È tutta questione di visibilità.20
Una mini intervista e qualche (spero) luogo comune.

Perché continuo a scrivere?

Per entrare nella storia della letteratura? Chiudendo gli occhi, riesco a immaginarmi tutta la gloria possibile, tutti i riconoscimenti, i like, i followers, le foto, l’espressione appesa a quel ché di misterioso cenno, in equilibrio fra un’ipotesi di densità di conferme e una miseria desolante. E scendendo dallo sgabello, riconoscere intorno la stanza dell’inizio, lo stesso pallore. Scrivere è ricominciare da capo ogni volta. Che razza di realizzazione o traguardi sono quelli offerti dalla scrittura? Un elenco di libri, magari molti, un via vai di relazioni, treni, festival, videocamere, premi Nobel? Non vorrei però diventare una volpe davanti all’uva.
Ora, che sto sistemando un prossimo libro, ho le preoccupazioni di tutti e non me ne vergogno: qualcuno lo leggerà? Qualcuno ne parlerà? E qualcuno rimarrà colpito da quello che ho scritto, si commuoverà etc?
Qualsiasi cosa possa accadere, anche mettessi in campo tutte le strategie possibili per “venderlo”, non potrei aggiungere o modificare un verso. Questo è il lato più drammatico: accettare la propria altezza (165 cm ad esempio).
Sono due ora le visibilità in campo, quella dell’autore e quella dell’opera. Il guaio è quando appaiono mischiate. Scrivere per essere visibili come persone (mors tua vita mea? o tutti visibili alla pari?), non fa venir voglia di aggiungere strategie di comunicazione, semmai fa venir voglia di mollare, di lasciare la trincea. Non può essere questa, la guerra per essere una persona, per esistere.
Eppure soffro come tutti per la mancanza di attenzione e, se capita, confondo il disinteresse verso l’opera (presupponendo che ci sia) con il disinteresse verso di me. (Sparare sull’opera e non beccare anche l’autore oggi è un colpo da professionisti).
Pensare che l’amicizia di una persona dipenda o meno dalla qualità del libro che ho scritto equivale, non a incensarsi, ma ad abbassare il proprio valore di persone. È il contrario dell’egocentrismo, è la paura di sé nudi e crudi. “Valgo qualcosa perché ho scritto un libro”, anche belloccio, è una riduzione dell’umano che siamo a ciò che facciamo. Credo sia una trappola, non mi convince. Essere importanti che significa? Tenersi stretti l’opera per essere chiamati con i microfoni, attraversando la vita su un tappeto, fra i viventi anonimi?
Quando tutti salgono su un palcoscenico il pubblico scappa perché si sente sfigato: come… tutti importanti e io non sono nessuno? Ma il libro non parlava dell’orologiaio, del falegname, dell’operaio…il protagonista è chiunque, non l’autore in quanto dotato di talento letterario. Il protagonista (o colui di cui si parla, il tu) non ha talenti letterari. La letteratura scritta da questo punto di vista è democratica e portatrice di giustizia: a ognuno il suo (dignitoso pezzo di vita da vivere).
Per fortuna si scivola quotidianamente dall’essere autori all’essere lettori. Capisco che devo essere più lettrice che autrice, per salvarmi dal gorgo della realizzazione attraverso le opere. Non sto parlando di Lutero o di Dio che alla fine conta i libri e li valuta. Povero Dio, se dovesse capitare. Inoltre sarebbe una gara fra scrittori. E perché? Eppure invidie, frustrazioni, sentirsi in periferie, spesso mangiano il tempo.
Sulla moralità dell’artista poi non mi pronuncio, come non mi pronuncio sulla moralità di nessuno. Leggo le poesie dei carcerati, la cui qualità non credo dipenda dalle condanne. La moralità dell’opera è un tasto più delicato.
Cercare di dare visibilità al proprio lavoro non è segno di auto-referenzialità, ma solo indica che il libro è nato per essere letto. Raggiungere il lettore è oggi davvero complicato e si usano soprattutto i social. Una volta intaccato il lettore, la poesia viaggia sotto terra, non si appoggia agli altri media, è per se stessa un manufatto già equipaggiato per fare il suo giro. Tempo fa pensavo a Facebook come al grande inceneritore perché, accanto alle cazzate, faceva vedere il meglio della produzione letteraria italiana scivolare via, con quella triste vita giornaliera. Ora penso che la poesia viaggi entrando nella misteriosa e misericordiosa quotidianità di qualcuno ed è solo lì che diventa visibile, forse stabile. La moria di versi, minuto dopo minuto, sui social è una morte apparente. Anche se qui mi viene in mente la frase che disse, ormai vecchio, San Tommaso sulla sua immensa opera: “mi sembra paglia”.
Ma il disinteresse verso la poesia credo abbia radici più profonde e non sia da sottovalutare o risolvere come puro meccanismo psicologico. Prima ho parlato della dolorosa frase “tu non mi interessi” travasata, per osmosi, dal disinteresse verso quello che si scrive, e ho parlato della necessità di individuare cosa ci permetta di dirci persone. Ma il disinteresse verso il libro potrebbe essere comunque visto come un disinteresse verso la persona? Per via indiretta credo di sì. Io intravedo un disinteresse verso l’altro. Non l’altro, l’autore, l’altro di cui parlano i versi (il pastore errante, Laura, Silvia etc), che potrebbe essere anche l’autore, ma diventa altro comunque. In questo intravedo un segno di disgregazione del tessuto sociale. Qualcuno mi dirà: lascia perdere la letteratura come chiave di lettura della società. Ci hanno già pensato i naturalisti e può risultare una vecchia e noiosa crisi laterale e poco centrata rispetto alla grandezza di un’opera e ai suoi tentacoli circolari.

