«fummo tutto ciò che ci era dato desiderare / macchine universali in corsa / nei cieli struggenti dei nostri baratri assurdi / nei presagi che ci annuvolavano le menti». Versi ancestrali, scelti per introdurvi alla lettura di “Nerotonia”, opera prima di Rosella Pretto, “Samuele Editore”. Al di là del fallimento, del tragico allontanamento, è (anche) la vicenda del riconoscimento di una “singolarità che diventa consapevole”. Un componimento complesso, costellato di rimandi che, come scrive Flaminia Cruciani nella gustosa prefazione, «ci trasporta in una rivisitazione originale della tragedia shakespeariana di Macbeth, sviscerata dall’osservatorio femminile e sensuale di Lady Macbeth». Ci dona, peregrinando nell’infinito interiore, una rivisitazione consanguinea al presente incessante dell’animo umano («disperazione e grazia»), specchio pulsante del cosmo.
Qual è stata la scintilla dalla quale è scaturita questa storia in versi, attualissima e nuda, “traghettata da Shakespeare ai giorni nostri”?
È la mia inesauribile ossessione per Macbeth, continuo a leggerlo e a pensarci, da una quindicina d’anni ormai. E più lo leggo, più sembra che mi sfugga. Mi sono laureata su quel testo, ma ne sentivo parlare da molto prima – di Shakespeare, in generale – quando veniva il nonno, Elio Chinol. Declamava qualche verso, gli occhi ispirati, il respiro che infondeva ai versi, la dizione consapevole di ogni parola pronunciata, il valore nel peso che acquistavano, la leggerezza di ciò che è universale. Sui Sonetti, in particolare, ha lavorato tutta la vita. Macbeth, invece, l’ha tradotto appositamente per la scena. Sapeva che le parole dovevano essere recitabili. E che il ritmo andava sostenuto a qualsiasi costo. Ritmo è movimento, azione. E il cortocircuito tra pensiero e azione è il cappio di Macbeth. Di lui ho scritto e continuo a scrivere in varie forme. Ma è come prendere la luna al laccio. C’è comunque qualcosa nel sangue che spinge a perseverare. Mi chiedi della scintilla, Grazia, e non c’è termine più adatto. Perché è proprio dal buio e dall’indistinto che tutto scaturisce, nel mio poemetto e nella storia dell’uomo. Nel guazzabuglio di quell’oscurità ecco la scintilla, che è parola, verbo; lì si profila la possibilità di essere, le condizioni ideali perché si manifesti la vita o l’amore, inteso come incontro/scontro di elementi che, insieme, generano un sistema più complesso, una forma nuova. Un sistema che man mano si evolve, però, e dovrebbe essere disciplinato, musicalmente accordato perché gli strumenti vibrino in sintonia. L’eterno problema dell’essere umano, delle relazioni. Vi è un intento di partenza che man mano si diluisce, va perso. E non ci si ritrova più. A quel fine non si giunge. Rimane il tentativo e il bisogno di comprendere gli snodi di un amore. Anne Carson in The Anthropology of Water scrive che una conversazione è un viaggio e ciò che valorizza è la paura. Qual è la paura nel linguaggio?, si chiede. «Nessun incidente del corpo può impedirgli di bruciare». Nerotonia è la storia di un fallimento, di un allontanamento tragico, ma anche il riconoscimento di una singolarità che diventa consapevole, di una donna che tenta di appartenere e non trova requie. Vi è differenza tra uomo e donna e va riconosciuta, accettata come ricchezza. Può solo attraversare il buio, questa donna, farsi buia lei stessa e ammettere, alla fine, ciò che rimane: non solo macerie ma la possibilità del canto, la coscienza di essere grembo non più insterilito, ma che accasa storie, la sua e quelle di altri. Perché anche dopo la perdita di un figlio, per cui non esiste rassegnazione e non c’è parola per indicarne la condizione – «Sono vedova e… strano, non c’è la parola: chi perde i genitori diventa orfano; chi perde l’unico figlio diventa… niente», dice Violet, in Suddenly last summer di Tennessee Williams, prima di condurre il dottor Cukrowicz a vedere la giungla che ha ricreato nel giardino della sua villa, un giardino primordiale voluto dal figlio e in cui trova posto “la povera Signora”, una pianta carnivora che deve essere tenuta sotto vetro dal principio dell’autunno a