Alfio Giurato, Ritratto di famiglia



“Agli esseri che respirano, l’aria nello stesso tempo percuote / anche la parte interna quando è inspirata o emessa. / Perciò, essendo il corpo flagellato all’esterno e all’interno, / e penetrando i colpi in noi per gli stretti fori / fino ai nuclei iniziali e ai primi elementi del corpo, / si determina a poco a poco in noi per le membra quasi uno sfacelo. / Infatti sono sconvolte le positure dei germi primordiali / del corpo e dell’animo. Accade allora che una parte dell’anima / venga espulsa all’esterno, parte affondi e si celi all’interno, / e altra parte dispersa per le membra non riesca a serbarsi / unita in se stessa, né a imprimere o a ricevere impulsi di moto, / poiché la natura impedisce le coesioni e le vie; / e dunque per i movimenti cambiati la sensibilità si ritrae nel profondo. / E poiché quasi vien meno ogni sostegno agli arti, / il corpo s’indebolisce e tutte le membra languiscono, / le braccia e le palpebre cadono, le ginocchia, anche a chi giace / in riposo, si piegano spesso ed è dissolta ogni capacità di sforzo” (De rerum natura, libro IV, vv. 937-953, traduzione di Luca Canali). La lotta dell’aria contro i corpi umani che infine si arrendono all’oblio del sonno, descritta nei versi di Lucrezio riportati, sembra prestarsi, oltre che al titolo di questa personale scelto dal curatore Alberto Agazzani, Furia Corporis, allo scontro fisico e spirituale con la materia che ingaggia un artista quando si mette all’opera. Alfio Giurato mi dice che il suo lavoro si svolge nelle ore serali, immerso in una luce artificiale. Le sue tele sembrano proprio nate dall’incontro con il mondo infero (per dirla con Hillman), dai fantasmi generati dalle profondità del buio come luogo di contatto con l’anima. Alcuni soggetti fanno pensare agli schiavi di Platone nella caverna, in attesa di un tempo kairos, propizio, escatologico. Figure sospese in un silenzio interdetto (il senso di sospensione alimenta percettivamente fughe mentali in una dimensione mai piatta), che generano domande e “costringono” all’ascolto, a uno sguardo che non fugga come quello quotidiano sempre pronto allo slalom delle richieste di aiuto. Se gli occhi sono lo specchio dell’anima, c’è anche un senso di grande pudore e rispetto nella scelta di eliderli, nascondendoli allo spettatore, alla voracità dettata dal consumo immediato, portando così chi osserva, verso una scelta critica, solleticando le facoltà di giudizio oltre che i pruriti immaginativi. Il colore non è mai slavato, scialbo, sembra piuttosto estratto alchemicamente attraverso il contatto con un altro mondo (quasi un colore venuto dallo spazio, vedi il racconto di H.P. Lovecraft), dotato com’è di una tempra metafisica. Nei quadri più “familiari” (Andrea e Ritratto di famiglia, 2013), maggiormente apparentabili alla nostra epoca, l’incontro visivo coi soggetti è molto forte e (soprattutto in Ritratto di famiglia), le persone appaiono segnate più degli oggetti intorno, mostrano, quando le teste non sono ridotte a sagome (ricordo sbiadito di una presenza umana), le dolenti contrazioni d’un volto stanco, nel proprio eroico anonimato di padri, mariti, nonni, lavoratori instancabili. In alcuni quadri Senza titolo e della serie Stanze, si annusa un’aria cameratesca, di un qualche apprendistato pedagogico dalla natura indecifrata (se c’è un aspetto erotico, mi pare possa ritenersi finalizzato pur sempre a uno stadio superiore). Stanze 3 è probabilmente il quadro più perturbante: tre figure erette con la testa reclinata sulle proprie spalle paiono rispondere a un richiamo dall’alto, le mie suggestioni mi portano a udire un grido di sirena metallica, moderna sentinella luciferina che cattura a sé i corpi nel marchingegno spietato di una fabbrica infernale (forse per via della luce più calda, il soggetto simile del quadro I burattini non mi provoca le stesse sensazioni). Stanze 4 ci fa ritrovare un clima più disteso (anche se nell’arte, qui in particolar modo, siamo nel territorio dell’ipotetico). C’è un’oscurità che preserva, rigenerante, come una cantina o deposito di luce, l’ombra allatta i riflessi nel gioco caravaggesco di un artista che lascia una prospettiva aperta ai suoi personaggi in fieri, generando continui rimandi e costellazioni di possibilità. Forse il compito più difficile di questi tempi disertati dalla fiducia in nuovi mondi futuribili. (La mostra è visitabile al MacS di Catania, diretto da Giuseppina Napoli,  fino al  prossimo 15 Settembre 2013).

Alfio Giurato, Profilo
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Alfio Giurato, Stanze (1)
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