E se quel che scrivo non servisse a niente?

Può essere. Magari è come la rosa (se fosse bello come la rosa). E se fosse bello, la stessa domanda me la farei sulla bellezza. (Alla rosa non importa essere guardata dice la poesia di Silesio). Però leggo i versi di altri e mi accorgo che c’è qualcosa di attraente, intrappolato e libero nello stesso tempo, qualcosa che mi fa uscire, come se chiamasse sottovoce lo sguardo e quella voce si perdesse in un confine simile a una cascata, al cadere di tutto. Come se fosse sospeso in quel cadere. Dopo un po’ smetto di leggere. È, per certi aspetti, insostenibile.

Voglio allora essere ancora più drastica: scrivo (o leggo) perché la poesia mi salva la vita?

Perché la bellezza salverà il mondo? Detto in senso generico, non ci credo. Ma la bellezza è davvero una forza, come dicono, tremenda. È sempre sulla soglia (della morte o dell’eternità). Non sta ferma in quell’oggetto e se anche mi comprassi tutte le opere d’arte del mondo, mi porterebbe fuori persino dall’arte. La bellezza apre come un vuoto vertiginoso, una crisi di astinenza (materiale e spirituale perché immanenza e trascendenza non sono separate). La bellezza estetica sparisce dal giovane volto. Mi si potrebbe dire: rimane la bellezza interiore. Vero, ma nella poesia ci vuole sempre la faccia, anche se fossero due triangoli astratti, dalla forma non si sfugge.
Anche volendo attribuire al bello il significato di trascendentale (aspetto che trascende ogni genere o categoria e presenzia in ogni cosa etc), l’arte intesa come intuizione del bello non soddisfa il desiderio, chiamiamolo d’infinito. [Aggiungo una nota: indicare il bello come trascendentale presuppone di approfondire cosa si intenda per trascendentale, cosa che il contesto non lo permette; solo mi occorre citarlo perché mi consente di supporre, in maniera provvisoria, una possibile direzione dell’analisi del bello come aspetto che trascende l’opera, sia in versione mistero/spiritualità atee e/o religiose. La conclusione temporanea che riporto è mia personale ed è conseguente a un piccolo percorso che ho intrapreso e che non è ancora concluso].
Alcune volte mi chiedo se sia sufficiente pure il desiderio di eternità perché potrebbe essere l’eternità della sete o solo l’eternità dell’opera. Un’eternità fastidiosa e inutile. Sete di cosa? Di significato, di senso. È una questione per teologi? Non credo, basti pensare alla morte.
E se pensiamo alla morte, alla malattia, mi chiedo a che serve andare a leggere poesie ai malati, già hanno spalancata la vita nella prossimità del campanello della fine. Da questo punto di vista sono già svegli. A me è capitato che siano stati i malati a risvegliarmi e a guarire la mia poesia dalla presunzione di essere farmaco. Guardare qualcuno che guarda in un punto impreciso dello spazio, mi ha invitato a fare i conti con quel silenzio spaventoso e a sentire, in ogni parola pronunciata, una responsabilità assoluta. Quella che ha a che vedere con la formuletta (presa sempre con leggerezza come fosse un reato d’opinione): risponderemo di ogni parola detta. O ascolteremo anche noi, in silenzio, una parola che raccolga tutte le altre, attorno al suo centro. È la contemplazione dell’attesa in carne viva, per usare un verso di Mujica. Nessuno guarisce nessuno. E la bellezza, in quel caso, non può essere solo un doloroso ricordo della terra. E se fosse una malinconia irritata, come la chiama Baudelaire, del ricordo del paradiso, non avrebbe l’atteggiamento del salvatore, ma solo potrebbe essere un pungiglione, più potente e doloroso della morte fisica. La bellezza salverà il mondo, mi sta bene, ma non per via diretta.
Per questo motivo mi sta bene anche che la poesia sia l’ultima ruota del carro dell’umanità, che stia alla fine. È la posizione giusta. Va letta per ultima, come rete sfondata del giorno, del minuto.

