2014); Teoria della seduzione (2015); In viaggio con Apollinaire (2016); Le parole viventi. Modelli di ricerca nella poesia italiana contemporanea (2017). In occasione dell’uscita del nuovo libro, prezioso connubio eufonico, “Alfabeto Baudelaire. Dodici traduzioni dai Fiori del Male” con disegni di Massimo Dagnino e interventi critici, oltreché dello stesso Fresa, di Davide Cortese, lo abbiamo intervistato.
Puoi ‘spiegarci’ cosa ha orientato la stesura delle dodici versioni dai “Fiori del Male” e, nel contempo, la scelta dell’accostamento versi/disegni?
Alfabeto Baudelaire contemplava, in origine, il desiderio di presentare ad una ad una le poesie tradotte nel libro. Ma più commentavo e chiosavo, più avvertivo il pericolo di un possibile costringimento della potente e anarchica luce baudelairiana negli stretti corridoi della rettorica parafrastica. Perciò ho deciso, a un certo punto, di riunire (direi anzi: di contrarre) in un’unica postilla finale le mie riflessioni critiche, offrendo ai lettori, in modo “diretto” (senza alcuna introduzione esegetica) un ideale itinerario delle principali trame che sostengono la struttura concettuale delle Fleurs. D’accordo con l’artista Dagnino, ho inteso incuneare questi tematici Leitfaden (nel senso wagneriano del termine) in un gioco visivo di natura metamorfica e labirintica, ben lontano da tentazioni didascaliche o illustrative e sottilmente percorso da nascoste citazioni, da interni rispecchiamenti, da allusioni intuitive. Si è costruita, così, una rete visiva riccamente dilatata, fitta di numerose intersecazioni dialoganti tra di loro per segrete analogie. Quanto alle traduzioni, ho abbandonato l’idea iniziale di adottare una soluzione isometrica (ché una simile operazione avrebbe significato imprigionare e addomesticare la libera e luminosa geometria del verso baudelairiano) e ho scelto, invece, la strada di uno specchiamento neutro, nel quale non si ha l’ambizione di restaurare, o in qualche di modo di ricuperare l’estrema energia iperbolica e la lucida simmetria dei testi originali, ma solo si esprime il desiderio di rifrangerne la brillantezza proiettandola su di una tela parallela, quasi volendo consegnare, al lettore, il malinconico riverbero, il bagliore nostalgico di un bene lontano, inaccessibile, mai del tutto rifondibile… È il tipico desiderio, tenero e mesto, di un amante e non di uno studioso… Gli unici vezzi che mi sono concesso contemplano l’aggiunta di certe minime variazioni nell’uso dei segni di interpunzione e l’inserimento di qualche rara rima interna. Sono lievi e affettuose deviazioni che posso paragonare all’istante nel quale l’esecutore di uno spartito decide di lanciarsi, per amore della melodia, in una estemporanea puntatura, in una piccola cadenza, in una breve fioritura.
Come scrivi nella tua nota magistrale “Ars contra vitam”, la poesia baudelairiana “persegue il compito di mostrare l’atroce verità di un mondo che si presenta siccome un male radicale, corrotto sin dalla sua nascita…”. Ho scelto questo passo per chiederti: in che misura una poesia ‘somiglia’ al poeta che l’ha scritta?
Baudelaire definisce monstre délicat, nonché hypocrite il suo lettore (di certo non vuole riferirsi, qui, soltanto ai suoi lettori ma, più in generale, ad ogni lettore di poesia). Lo chiama, inoltre, suo semblable e frère. Dunque: mostro delicato (meraviglioso ossimoro!), ipocrita, simile e fratello. Fratello, s’intende, come può esserlo un Caino. Ipocrita, perché s’illude che la scrittura poetica sia da considerare, in fondo, come uno svago o come un’ impostura (e perché non sa, o non vuole, ammettere che solo nell’arte è riposta l’eco della più dura e franca verità: così come sono, senza alcun dubbio, i sogni, le proiezioni oniriche, e non la vita diurna, a mostrarci gli autentici nostri desideri, le nostre più oscure pulsioni). La poesia somiglia a chi l’ha scritta nella misura in cui il poeta accetta, senza opporre resistenza, di lasciar parlare le richieste inespresse del proprio Doppio, le occulte sollecitazioni del proprio Sosia. Il verso pare una maschera e un artifizio: ma questa larva coincide con l’autentico volto di chi la indossa; anzi ne è la prima, originaria pelle. Il linguaggio poetico agisce come un lapsus o un atto mancato: vorrebbe nascondere, esornare, abbellire, coprire. E invece mostra, svela, discopre un baratro (al lettore e al poeta stesso), agendo fruttuosamente contro il servile buonsenso del controllo razionale dell’io.
