Emma La Spina l'estroverso

Anteprima

Divido il mio tempo tra lavoro e impegni nei riguardi di persone che hanno bisogno di me. Una parte importante è dedicata alla scrittura e alla lettura. Mi piace suonare la chitarra e ascoltare musica quando è possibile e in momenti particolari. Ultimamente ho scoperto la musica dei Beach House, un gruppo dream pop americano. Il mio lavoro di collaboratrice scolastica va ben oltre la semplice espletazione di compiti e doveri. Occupandomi dei ragazzi, travalico ogni giorno gli standard scolastici. Se noto un disagio o problemi in un alunno cerco di capirne il motivo e, se possibile, intervengo aiutandolo, mettendomi a sua disposizione. E ciò quasi sempre al di fuori dell’orario di lavoro. Mi ero accorta, per esempio, che due sorelle gemelle cinesi avevano difficoltà a scuola e rischiavano di perdere l’anno. Sono entrata nel loro mondo, difficile e, a tratti, per noi incomprensibile, e ho avuto modo di comprendere meglio i problemi che deve affrontare la comunità cinese a Catania. È stata una grande gioia riuscire a mediare tra il nostro e il loro mondo. C’è poi il tempo dedicato ai miei nipotini, dato che sono felice nonna di tre bambini, due dei quali, purtroppo vivono in Inghilterra, ma la terza vive a Catania ed è fonte di immensa gioia. Per evadere strimpello con la chitarra e compongo canzoni che, per pudore, tengo soltanto per me. La chitarra ha origini lontane, nella mia infanzia, quando suonarla aveva un significato di rivalsa. Fin quando un’arcigna persona, innominabile, me l’ha fatta distruggere. La chitarra, il ricordo di un giovane biondo, infelice, morto a vent’anni tragicamente, il fratello mio del cuore mai conosciuto. È la somma di tutto ciò e di altro ancora che mi dà fortissime emozioni, mi libera la mente e mi regala attimi di felicità. È strano, ma le musiche e le parole che si cantavano in chiesa, che prima odiavo, perché imposte, adesso le amo. Le amo per l’altezza del suono e la profondità delle parole. Odo ancora la voce alta e chiara della mia bella e sfortunata sorella, benedetta da Dio nella voce e nell’abilità del suono. Sento ancora le note da uccello del paradiso volare alte per le sacre volte della chiesa. Benedetta da Dio, mia sorella, per queste qualità, e poi da Lui abbandonata, o forse, da Lui voluta al suo fianco? Mistero! La lettura per me è divenuta, adesso, una necessità. I miei libri sono particolari, si può dire: “a tema unico”, per cui penso di essere una scrittrice atipica. I miei libri costituiscono uno squarcio nei muri dei bui istituti carichi di angoscia, uno strappo violento alle coscienze, per troppo tempo all’oscuro dei drammi di persone indifese e perseguitate. Dopo la divulgazione dei miei due libri ho assistito a un’incredula presa di posizione da parte di tante persone. Quante volte ho sentito le parole: “Non sapevo, non credevo”. Soltanto qualcuno si è caparbiamente messo in difesa con le parole: “Non posso crederci”, o forse, avrebbe dovuto dire: “Non voglio crederci”. Il successo dei miei libri costituisce per me un particolare riconoscimento, non dico dal punto di vista letterario, semplicemente come persona: finalmente esisto, ho una mia identità. Quante mie compagne sono scomparse nel nulla, come se non fossero mai esistite. Io posso dire orgogliosamente: “Esisto, sono parte della società”. Giustizia, mi aspetto. Giustizia che non è mai arrivata. La giustizia, quella vera, la stabilisce soltanto l’Eterno, quaggiù è merce di scambio, vendibile al migliore offerente, preda di avvocati senza scrupoli, che proteggendo individui danarosi, infliggono alle vittime pene ancora maggiori. Questi avvocati, abili azzeccagarbugli, confondono i fatti e fanno trionfare l’ingiustizia. La mia passione per lo scrivere è nata da una fortissima esigenza: rompere il silenzio, far conoscere a tutti un mondo sommerso, il mio mondo. Sola, senza un’anima a cui confidare le mie angosce e le mie sofferenze. Il mio primo libro l’ho rivolto a Dio, come una ripicca. Le suore dicevano: “Siamo nati per soffrire”, e io ci credevo. Poi, il libro chiese disperatamente a Lui: “Perché”, senza ottenere risposta. Dopo l’inaspettata e fortemente voluta pubblicazione, ecco che il mio sogno di apertura, di divulgazione, diveniva realtà. Tanti ora sanno, dopo assordanti silenzi, cosa è successo ai mille e poi mille, e poi mille bambini degli orfanotrofi. Preciso che non ho scritto come “fatto liberatorio”, come sfogo, perché mai riuscirò, riusciremo, io e le mie compagne a esorcizzare le sofferenze della nostra vita. Non sono d’accordo con gli psicologi che sostengono che la scrittura, questa scrittura, sia terapeutica. Non lo è per nulla, è soltanto un rinverdire le sofferenze. Ho scritto come denuncia e riscatto. Oggi non è possibile dare un significato univoco allo scrivere. Gli editori, al giorno di oggi, pubblicano i libri come beni di consumo. Ne stampano un certo numero di copie, cercano di venderle tutte e poi mettono l’opera fuori produzione. Ci sono poi le opere d’arte, la vera e propria letteratura. Sono casi rari che vengono scoperti con difficoltà. C’è poi chi scrive per un bisogno intimo di divulgazione o di riscatto, come nel mio caso. La mia personale interpretazione della scrittura è quella di aprire alla società mondi sconosciuti, mondi di sofferenze, a noi vicini nello spazio, ma lontani nel cuore. Come fossi una bambola, narra della vita di quattro donne unite dalla sorte per aver vissuto l’infanzia nello stesso istituto per bambini abbandonati. Costrette da piccole all’istituto come per scontare una pena non loro, le bambine, per una strana alchimia, si sono avvicinate pur avendo caratteri totalmente diversi. Il libro parla del loro divenire adolescenti, del fiorire della loro gioventù tra mura impenetrabili, e poi, la strana libertà dei giorni di scuola in cui il ferreo controllo veniva facilmente eluso permettendo ad uomini senza scrupoli di approfittare delle ingenue fanciulle con qualche spicciolo e regalini di poco conto. Ognuna delle ragazze subisce il trauma dell’abbandono, della “cacciata” dalla casa che le aveva custodite con truce cipiglio, a diciotto anni e un giorno. Ed ecco che le loro vite divergono, pur rimanendo unico il loro destino. Perché questo libro dopo i primi due che sono la mia autobiografia? Ho voluto dimostrare tramite il racconto, vero, della vita di queste mie quattro compagne di istituto, che le sofferenze, le devianze dell’orfanotrofio hanno conseguenze nel tempo, ben al di la dell’infanzia. Chi è vissuto in un istituto per bambini abbandonati, riceve impresso nel suo spirito un marchio indelebile, che lo porterà sicuramente a una esistenza e a una fine infelici. I meno forti divengono veri e propri mostri (il Melo del libro), gli altri saranno preda di turbe psichiche più o meno manifeste.