Scrivo quindi per mantenere intatto il bel turbamento?

Sarebbe autolesionismo, meglio staccare la spina alla sedia elettrica e spostarsi su un divano. Non è per nulla comodo scrivere, dire quella cosa. La scomodità, però, è un bel segnale.
Potrei adorare la bellezza come una piccola divinità isterica, non rendendomi conto che l’altare e l’idolo sono io (vi sfido ad adorare onestamente un vitello d’oro o un quadro). Ma neppure mi sento di costruire una piccola torre di babele e fare la sacerdotessa del bene, se non del bello. In pratica bellezza senza salvezza non mi convince. E, mia esperienza personale, non mi salvo da sola.

Scrivo per riportare la mia opinione o visione del mondo in versi?

No, la mia poesia non è intenzionale. A volte penso di compilare un testo con quello che vorrei dire sulla vita, ma capisco che la direzione delle parole non è quella. Il legame con me è altrove. Vorrei scrivere sul fatto di cronaca, ma non ci riesco. Maggiormente piango, maggiormente non riesco. Vorrei appunto consolare un malato, ma non vado oltre il discorsino retorico. Potrei riuscirci, ma verrebbe una schifezza, una sorta di traduzione in immagini sgangherate di ciò che sarebbe molto più semplice dire al bar. O non dire. (differente è l’immagine usata come maschera o “gioco delle tre carte” su ciò che non si riesce a dire, dall’immagine visitata da un riflesso di ciò che scavalca le intenzioni).
Non scrivo neppure per la passione verso la letteratura come tecnica. Non mi importa nulla dell’endecasillabo o del quinario o del sonetto. La tecnica è un problema successivo all’origine della scrittura. Il legame con la tradizione non è un legame con la tecnica, ma con la forma semmai, forse altra cosa.

Ho dimenticato qualcosa? Allora perché scrivere? Perché leggere?