Secondo la ‘traduttologia’ (ovvero la scienza della traduzione da intendere come genere letterario), quante versioni sono ammissibili di un unico testo?
Moltissime e nessuna. Tutte possono essere utili, ma nessuna è indispensabile. Un’ottima cosa sarebbe tradurre personalmente, senza affidarsi a un traslatore esterno. E il meglio che si possa fare è apprendere la lingua originale per poter fare a meno, una volta per tutte, della scomoda presenza dei traduttori intermediari. Mandel’štam si mise a studiare l’italiano per accedere in maniera diretta a Dante. Se ogni lettore di poesia facesse lo stesso…
Per Guido Ceronetti “tradurre è creare un verso nuovo”, la poesia dunque non è realmente traducibile?
La poesia è traducibile, ma non ri-creabile. Il traduttore dovrebbe accettare il suo ruolo di suggeritore, di imitatore (spesso, di imitatore lucidamente parodiante); e dovrebbe, anche, saper applicare, ai testi, un’attitudine camaleontica, proprio come un attore che sia in grado di recitare molti ruoli, utilizzando modi stilistici diversificati. Ma ciò può avvenire solo se il traduttore impara a nascondersi e ad agire come una cassa di risonanza, evitando, soprattutto, di far avvertire il peso del proprio linguaggio poetico. La sua destrezza dovrebbe permettergli di unire e far coincidere, insomma, la rigorosa attuazione della mimesi con l’impiego di un’accorta mimetizzazione.
Un traduttore di poesia, come sosteneva Leopardi, deve necessariamente essere un poeta?
Senza dubbio. E non solo: nella maggioranza dei casi, un ottimo poeta è anche un ottimo traduttore (e, di conseguenza, un poeta scadente sarà un pessimo traduttore!). Nel caso specifico, vorrei aggiungere che un poeta-traduttore delle Fleurs dovrebbe intendersi di musica. Come poter comprendere, altrimenti, anche soltanto l’eco della meravigliosa unendliche Melodie baudelairiana?
Assodata la difficoltà di riconsegnare un testo equivalente all’originale (pensiamo alle sfumature linguistiche come alle peculiarità musicali), cosa bisogna fare prima di tradurre una poesia?
Studiare in modo approfondito il contesto storico e artistico nel quale ha vissuto e operato un poeta; consultare i dizionari e i vocabolari coevi (sia della lingua da tradurre, sia della propria lingua); lavorare con l’occhio e con l’orecchio; comprendere la musica della prosodia, imitarne il battito; individuare il tempo giusto dell’andamento ritmico, fingendo d’indovinare, nella composizione poetica, sotterranee indicazioni agogiche. Ma in fondo, vedi, il concetto di “imitazione” o di ricalco è un ripiego, un accomodamento. Il sogno di ogni traduttore è quello di lavorare in una prospettiva enarmonica: una prospettiva, cioè, nella quale le parole “chat” e “gatto” possano essere intese con lo stesso, identico suono e con la medesima forza d’impatto.
La forma quanto incide sull’essenzialità della parola poetica?
Incide in modo fondamentale. A patto che il poeta non la utilizzi come strumento edonistico, cioè come gratuita belluria.
Qual è la tua ‘attuale’ spiegazione/definizione di poesia?
Me la spiego vedendola come la famosa sequenza della partita a scacchi del film Det sjunde inseglet di Bergman. Mi sento lo sfidato e lo sfidante insieme. A conti fatti, ognuno gioca contro sé stesso e vuole, finalmente, di sé stesso liberarsi. La poesia è, appunto, un silente e acuminato esercizio per scomparire.
Quando (ammesso sia possibile) una poesia può dirsi compiuta?
Quando passa e ripassa continuamente da un lettore all’altro, con la sensazione che i conti (non dico solo i conti con il testo, ma anche e soprattutto con sé stessi) non siano mai del tutto chiusi, definiti, compresi.
Ti invito a scegliere (riportandola) una tua traduzione (dal libro “Alfabeto Baudelaire”) per salutare i nostri lettori.
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Scelgo questa poesia, Il vino degli amanti (dedicata a chi lo sa):
Oggi lo spazio è uno splendore!
Senza morsi, né briglie, né speroni,
Partiamo, su, a cavallo del vino
Verso un fatato cielo divino!
Come angeli assediati
Da un’implacabile calura,
Nell’azzurro cristallo del mattino
Seguiamo, su, il miraggio lontano!
Oh, dolce dolce sull’ala
Del sapientissimo turbine,
In simultanea follia,
Sorella mia, nuotiamo vicino
Per fuggire, senza tregua né riposo,
Verso il Paradiso dei miei sogni!