primavera inoltrata, «la Venere carnivora, una creatura divoratrice che, giustamente, si chiama come la dea dell’amore» – dicevo, anche dopo lutti inenarrabili si può tendere l’orecchio e ascoltare. «Just breathe, just breathe I need you». Respira, respira, ti prego, ho bisogno di te, supplica Nick Cave, che sa il dovere di partire per cieli lontani per arrivare a dire che, al di là di quell’albero scheletrico, va tutto bene, va tutto bene, ora. Solo dopo l’attraversamento di quel terreno minato si accede, a volte, al miracolo che descrive Roland Barthes in Frammenti di un discorso amoroso. «Miracolo: lasciando dietro di me ogni “soddisfazione”, senza essere né pago né satollo, oltrepasso i limiti della sazietà e, invece di trovare il disgusto, la nausea, o anche solo l’ebbrezza, scopro… la Coincidenza. La dismisura mi ha condotto alla misura; coincido con l’Immagine, le nostre misure sono le stesse: esattezza, precisione, musica: con il “non abbastanza”, io ho chiuso. Da questo momento, vivo l’assunzione definitiva dell’Immaginario, il suo trionfo». E l’Immaginario è ciò che mi guida e mi possiede, il suo indefinibile mondo. L’immaginario è il sogno, la sostanza di cui siamo fatti.
Qual è il ricordo (o un aneddoto) legato alla tua prima poesia?
Credo di aver avuto un’adolescenza inquieta – come molti, probabilmente – ma sfuocata. Insieme a un compagno di liceo andavo a Venezia, qualche foglio in tasca, una penna e una bottiglia di vino mimetizzata – si fa per dire – in un sacchetto di carta: pensavamo che l’eccesso fosse propedeutico e necessario alla scrittura. Venezia aveva il fascino decadente e malato di una festa carnascialesca, a tratti sguaiata, una città notturna dove la luna si affacciava a illuminare sinistra una calle deserta, lo sciabordio dell’acqua che rendeva imponderabile e malsicuro ogni passo. Avevamo la testa piena di poeti maledetti. Un bateau ivre che affonda. E io mi sentivo come l’albatro di Baudelaire, impacciata da quelle ali di cui non conoscevo, e non conosco tuttora, il volo. Si credeva, ingenuamente, alla licenza, all’eccezionalità. Ma per me era come un pensiero che non trovava centro. Un sintomo dell’adolescenza, di sicuro, ma anche qualcosa che deve essere conservato, una porta sul buio. «All I know is a door into the dark», dice Heaney. Una soglia che permette l’arrivo della memoria, non solo quella personale, e della poesia, in definitiva. Scrivevo poco anche allora, volevo vivere. I versi erano lugubri e popolati di immagini truculente. Niente di notevole, insomma. Li abbinavo ai disegni perché non avevo parole che squadrassero da ogni lato l’animo mio informe, direi con Montale. Un giorno, papà andò a frugare tra le mie cose e ne trasse il disegno di un cervello impiccato, accompagnato da qualche verso sibillino. Mi spedì seduta stante dalla psicologa! Ma gliene sono grata, non tanto per l’intrusione: per la possibilità di indagare nei meccanismi della psiche e nei suoi inceppi, nelle sue spirali stupefacenti. Molti anni dopo già sapevo che quella risorsa era disponibile. E alle mie psicologhe sono molto affezionata, perché, da junghiane, mi hanno fornito una chiave d’accesso all’anima e all’alterità. Il visitatore di Porlock di cui parla Coleridge, che impedisce il flusso del suo sogno poematico su Kubla Khan, è certamente uno scocciatore che dobbiamo ricevere in quanto rappresenta l’estraneo che è in noi e che ostacola la scrittura, in qualche modo, ce ne nega il permesso. L’uomo di Porlock è però anche la disciplina che bisogna imporsi, che nulla toglie al mondo enigmatico e pericoloso che abbiamo il dovere di nutrire, a cui bisogna concedere spazio. Dopodiché non ho più scritto nulla, a parte qualche verso estemporaneo e da rimuovere. Ho dovuto venire a patti con l’inadeguatezza e con il senso di colpa: «Qualcuno doveva aver calunniato Josef K., poiché un mattino, senza che avesse fatto nulla di male, egli fu arrestato». Si vive nell’eterno sospetto di una colpa da espiare. Anche oggi, le parole esce a fatica, quasi mi venissero strappate. Sono giovane per la scrittura, muovo i primi passi. E la strada è molto lunga.