Non riesco a darmi una risposta valida. Sposto la domanda a ciò che invece non prevede talenti o virtù: perché leggere? Per l’attenzione al prossimo di cui dicevo prima? Non può essere questo perché neppure Dio può obbligare un uomo a curarsi di quello che dice un altro. Può solo suggerirlo. La libertà prevede di scegliere e la poesia imposta per via legislativo/scolastico è un disastro.
Ad oggi, la risposta, forse parziale, che sento di darmi è perché è un piacere che tutto comprende, la gioia, il dolore, la noia, la rabbia, il fallimento, l’esigenza di significato, la dimenticanza, il peccato, l’errore, la stanchezza, la depressione, la speranza, il silenzio, la notte, il giorno, le stelle, la fatica, l’infinito, Dio, la morte….
Senza bellezza credo non ci sia poesia, ma nell’attrazione tirannica della bellezza tutto vibra, diventa visibile, amabile. Diventa segno. Senza quell’attrazione non credo riuscirei a scrivere, pena appunto la traduzione in versi di qualche considerazione, per carità, anche profonda, sulle cose, i fatti, gli oggetti, gli incontri. Occorre l’avvenimento della bellezza e i versi vivi che sentono la perfezione della statuaria posa come una condanna, impossibilitati a trovare l’ordine giusto davanti a quel centro abitato e sfuggente. È una questione di visibilità.
Non voglio dire che è un dolce naufragio e banalizzare Leopardi. È come se ci fosse la possibilità di vivere il turbamento come pace viva, sgravata dall’incombere del tempo. È una specie di assaggio di eternità, ma non eternità inutile, eternità come intrattenimento o amaca. Anzi, è come se fosse possibile incamminarsi nella contemplazione. Come se la bellezza, zoppicante e fragile, chiamasse a muovere un aeroplano infantile.
L’arte mi dice che in quel punto, in cui leggo quel verso, io posso ricominciare sempre. È una liturgia, un rito, cioè un avvenimento che può riaccadere e che se ne frega del tempo. L’arte permette di iniziare a muoversi come ha fatto Dante (credo stando fermo alla scrivania). Non è il punto di arrivo. Per questo turba e mette paura ed è la gloria degli incamminati, non dei vincitori. È l’essere chiamati a un destino, una destinazione, perché di lì è passato un verso. (Qui si dovrebbe riflettere fra l’idea del tempo greca come circolare o cristiano/lineare, apparentemente in contrasto, fra la circolarità del mito e la linearità appunto della storia senza ricorsi).
Volevo rifermarmi un attimo sull’arte come bellezza e sulla relazione fra bellezza e salvezza (per chi, come me, non si accontenta della disperazione e prende sul serio la frase “la bellezza salverà il mondo”). L’arte occidentale non è un sacramento, non è Dio o la verità o Sacra Scrittura. Concordo con Maritain che non si può chiedere all’arte quello che ella non può dare. È un risveglio, alcuni dicono dello spirito. Rispetto a questo delicato argomento, ovviamente ognuno ha i suoi percorsi e le sue conclusioni. Per me è un punto centrale e personale sul quale continuerò a lavorare, non tanto per confondere le carte fra arte e ambito divino, ma proprio per liberarla da argomentazioni o dimostrazioni che non è in grado di supportare. Può essere il punto di partenza per altre indagini, ma non nasce come indagine o riflessione filosofica o teologica. In Dante si sente di più il movimento che non l’indottrinamento. Se anche lo fosse, credo lo sarebbe in maniera inconsapevole. L’arte sa e si vede, ma è di più dei concetti.
Dicevo, un risveglio sacro di cui nessuno è testimone. Per questo anche Steiner guardava con sospetto l’eventuale cartina al tornasole che stabilisce cosa possa o meno rientrare nel canone. Ognuno ha paradossalmente il suo (canone). Chi si è occupato di spirito ha detto che lo spirito soffia dove vuole e come vuole. Anche per questo c’è in ogni epoca una parte della tradizione che la risveglia più di altre. L’arte risponde ai desideri più alti quasi amplificandoli e li rende a volte preghiera, a volte derisione o disincanto. Perché nell’arte umana, come in tutto ciò che fa un uomo, c’è una parte di libertà, anche se nel fare arte libertà e obbedienza sembrano toccarsi.
L’arte è la voce della bambina in quarantena che chiede “C’è nessuno?”, voce gelida che riecheggia da palazzo in palazzo e passa come un venticello leggero. Lasciando perdere il legame fra bellezza e salvezza, rimane la dinamica di attrazione e il desiderio di non finire. Chi scrive sa che vorrebbe rimanere per sempre con la rosa che ha pronunciato. Altrimenti tutta l’arte sarebbe un concerto sul Titanic. Amare il turbamento significherebbe amare l’instabilità e la ricerca senza trovare mai. È la droga della profondità. Essere profondi o sensibili a che serve? A percepire più intensamente l’essere fottuti dalla morte? Da qui il vedere in un volto la sua putrefazione o la sua immortalità, fa una certa differenza. Mi viene in mente Jacopone davanti alla moglie morta. La disperazione della superficie, la pura superficie e quello che diventeremo tutti. La carogna di Baudelaire.

