Asteroidi D’inchiostro
“libri come corpi celesti persi nello spazio dell’indifferenza”
Perché è riuscita a spiazzarmi Yasmina Reza in questo suo Babilonia? Il mio entusiasmo in maggior parte è dovuto alla costruzione della trama, alla sua varietà di stili, anche se penso che questo libro non abbia uno stile rintracciabile in natura semantica ma nella sua ibrida natura confessionale, è la voce del bene che nel suo atto più estremo prova ad indossare l’inquietudine del male. La Reza conosciutissima drammaturga scrittrice e sceneggiatrice francese è abile per queste tessiture con colpi di scena, e in Babilonia si nasconde la crisalide concettuale di tutte le sue prove precedenti. All’improvviso in questo testo si assiste a una metamorfosi creativa che mette le ali per spiccare oltre ogni banalizzazione narrativa. La volontà filosofica della trama viene quasi sovrastata da una bizzarra disperazione noir. La sua voce di drammaturga diventa il pretesto per indagare sulla solitudine umana. Una specie di poetica del male, come scritto in precedenza, sembra soccombere nel sorriso amaro di una vicenda ai limiti del grottesco. In tutto il libro vige la regola dell’amicizia, mentre la domanda ricorrente è: quanto si può spingere il rapporto di due individui, intimi di confessioni, affini per nostalgia e fallimenti, quando la follia irrompe nell’abitudine di sopravviversi? I protagonisti di questo romanzo sono pochi e la maggior parte si muovono da spettatori ignari eppure complici di aver alimentato nella vita dei loro cari la scintilla della crisi. Così la Reza si cala con dovizia d’analista nelle vite di questi due strani amici e vicini di casa. Elisabeth è una donna abbastanza appagata, almeno non prima che il rapporto con il suo vicino Jean Lino, la faccia sprofondare in un chiaroscuro di misteri interiori, da quel momento si sente come murata dalla banalità e quasi obbligata a scoprire le verità altrui, fino a rimanerne a tratti sedotta dalla solitudine del suo amico. Babilonia è un libro di confessioni, un lento e inesorabile appuntamento con la crudeltà, un andare verso la cima del male. C’è una trama eppure no, e forse sono soltanto quella di Elisabeth e di Jean Lino solitudini che riavvolgono il nastro del tempo, sembrano come immobili dinnanzi alla colonna sonora di un film al quale appartengono, ma sarà il colpo di scena finale a renderli coprotagonisti di un unico fallimento, quello di non esser riusciti a guardare la luce del riscatto insieme. La prospettiva in fondo non cambia, per gli esseri umani soli, nonostante attorno a loro la piovra dei legami smuova un’apparente felicità, ogni loro idea, istinto, confluisce sempre nell’inadeguatezza. E appare quasi inevitabile il risultato di questa amicizia nata da una affinità di carenze, di bisogni e di sdegno verso le miserie dell’uomo ormai cannibalizzato dalla mediocrità piccolo borghese. La Reza si cala nel dramma della vita cruda, come pochi scrittrici del suo tempo, incarna le debolezze umane messe a nudo dai giorni tristi, quando comunicare con la gioia è una trappola di legami sterili, di piccole follie che alimentano quella bestia interiore che quando meno te l’aspetti lascerà esplodere l’aggressività sulle falsi morali, toccherà quel punto di rottura dove anche l’omicidio diventa un gesto consolatorio, giustificabile, teneramente riconoscibile nelle disgressioni di un uomo schiacciato dal dolore. Nella parola affilata, arguta, precisa per essere allo stesso tempo dissacrante, l’autrice ristabilisce le condizioni e il caos di quella sensazione che abitualmente chiamiamo felicità. Perché in fondo è questo quello che si chiedono Elisabeth e Jean Lino, se sono in quel punto esatto della loro esistenza felici abbastanza. Ma la felicità è qualcosa che si ramifica nel presente e in qualche modo loro quello che fanno è guardarsi intorno fino a scorgere dalle insidie dell’infanzia un’icona d’infelicità che con la solitudine taciuta trasforma le confessioni in cerimonia e volontà di aggrapparsi ad un interlocutore con un atto quasi spirituale. E in questa sorta globale “del tirare a campare” è bello leggere pagine in cui l’ossessione di catalogarsi nella vasta gamma degli esseri umani pone il diritto di essere sublimi di se stessi, anime che cercano fino in fondo i luoghi della verità. Ogni mattina davanti allo specchio (ho anch’io un lavoro, delle aspettative e già l’età per qualche consuntivo) dopo aver letto e riflettuto su questo libro, mi chiederò se ho avuto quello che ho atteso, se sono appagato dal sole che svolta timido l’angolo della routine. Farò della felicità il siero per contrastare il veleno delle tenebre oppure riporterò indietro le rughe per ricominciare lì dove si è inceppata la memoria. Risucchiati dallo sguardo infantile per indagare sulla primissima sensazione in cui credevamo di essere felici per sempre, e se fosse questo quello che ci chiede la Reza?
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