Quali i poeti (e, più in generale, gli autori) significativi per la tua formazione?
Dando per scontato Shakespeare, sommo poeta (dei Sonetti ma anche nei drammi): T.S. Eliot. Ci torno sempre e ogni volta leggo qualcosa, anche solo un verso, un componimento, un saggio. Sicuramente, durante l’adolescenza leggevo molto di più i francesi e i russi. Senza dimenticare la Beat Generation. Caterina Ricciardi, che era la compagna del nonno e grande americanista, mi fece avere un libro sui Beat. Purtroppo è scomparsa da poco lasciando il rimpianto di non averla tenuta abbastanza vicina, negli ultimi anni. Ma i suoi scritti e la sua intelligenza acuta rimangono con me. E i classici, greci soprattutto. Non dimentico le aperture moderne su Kavafis che Margherita Sandri, la mia professoressa di greco, ci regalava. Una donna che ha fatto dell’insegnamento la sua missione, la grecità come ideale mai diluito: è grazie a lei se ho sentito il richiamo delle lettere. Ricordo la sua commozione, sempre discreta, nel tradurre l’incontro tra Nausicaa e Odisseo: la di lei giovinezza paragonata dal naufrago per eccellenza a un fusto nuovo di palma, il gioco della palla delle fanciulle al fiume, quella grazia; o le parole dolentissime di Alcesti che si sacrifica per il marito Admeto, l’addio al caro letto, lo sgomento. Un giorno mamma mi regalò Amore e Psiche di Apuleio (un librino stampato nella bella edizione Sellerio, che ha in copertina l’immagine di Antonio Canova). C’era una dedica: ‘Alla mia giovane e bella studiosa del passato, questa deliziosa fiaba’. Qualcosa di luminoso, quelle parole, che non mi abbandona. Quando avevo circa quindici anni, poi, tornarono a Vicenza la nonna e la zia. Ricordo che andavo tutti i pomeriggi nella casa che era stata dei bisnonni e in cui ho vissuto io, in questi ultimi anni: sentivo un’appartenenza speciale a quei luoghi, alle conversazioni che ascoltavo, affascinata, più che a quelle cialtronesche con gli amici. Nonna Mariapia mi dava da leggere Pavese, Vittorini, Ginzburg. Di lei mi parlava, ricordava come, stanca, si addormentasse sul loro divano, dopo cena. Poi lo stacco: la nostra storia familiare è travagliata. È da lì, credo, che si è spezzato qualcosa: non mi sembrava possibile continuare, non ne ero all’altezza. E mi sono dedicata al teatro. La mia formazione è quindi molto ibrida, asistematica e, come ho detto, tanto deve al teatro. A Pirandello, in un primo momento. Grande influenza hanno avuto certe atmosfere sature di Tennessee Williams, Sara Kane, Pinter o i vuoti paradossali e interroganti di Beckett. Cerco la parola che ricrei, o continui, il dialogo, anche quello apparentemente impossibile, o il rovello, l’anelito alla ricerca di significato, di un senso che basti. Come tutti cerco l’uomo, la sua radice, ma non nella quotidianità: nell’eccesso, il punto di rottura in cui il velo cade e denudata si rivela l’essenza. Che è anche coincidenza, aderenza a quel di più che comunque riguarda l’essere umano, nel limite che si apparenta al senza limite. Fluido. Un attimo brevissimo, l’accensione di una fiammella che tracci una scia certa. Il conforto di quella esperienza, la compenetrazione. L’entanglement. Si vive di quel reticolo. La «trama distramata», direbbe Roberto Mussapi. La struttura di canto e