Un breve commento ai miei versi

Parto dal fatto che molti versi che ho scritto non li capisco neppure io. Surrealismo? Alcol o droghe? No. Ho incrociato gli studi di Maritain (con una piccola tesi esplorativa) che sostiene l’esistenza (nell’intelletto) di un preconscio dello spirito che non coincide con l’inconscio freudiano e che contempla l’esistenza di una ragione intuitiva che non coincide con la ragione logica (sintetizzare questi passaggi è impossibile, per tale motivo rimando agli studi di Maritain, non solo di estetica). Si può scrivere senza obbedire solo alla ragione logica. In questo contesto posso solo constatare, non come intenzione di poetica, ma come osservazione nell’atto di scrivere, che quando scrivo non riesco a compilare il testo con quello che voglio dire. Vorrei dire quella cosa, invece c’è una tirannia, che non conosco bene, e che mi porta verso direzioni che neppure io vedo prima di vederle nella parola o immagine. Nemmeno le mie credenze religiose mi permettono di completare la poesia con la retta dottrina, chiamiamolo politically correct (ognuno ha le sue idee o ideologie con le quali fare i conti nella scrittura). Risponderò (io) del fatto di avere nominato il nome di Dio invano, per compilare un vuoto il cui silenzio mi ha spaventato.
Raccolgo un esempio fra gli ultimi scritti, in particolare questo testo e mi limito a commentarlo così: se fossi stata politically correct rispetto alle mie credenze e a quello che so, avrei dovuto correggere il testo facendolo diventare un testo più positivo (in particolare sulla valutazione che io do al termine desiderio). O correggere la pagina e tradire il mesto e doloroso (per me) enigma che ne è scaturito, o lasciar respirare, senza vergogna, ciò che sbuca appeso al filo di una parola, tuttavia non sepolto. Le ali di ferro e il volo imperturbabile non riesco a sollevarlo io. In questo caso la mia percezione è che le armi della poesia possano solo o recitare una parte con immagini slegate dall’origine o scavare un’origine già data. È qui che si può diventare spettatori di un movimento, vegliare una nascita. La poesia non riesce a far volare su un’altalena un uccello senza vita e senza morte. E la bellezza? Credo sia l’attrazione verso un bene più potente della stessa vitalità.

Morire nella distanza
nel prato laggiù il colore vola via
il fiore fissa sgomento
l’animale ferito della sua ombra.

O mischiare ogni ora alla cenere
cucinare un pane morente o scavare
dopo che è crollata anche
la propria stessa mano
e l’alato desiderio
dal profilo di rondine
sbuca dalla terra
l’occhio spalancato
senza vita senza morte.

Continuerò a scrivere? Chi può dirlo. Non importa. Ci sarà sempre un verso scritto anche per me e potrò provare il brivido di essere un puro lettore, anonimo, senza identità letteraria, quelli che nessuno saluta e che qualcuno si chiede perché siano lì. Per donare la letteratura o la poesia, bisogna essere capaci prima di riceverla come dono. Relazione molto differente dallo scambio di favori. Per questo non vedo la tradizione come un manuale di meccanismi o esempi, ma un grande dono.

Proprio un amico mi diceva che è bello studiare materie umanistiche anche perché educhi i ragazzi a capire che c’è anche qualcosa che nella vita non rientra nell’ambito commerciale. Non serve appunto a niente (di commerciale). È puro esistere e gratis. Appunto. Ancora mi viene in mente quel vecchio frate Leopoldo Mandic di cui ho letto una frase per caso, inginocchiandomi davanti a un altare vero: “nascondiamo i doni di Dio perché non se ne faccia mercato”. Credo sia una frase solo apparentemente semplice. Anche l’aver capito qualcosa può diventare mercato e le idee stesse sembrano provenire e andar via senza padroni. Anche non aver capito nulla potrebbe diventare un dono, un vuoto prezioso. Dopo averli odiati tanto, comincio anche ad apprezzare, un poco, i lunghi deserti silenzi della poesia (quando non si riesce a scrivere), perché lì gli occhi, abituati alla penombra, dilatano l’attesa. È vero, è una questione di visibilità.

 

nota bio-bibliografica
Francesca Serragnoli (Bologna 1972). Si è laureata in Lettere Moderne e in Scienze Religiose. Ha pubblicato le raccolte “Il fianco dove appoggiare un figlio” (Bologna 2003, nuova ed. Raffaelli Ed. 2012), “Il rubino del martedì” (Raffaelli Ed. 2010) e “Aprile di là” (LietoColle – collana Pordenonelegge, 2016).

 

ph tratta dal film Sacrificio (Offret) – 1986 – scritto e diretto da Andrej Tarkovskij, vincitore del Grand Prix Speciale della Giuria al 39º Festival di Cannes.

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