DANIELE COBIANCHI FOTO

Gli scrittori più originali dei nostri giorni non sono quelli che portano qualcosa di nuovo, ma quelli che sanno dire cose risapute come se non fossero mai state dette”, parole di Goethe per chiedere: qual è la tua più intima definizione di scrittura?

Ho sempre odiato definire la scrittura e ho sempre odiato chi cerca di darne una definizione. Chiunque si metta a scrivere dovrebbe lasciar perdere subito se dovesse tendere a qualcosa che qualcun’altro ha definito attraverso il suo modo o il suo talento. Ho un amico bravissimo, uno scrittore nato, ma non scrive perché teme di non essere sufficientemente abile, di non poter raggiungere quel livello, di non essere all’altezza di chi ritiene all’altezza. E allora tutto gli implode dentro e ogni sei mesi se ne ritorna dallo psicanalista.  Nella scrittura che leggo cerco le risposte che fatico a darmi, e il fatto di non trovarle nemmeno lì mi conforta. Anche leggendo i più grandi scopro i miei irrisolti, le mie fragilità, gli odori che mi passano dal naso un istante e poi si perdono. Questo mi interessa. Mi fa sentire meno solo, meno sbagliato, meno ansioso, meno debuttante. È la prima volta per tutti su questa terra e bisogna andare per tentativi. E leggere quelli degli altri, di altre vite, di altri drammi, mi rincuora e lascia che io possa vivere senza il timore di dover tendere a qualcosa di oggettivo che potrei arrivare a sfiorare o che invece continuo a schivare all’infinito. Non amo i gialli, né l’intrattenimento. Mi guardo un film se proprio ne sento il bisogno. Amo gli scrittori che raccontano storie di anni passati o di anni futuri, e anche di oggi, le storie piccole, l’uomo e le sue debolezze e le sue immensità. Amo i co-protagonisti, gli sconfitti, gli eroi per caso, gli stronzi. Ma amo anche i vincenti, se nella vittoria c’è il cuore. Con la mia scrittura invece ho l’ambizione di dare il mio contributo agli altri. Di aggiungere confusione a confusione e nello stesso modo di fare migrare la mia. Dire come la vedo, raccontare una storia che merita di essere condivisa. Devo sentirne però l’urgenza altrimenti le mie pagine rimangono bianche dei mesi interi. Ed è proprio l’urgenza che fa sì che ciò che scrivo abbia un valore, almeno per me, e faccia il suo dovere. La sensazione che provo davanti a una pagina ben riuscita è quella di aver messo in ordine la scrivania. Un benessere momentaneo consapevolmente destinato a scemare. Ogni cosa al suo posto, pulizia, senso di responsabilità. La capacità di cristallizzare qualcosa nel suo stato più perfetto: di sospendere il tempo e lo spazio, il giudizio. Di aver catalogato con le etichette giuste, dopo averle separate, tutte le emozioni e le contraddizioni del mio vivere. Ho scritto “Dormivo con i guanti di pelle” perché non solo la mia scrivania era affollata ma lo erano anche vasca da bagno, pianoforte e tavolo del soggiorno. Stiamo vivendo l’era della perfezione, del non mollare mai, del passo obbligato e spedito a qualunque costo. Non c’è più spazio per le fragilità, non c’è più il tempo di prendersi il tempo. E William Orsini, il mio protagonista, non riuscendo a disfarsi dei suoi guanti di pelle, è un eroe perché ha deciso, suo malgrado, di convivere con le proprie frustrazioni, senza nasconderle come avrebbe fatto un uomo tutto d’un pezzo. Ferma il tempo, William, chiama il time-out. Ma questa convivenza alla fine altro non è che una strategia: conoscere il nemico, studiarlo attentamente, ascoltandolo con l’arma della sensibilità. E allora la paura non fa più paura e i guanti di pelle, da barriera contro il mondo, tornano solo a proteggere dall’inverno la delicatezza di mani grandi e belle che vogliono sentire il mondo.

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