controcanto che siamo, incessantemente. Gli autori di riferimento sono diventati poi principalmente di area anglosassone. Quanto agisce Sylvia Plath: «Ma tu sapessi come ammazzano i miei giorni certi veli / che per te sono solo trasparenze, pura aria! / Invece sono, ahimè, quasi cotone le nuvole. / A eserciti. Sono ossido di carbonio»; quanto l’ha fatto La ballata del vecchio marinaio di Coleridge: «In quell’istante ebbi la forza di pregare, e giù dal collo, senza che lo toccassi, scivolò l’albatro, sprofondando come piombo dentro al mare»; e poi Melville, i suoi versi, la monomania di Achab, il «telaio del Tempo» e la spola di Ismaele, «macchinalmente assorta a tessere e ritessere i Fati», la sottrazione di Bartleby; Shelley e l’«anima gemella» che non si trova; Poe. C’è sempre un urto, un naufragio, la paura di colare a picco e ritrovarsi invece in un universo estraneo ma familiare, «into something rich and strange», dice Ariel nella Tempesta shakespeariana, a cui apparteniamo, che siamo nelle profondità abissali del nostro essere. Ma anche Lawrence Durrell con il suo Quartetto di Alessandria. Negli ultimi anni Javier Marias, la sua “logorrea” che torna e ritorna ad approfondire le cose. E ora Seamus Heaney e Alice Oswald. Il loro faro.
Quale (e per quali ragioni) poeta e relativi i versi che non dovremmo mai dimenticare?
‘Dieci agosto’, di Pascoli, mi è sempre rimasta in mente, non riesco a cancellare l’immagine di quella rondine uccisa e caduta tra spini, che tende, «come in croce», «quel verme a quel cielo lontano; / e il suo nido è nell’ombra, che attende, /che pigola sempre più piano»; l’uguale destino del padre, le bambole che portava in dono; e il nostro mondo come atomo opaco del male nel concavo cielo che sfavilla per il gran pianto. Non dovremmo dimenticare tutti coloro che hanno saputo trasformare un dolore annichilente in occasione di conoscenza, in testimonianza: «E t’amo, t’amo, ed è continuo schianto! …», scrive Ungaretti, o: «Disperazione che incessante aumenta / la vita non mi è più, / arrestata in fondo alla gola, / che una roccia di gridi». Non ci riconosciamo, forse, ancora, sempre? Non comprendiamo i versi di Milo De Angelis: «Sei un lontano passo di danza / mentre saluti tra i corridoi, / un ventaglio di grazia che il male / non ha ucciso, diagonale / tra i quattro cantoni, silenzio / di fate e di foglie, finché il giallo / si fa scuro, si fa minaccia nel cielo, / il sorriso fragile e la gola / resta lì, sospesa e selvaggia»? Chi ha cantato l’amore: «Siamo di gioia / disperata, né fiori dell’acanto né ponente / noi, ma l’elegia è compiuta ormai, / sognata, Siamo aridi, vinti, ma nell’ora / di questo tramontare ci è possibile / un canto», scrive Giuseppe Conte nel chiaroscuro che contrasta con i limpidissimi versi precedenti della sua ‘Elegia scritta nei giardini di Villa Hanbury’. Soprattutto non dobbiamo dimenticare i poeti del futuro, conservare memoria per loro perché possano ancora affondare generosamente radici nella terra dei padri: ripetere e ricordare sono atti fondanti che guardano al domani. E i padri non vanno uccisi, c’è un tempo per la contrapposizione, ma poi è necessaria la pietà di Enea, che quel padre se lo carica sulle spalle.
Qual è la tua ‘attuale’ ‘spiegazione/definizione’ di poesia?