 

copertina come fossi una bambola su l'estroverso Piemme

 Alla sinossi, segue (in corsivo) un passo dal libro, Come fossi una bambola, Piemme, collana Saggistica, serie Voci.

Sarebbe bello fosse una storia d’altri tempi, quella di Giovanna, Simona, Tiziana e Barbara. Invece è drammaticamente recente. Tutte e quattro hanno vissuto l’infanzia in un istituto religioso per bambine abbandonate. Tutte uguali, come sfornate con lo stampino, i vestitini bianchi e i capelli a caschetto, tagliati con la scodella. Uno stampino che gli hanno imposto a forza. Con in fondo al cuore il bisogno disperato di una mamma e la dura realtà quotidiana da affrontare, fatta di solitudine, durezza e privazione. Scontano la pena di essere figlie di una qualche colpa, con l’oscura consapevolezza che un posto sicuro per loro forse non ci sarà mai. Tiziana aveva una bambola senza un braccio che le dava sicurezza mentre assisteva al via vai di uomini in casa, «stai buona che mamma lavora». Poi un giorno le hanno tolto entrambe, mamma e bambola, senza darle niente in cambio, solo gelo. Meglio non averla mai conosciuta o non ricordarsela più, la mamma. Come Giovanna, Simona e Barbara, gettate via da donne che il parto non ha reso madri. I loro sogni non dovranno mai fare i conti con la realtà. Bambine, ragazze e poi donne, insieme fin da quando hanno memoria, senza mai essere davvero amiche perché nella giungla c’è spazio solo per la lotta alla sopravvivenza. Intrecceranno i loro destini, diversi ma in fondo uguali: amori facili, violenti e umilianti, il corpo e il cuore sempre in svendita. Perché è facile diventare e restare vittime alla mercé di chiunque quando non si è state amate.

*

La sera, quando Melo c’è, la usa per soddisfare i suoi istinti, come fosse una bambola. Non gli interessa se non si lava ed è sporca. La spoglia, la prende senza tanti riguardi e si addormenta soddisfatto.
Giovanna rimane lì nuda nel letto a fissare il soffitto, finché il freddo non prende il sopravvento. Allora si tira addosso la coperta sudicia e sprofonda in qualcosa di simile al sonno.

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