Carla Saracino, «Quest’ora dell’estate», un’«ode» alla stagione che «ci permette di ridiventare noi stessi».

Carla Saracino è di Maruggio (Taranto). In poesia ha scritto “I milioni di luoghi” (LietoColle, 2007. Premio Saba Opera prima), “Il chiarore” (LietoColle, 2013), “Qualcosa di inabitato” insieme a Stelvio Di Spigno (Edb, 2014), “Paesaggio” (Gattili, 2018). Ha scritto anche dei libri per bambini, tra cui “Gli orologi del paese di Zaulù” (Lupo, 2012), “Fiabe lombarde” (Pane e Sale, 2018), “Il mare è…” (Kurumuny, 2021), “Un giorno come gli altri” (Kurumuny, 2021). Scrive per la rivista digitale Monolith monolithvolume.com e per L’estroverso cura la rubrica La rosa necessaria

 

l’intervista di Andrea Leone

 

Una domanda inevitabile quando siamo di fronte a un terzo libro. Come vedi l’evoluzione, il cambiamento (se ci sono stati) tra le tue tre opere di poesia?

Considerando che la scrittura sa nascondersi in un riserbo inesplorabile, non riesco ad intravedere nelle mie poesie una eventuale “evoluzione”. Non so neppure se la voglio. Piuttosto, cerco la messa a fuoco. E questa, lentamente, mi sta offrendo il pregio di rivelarsi; l’atto del mettere a fuoco si sta sostituendo alla visione istantanea. Sono riuscita a concentrare e ad affinare l’istinto dello sguardo, che si è educato a non essere solamente un mezzo ma pure una definitiva e conclusiva presenza. Questo mi ha permesso, nel tempo, di avere meno paura di interpretare la realtà attraverso un modo, il mio, del tutto personale e libero dai giudizi altrui. 

 Una categoria interiore che mi sembra permeare tutta l’opera è quella di “anima”, parola dal significato ambiguo e probabilmente abusata, che forse solo James Hillman ha saputo inquadrare esattamente. Ti riconosci in questa categoria e cosa significa esattamente per te?

È vero, esistono delle parole abusate ed “anima” è forse una di queste. Contribuendo involontariamente all’abuso, ugualmente me ne distacco, perché per me la parola anima non ha nessuna direzione di senso artificioso o retorico. Ho apprezzato moltissimo Il codice dell’anima di James Hillman e sono sedotta, come tanti, dai suoi studi sul daimon, sulla chiamata, sulla vocazione. Ma in questo libro l’anima è una condizione, precaria e fragile, di compartecipazione alle cose; uno stato dell’attenzione, avventuroso e sotterraneo, intensamente vigile, generoso, proteso a vivere, ad essere partecipe o ad autoescludersi, a seconda delle esperienze. Ha a che fare con una tensione verso la compassione e l’ammirazione (sentimenti che reputo tanto nobili quanto rari): è l’arma bianca con cui mi illudo di difendere le persone e i luoghi che amo dalla decadenza e dalla rovina del tempo.

Mi sembra sia un libro molto unitario, non una semplice raccolta di liriche, cioè di “momenti”. Sembra che ogni immagine e ogni parola partano da uno stesso luogo originario.  Qual è secondo te l’elemento strutturale, lo schema centrale che costituisce l’ossatura del libro?

La struttura portante è il tempo. Nella raccolta si sviluppa circolarmente, si chiama e si rievoca, spoglia e riveste il suo stesso nome, mirandosi a uno specchio che è la prova, anche, del suo narcisismo. È una strana creatura, il tempo: ci sono giorni in cui non lo sento, non lo percepisco, non esiste. Penso a quel che è stato, ai miei antenati, ed ho la certezza che potrei raggiungerli all’istante o mi convinco di averli appena intravisti. Viceversa, ci sono giorni in cui il tempo piomba irreversibilmente sul presente: lo leggo sul mio volto, su quello dei miei cari, sul corpo di chiunque, sull’organo corpo della realtà. Delle altre volte ancora mi capita di pensare che l’invecchiamento delle cose accada per eccedenza di espressione: quella che ci espande e ci fa essere; che, allo stesso modo, ci misura e confina. E questa percezione mi accade di sentirla d’estate, una stagione controversa, amata o odiata, eppure l’unica che ci permette di ridiventare noi stessi, nello spazio della vacanza, del vacante tempo che allaga nelle ore in cui possiamo ritrovarci e non siamo più preda delle iperattività del contemporaneo. 

 

Un’immagine ricorrente è quella della casa, anzi il libro sembra una “casa”, ma con lo sguardo rivolto ad una finestra e quindi all’esterno. Ti sembra appropriata la metafora della casa come opera, cioè come scrittura?

Sì, sicuramente. La scrittura è tale quando trova una collocazione propria, unica, irrevocabile. Nasce dagli interstizi. Come per le case, quando emettono suoni misteriosi e si aprono alle crepe, alle forre, ai passaggi di vento o alle voci lontane. In questo libro la casa è il contenitore simbolico della mia scrittura, la pagina in cui le cose accadono, i sentimenti si irradiano, prendono nuova vita dalla cenere, dalle metamorfosi, dalle feste e dalle mestizie. Mi interessano i “passati imminenti”, come direbbe il poeta Carlos Barral; mi appassionano le storie di famiglia, i vuoti che si stringono intorno all’ombra della memoria e mutano in testimonianze di contrasto, di crisi, di straordinarietà; mi interessano le persone che amano intensamente e tentano, malgrado tutto, di partecipare della felicità, che è sempre istantanea. Tutte queste cose convivono in uno spazio elettivo quale è da sempre, anticamente, la casa: la casa di ognuno, dalla dimora abitata fino a quella estrema, la casa del Genio e del Cuore.

Una parola interessante, che forse dà il tono musicale al libro, è “remissione”. Cosa puoi dire a questo riguardo?

Sono legata a questa parola, nata di impulso dentro me. Non ha nessun significato morale o pedagogico. Ha a che fare con l’abbandono, la resa, il placare, il concedere: cose che mi piacciono molto nella relazione con l’esterno. Penso sia essenziale, venendo alla luce, darsi, consumarsi, ridursi per eccesso di espressione, offrire il meglio di sé, cercando fino in fondo l’avventura della “crescita”. Mi sembra quasi un dovere verso se stessi e gli altri; prima ancora, un innocente atto di bellezza.

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