Torno al tema del viaggio, l’illusione – forse – del viaggio sognato. Le immagini, quelle scaglie, riportano a un oltre del quotidiano. Si rimane abbacinati, e un po’ inebetiti, ma carichi d’ossigeno e quasi sospesi nel tempo, tutto si ferma e le dimensioni si aprono allo sguardo. Succede che il cuore allora si spalanchi, come in Heaney, e le linee di fuga si moltiplichino, i livelli di senso: chi è il tarlo e chi il tarlato? Montale ha scritto che il tarlo «da mesi probabilmente si nutre del pulviscolo / frutto del suo lavoro. Si direbbe che ignori / la mia esistenza, io non la sua. Io stesso / sto trivellando a mia insaputa un ceppo / che non conosco e che qualcuno osserva / infastidito dal cri cri che n’esce, / un qualcuno che tarla inconsapevole / del suo tarlante e così via in un lungo / cannocchiale di pezzi uno nell’altro». E poi: chi parla, chi ascolta? Sono frammenti da ricomporre. Alice Oswald, che apre la sua ultima raccolta, Nobody, con l’immagine di un telescopio, e di qualcuno che osserva l’inesausto bisogno di un viaggiatore, la cui mente continua a immaginarsi altrove, lì o là, e subito si proietta, scrive: «Fin dove un uomo può gridare attraverso l’acqua / e con ali respinte il suo grido / si sperde e più non lo si sente / e un altro uomo può sentire il lamento delle onde / ma la sua risposta / si dissolve in acqua come ovale di sapone». È un canto che riporta antiche e sempre rinnovate e attualissime storie, le nostre. Ché anche se singoli siamo una moltitudine, al nostro interno. E di storie ne abbiamo in quantità, basta solo intonare l’orecchio. Ecco che la poesia ha questo compito: suggerire la strada, affinare i sensi per farsi attraversare e abitare da quelle esperienze sonore in movimento. È una chiave d’accesso alla meraviglia. E con meraviglia non mi riferisco esclusivamente alle cose che sembrano più luminose. Il bianco può essere un inganno e il buio la più chiara delle notti. Ha scritto Shakespeare nel sonetto 132: «Amo i tuoi occhi, che come a compatirmi, / sapendo il mio tormento per il tuo sdegnoso cuore, / si son vestiti di nero e in amoroso lutto / guardano con dolce pietà alla mia pena. / E in verità non danno più splendore / né il celeste sole del mattino alle grigie guance / dell’oriente, né al cupo occidente la fulgida stella / annunziatrice della sera, di quanto i tuoi / lucenti occhi luttuosi diano al tuo volto. / E poiché il lutto ti dona grazia, lascia / che anche il tuo cuore porti il lutto per me, / e tutto in te si rivesta di pietà. / Allora giurerò che la bellezza stessa è nera, / e brutta ogni donna che non abbia la tua cera».
Quando una poesia può dirsi compiuta?
Solo quando non si può più spostare alcunché, bisogna abbandonarla, con fiducia se possibile. Sperando che non abbia ali posticce, la cera che si scioglie al sole; che non imiti, insomma, il volo di Icaro. Ma si compie definitivamente quando si accasa nell’orecchio di un altro. Ci si rende conto che l’addio è necessario. Più di questo non so dirti, per ora.
La poesia può (e se può in che modo) restituire purezza alla parola?
Ha un profumo l’acqua? Ha una sua purezza la parola? Certamente sì, ma è dalla combinazione degli elementi, dal loro accostamento, che la trae. La fonte che sprizza chiara emana l’odore del limo e ha in sé la marcescenza delle piante affogate dal suo impeto, è roccia, l’aria che incontra, l’animale che vi si bagna. «Tutto l’anno la fossa del lino suppurava nel cuore / del circondario; lino verde dalla testa greve / vi era macerato, sotto il peso di zolle enormi. / Ogni giorno sudava nel sole assillante. / Bolle gorgogliavano delicatamente, mosconi / tessevano una forte garza di suoni attorno all’odore. / C’erano libellule, farfalle maculate, / ma il meglio era la bava tiepida e spessa / delle uova di rana che crescevano come acqua coagulata / all’ombra degli argini». È Seamus Heaney, che conclude la sua prima raccolta poetica, Morte di un naturalista, così: «Adesso, curiosare tra radici, tastare il limo, / contemplare, Narciso dai grandi occhi, qualche sorgente / va oltre ogni dignità di adulto. Rimo / per potermi vedere, per rendere il buio echeggiante». Che altro posso dire, io, se non che la parola deve essere autentica, esprimere un anelito irrinunciabile, indifferibile?
