Felice Casorati, Le due bambine





Compaiono all’improvviso questi granelli in uno spazio vuoto della mente, poi si addensano in zolle e brani, vengono voltati e rivoltati, premuti con i palmi e con le dita, fino a che non ho una sensazione di durata, di stabilità: quando mi sembra che possano reggere interamente il mio peso, allora vi poggio un piede dopo l’altro, vi abito. Sono la mia terra. Poi continuo con l’orecchio a vegliare le crepe e i fruscii di crollo finché non finisco davvero per affidarmi a loro. Così si compiono i versi, così si forma questo continente in cui viviamo dopo il naufragio delle nostre esistenze.

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Si scrivono versi come camminando a tentoni nel buio. Si procede per tentativi e ritorni, con la cautela di non cadere, di non ferirsi. I versi sono la mia terra. La poesia è il continente d’aria che abitiamo tra un naufragio e l’altro delle nostre esistenze.

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Può sembrare un atto di ostinazione senza speranza scrivere poesia nei nostri anni. Una stupenda poesia di Giovanni Giudici, Alcuni, dice bene l’insania tenace che muove alcuni fragili e solitari, sordi ai richiami della concretezza. Ed è “pensando a loro”, intingendo la penna in questa piccola cerchia di consanguinei e fratelli, che è possibile scrivere, nonostante tutto. Credo sia impossibile scrivere oggi ignorando la forte barriera di silenzio che c’è attorno alla parola poetica. Oggi più che mai la poesia è una rosa del deserto, un piccolo miracolo che continua a compiersi, per pochi o quasi per nessuno. Dunque scrivo pensando a questo vuoto che ci circonda e pensando ai maestri che lo hanno attraversato.

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Ci sono istanti di incandescenza in cui veniamo toccati da qualcosa, in cui incontriamo qualcosa. Tutto il lavorio che viene dopo, la cosiddetta “officina” del poeta, si regge, per me, su un filo sottilissimo teso tra istinto, ossessione e pazienza. La poesia è così viva che può sembrare una presunzione contenerla in una forma definitiva. E, una volta compiuto questo difficile e duro lavoro, ci si trova a guardarla con lo stupore e la pena con cui si torna a fare visita agli animali in gabbia, augurandosi che non si ammalino, che la loro esistenza continui il più possibile felice, adattandosi ai confini di quel nuovo spazio.

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La poesia ci apre all’ascolto di questo ritmo silenzioso che tesse la nostra vita e che si rivela solo in alcuni istanti di apertura e di gioia attraverso cui può arrivarci una parola, un verso, l’inizio di una poesia. La poesia stessa nasce da una ripetizione, da una cadenza che culliamo in noi, mentre continuiamo ad occuparci delle piccole e grandi cose di ogni giorno. Attraversiamo l’esistenza cercando di mantenere sempre questa intercapedine di luce. Spesso mi capita di uscire a camminare con il cane o di mettermi a lavare i piatti o a fare qualche altra faccenda domestica proprio mentre sento dentro di me, confusamente, che qualcosa sta cercando di nascere, che qualcosa bussa e chiede sperando che gli apra una porta.

(l’EstroVerso Settembre – Ottobre 2012)

 

 

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