“splende ancora il sole / e in me s’allarga la notte / s’allaga e madida dilaga / nei miei crepuscoli di versi”. Con i tuoi versi per chiederti: qual è (ammesso ne abbia uno) l’incarico della poesia?
Ti rispondo con T.S.Eliot: la poesia deve dare piacere perché, in primis, ha a che fare con l’espressione del sentimento e dell’emozione. E la possibilità di un riconoscimento. Amplia la consapevolezza e affina la sensibilità. La poesia ha a che fare con l’uso corrente della lingua, ma ha anche il dovere di arricchirlo, perché la sua musica non è qualcosa che esista al di là del significato, deve poter comunicare. Il problema con le lingue straniere è che ci si deve trasformare, si deve accettare di essere altro o altri. E non tutti sono disposti al salto, a quell’invasione. Ma questo è il problema di tutta la poesia, che spinge a indagare e vivere la quotidianità come atto rivelatorio. Oltre la rivelazione c’è il nuovo o lo sconosciuto, sicuramente il punto di vista inconsueto, si fa lo sgambetto al reale e si penetra nel regno dell’inarticolato. La poesia, poi, deve rendere conto dello stallo e della paralisi, dello sconcerto di ciò che non torna. E dunque dello scacco. Del fatto che siamo viaggiatori impauriti, pur se coraggiosi, che affrontano la discesa nel mondo in cui sono gettati tentando di riafferrare la scintilla, appunto. Come dice Alice Oswald nel suo Memorial (che uscirà in Italia con la traduzione mia e di Marco Sonzogni) siamo così: «Come quando dio spicca una stella / E tutti in alto alzan lo sguardo / Per vederne sfavillare la frusta / Che già non c’è più».
Riporteresti una poesia o uno stralcio di testo (di altri autori) nel quale all’occorrenza ami rifugiarti?
«Povera anima, centro della mia creta peccaminosa, / stretta da queste forze ribelli che t’assediano, / perché dentro patisci e soffri carestia, / ornando le tue mura con così costoso sfarzo? / Perché, con un affitto così breve, paghi / un prezzo così alto per la tua effimera dimora? / Toccherà ai vermi, eredi di tanto spreco, divorare / i tuoi lussi? Questo il destino del tuo corpo? / E dunque, anima, nutriti delle privazioni del tuo servo, / e lascialo stentare per aumentare le tue scorte; / compra, vendendo ore di scorie, eternità divina; / e sii nutrita dentro; fuori, mai più sfarzosa. / Così di Morte, che d’uomini si nutre, ti potrai nutrire, / e morta la Morte, non ci sarà più morire». È il sonetto 146 di Shakespeare, l’unico sacro, avvicinato agli Holy Sonnets di John Donne. Un conforto potente, un antidoto contro i giorni bui, quando sembra che niente abbia un respiro alto.
Per concludere, ti invito, per salutare i nostri lettori, a scegliere una tua poesia dal recente libro e, nel contempo, ti invito a portarci a ritroso nel tempo, a prima della stesura completa o della prima stesura, per raccontarci quanto “accaduto” così da permetterci di condividere (e meglio comprendere) il percorso che l’ha vista nascere.
*
così dal buio senza tempo
emerse il dettagliato tempo di noi,
l’incisione che sbozza nell’istante
le parole, nostre
queste che io ti dico, le tue
e quelle che per giorni
abbiamo gettato al vento,
quelle vane che ci han portato
fin su questo palco,
il molteplice filtrando
dal setaccio di altri corpi
fu allora, in quel tempo
senza inizio e che iniziava,
che l’immenso animale universale
gravido e sbuffante
concepì l’ambiguità e la doppiezza
era ancora tutt’uno
e si franse
così l’uomo, atomo
tra gli atomi, a riveder
le stelle inconcepibili,
alte nel tamburo dei timori
che lo mettevano a nudo
denunciando vita lucida
non priva di malizia
non trovò dio
in quell’istante
di lui non aveva ancora bisogno
ma sentì l’urgenza della donna
la trovò fremente al suo interno
o lo fece la donna con l’uomo
donna con cui doppiare il parto
e così popolare la terra brulla
quel suo vergognoso e inesplorato deserto
di corpi dapprima
passione cieca e inesausta,
corpi ineguali e anelanti
nel di lui cercare il varco,
stampo e marchio,
nel di lei disporsi all’accoglienza
nonostante l’inane battaglia –
nonostante –
perché già intuiva che la perversa battaglia
era ormai vinta e persa
il verbo fu,
prima della comparsa dell’uomo,
le streghe furono
e predissero questo: ritrovarsi
when the hurlyburly’s done
when the battle’s lost and won
Come dicevo in apertura, è da tempo che ragiono su Macbeth. Qualche anno fa, tornata a Vicenza, mi sono imbattuta in un amico del liceo, Livio Pacella. Poeta maledetto e filosofo ballerino, ama definirsi. Artista talentuoso e dalla dubbia reputazione, di quelli che si incontrano solo nei peggiori bar di Caracas… (scherzo ma non troppo). Mi ha offerto di lavorare sul testo, di portarlo in scena. Il patto prevedeva che avrei fatto la regia con lui. Ogni settimana ci incontravamo, prima di vedere quei santi ragazzi, ignari di quello che stavamo macchinando, per parlare, smontare il meccanismo shakespeariano, aprire nuovi percorsi – i nostri discorsi infiniti. I fili si moltiplicavano, si aggrovigliavano, i testi presi in esame aumentavano a dismisura. Dell’amore, quel maledetto imbroglio, io dovevo capire qualcosa, un rispecchiamento che all’improvviso mi è apparso quando Livio ha letto un passo dai Canti di Maldoror di Lautreamont: «Cercavo un’anima che mi somigliasse, e non riuscivo a trovarla»… Maldoror assiste con voluttà perversa al naufragio di una nave, uccide uno dei superstiti, gli altri vengono straziati dai denti dei pescecani. E poi, ecco che arriva un’enorme femmina di squalo furibonda per la fame. Maldoror la difende dagli altri pescecani, pugnalandoli, e in quell’incontro tra le acque sanguinolente i due riconoscono di avere la stessa ferocia negli occhi. Segue un amplesso bestiale, aberrante, tra lampi e l’onda che schiuma, ma che fa esclamare a Maldoror: «Finalmente avevo trovato qualcuno che mi rassomigliava!… Ormai non ero più solo nella vita!… Lei aveva le mie stesse idee!… Ero al cospetto del mio primo amore!» Potevo negare che questo avesse molto a che fare con la mia coppia demoniaca? Possiamo negare che sia, anche nella sua impudicizia, amore? Una faccenda complicata, molto, che Shakespeare, nel sonetto 129, descrive come pazza nella caccia come nel possesso;/ cercando di avere, avendo e avendo avuto, estrema;/ una beatitudine nell’atto, e, compiutolo, una pena;/ prima, una gioia sperata; dopo, un sogno. Non siamo mai arrivati a sciogliere quel groviglio col setaccio di altri corpi, quello vivo degli attori, ma io avevo cominciato a scrivere e, nel tempo, qualcosa ha preso forma, chiedeva di non essere silenziata. Vi ho messo dentro la vita che mi apparteneva, usando il guscio shakespeariano come mezzo di contrasto. Devo moltissimo a Marco Sonzogni se i versi hanno poi preso la via senza ritorno che hanno ora, la sua fiducia e la cura che vi ha dedicato mi hanno spinto ad abbandonare dubbi e indugi. A Maria Borio va il mio ringraziamento per avermi fatto riflettere sul titolo: Nerotonia è il frutto di quella conversazione.
(la versione ridotta di questa intervista a cura di Grazia Calanna, è apparsa sul quotidiano LA SICILIA del 12.07.2020 pagina Cultura, rubrica “Ridenti e Fuggitivi”).