La punta della matita scava il foglio e lo stesso fa il pennino della stilografica; le dita sulla tastiera esitano ma, poi, il cursore danza sullo schermo.
Quello che nasce sono scintille o piuttosto omuncoli d’inchiostro alla Giacometti che tracciano piste alfabetiche per condensare l’emozione che ci si porta dentro da sempre, dall’infanzia o forse anche da più lontano, da chissà quale galassia, da chissà quale sogno pomeridiano o incubo notturno. Sono tracce obbligatorie, come strade a senso unico o vicoli senza uscita. I poeti sono condannati da sempre a scavare con gli umarell tutt’intorno che contemplano i progressi dei lavori e commentano persino. Condannati sin dall’infanzia a nascondersi dagli altri nello scrivere questi astrusi fumi della sibilla.
Nella contea magica delle lettere, i veri segreti dell’alfabeto prendono una direzione strana, non prevista dalla norma, per cui il sole diventa nero per la melancolia, l’eternità è ritrovata, aprile è il mese più crudele e il naufragare diventa dolce.
Basta poco, una scintilla appunto, e la parola si trasforma: “Poi sarà l’improvviso” (p. 11), scrive Massimo Scrignòli nella sua silloge Lupa a gennaio. Il poeta sembra prendere alla lettera la frase di Baudelaire, nel testo su Théophile Gautier: “Il y a dans le mot, dans le verbe quelque chose de sacré qui nous défend d’en faire un jeu de hasard. Manier savamment une langue, c’est pratiquer une espèce de sorcellerie évocatoire.” (Œuvres complètes II, p. 118): “C’è nella parola, nel verbo, qualcosa di sacro che ci proibisce di farne un gioco del caso. Maneggiare sapientemente una lingua significa praticare una specie di stregoneria evocatoria.” (n.t.).
Quando si crea, innanzitutto, c’è il lavoro (poiein), il lavorìo di cui parlava Giuliano Scabia, e come scrive Scrignòli: “Tuttavia si avanza togliendo” (p. 57). La mano che scava con la penna sa anche cancellare il sovrappiù, il melenso, il contorno, l’evasivo. Il viaggio che pratichiamo, e questa volta da lettori, ci conduce dal porto di partenza (“Scendendo alla nave con la marea”, p. 13) ancorati al calendario, nel mese più freddo dell’anno e, se non il più freddo, per lo meno il più spoglio, dopo aver conosciuto i fasti autunnali ecco la povertà del primo mese dell’anno. Strana questa lupa di origine chariana (se mi si consente questo aggettivo), ci fa pensare, chissà perché (l’inverno?) al lupo francescano, un richiamo alla povertà, ma la poesia che abbiamo sotto gli occhi non è povera, è ricca di evocazioni e di immagini. E in questo paesaggio scarno, bianco, povero, c’è tuttavia una ricchezza di colori inattesi (rosso, nero, blu), ci sono le parole dell’attesa e della scoperta (impronta, spiraglio, tracce), ma la sorcellerie ci trasporta di continuo, gli strati geografici ci conducono dal bosco iniziale ai bordi della Senna e poi verso la periferia di Parigi, si tratta appunto di un “arcipelago in movimento” (p. 33).
Il lettore che segue ogni traccia lasciata dal poeta, come sassolini caduti dalle tasche (il lettore di poesia è come Pollicino smarrito nel bosco), rimane ad ogni spasimo di parola meravigliato dalla forza poetica di questo viaggio, ed è questo il miracolo. Dallo scavare del poeta nasce l’emozione, si tratta di transustanziazione, laica certamente, ma penetrante come un mistero cristiano. “Eppure, ho trattenuto la notte nei contorni più sottili delle sue parole” (p. 47) scrive il poeta e non sappiamo se si tratta delle parole della notte, o di quelle che appartengono ad un tu al femminile, poco importa, l’immagine è densa di suggestioni. Questo è senz’altro il limite del lettore (e contemporaneamente la forza persuasiva del poeta), dover cercare ad ogni costo un significato sotto le parole, invece di lasciarsi trasportare dalla musicalità delle parole. Possiamo intuire, immaginare questo viaggio interiore che si sovrappone tuttavia ad un viaggio reale, ce lo conferma il paratesto: le note finali, le indicazioni del luogo della creazione. Dobbiamo abbandonare nel vestiario delle nostre abitudini, delle nostre ortonimie (che ci riducono la visuale dei nostri pensieri, cfr. il linguista Bernard Pottier), questa affannosa ricerca del perché. Qui, nel testo poetico, siamo fuori norma, i perché non esistono e se esistono sono quelli che non ci appartengono, sono frutti di una scrittura che scava. In questo percorso poetico siamo soltanto gli ospiti, in quanto lettori, di un momento creativo e dobbiamo toglierci gli scarponi rumorosi che abbiamo messo sin dall’inizio per passeggiare su questa distesa di neve. Dovremmo lasciare anche le nostre conoscenze culturali, Nerval, Mallarmé, fare della nostra mente un vuoto, atto ad assimilare i nuovi versi. Il lettore insiste nella sua indiscreta ricerca: lo schema gelido del razionale: la raccolta si apre con una citazione di René Char dove le parole che ci invitano sono poesia, amore e nuova stagione; e si chiude con lo stesso poeta, e altre parole, come un’eco: ogni notte, volto e morire. Poi ci sono i due testi in corsivo che aprono e chiudono il volume: viaggio immobile ci suggerisce la voce narrante: “vado dove sono” (p. 11) ma c’è anche il Tu, c’è la primavera (che presumiamo debba ancora venire), e infine il non luogo impronunciabile, il “luogo silente” (p. 69). Poi c’è la bella copertina del libro (sempre Genette docet) con quei tenui colori invernali, il particolare di un quadro di Nina Nasilli intitolato: Amore.
Questa ricerca destrutturale e prosaica che il lettore si sente costretto a fare per non lasciarsi incantare dalla magia delle parole, per non perdere i propri punti di riferimento, ancorandosi ad un luogo sicuro, un qualcosa di razionale (ma la poesia non è razionale) comunque incerto e scolastico, per spiegare (non si spiega la poesia, lo diceva anche Rimbaud), ci allontana dal fascino intrinseco dell’insieme. È questo che dopo poco il lettore intuisce (ce ne ha messo del tempo), ed è anche per questo che si meraviglia della propria cecità. Se la poesia rimane nell’oceano della modernità sempre più un mondo distante, qui tuttavia, da questa piccola incrinatura (“Quasi un mandorlo fiorito”, p. 23) sul paesaggio nevoso, il poeta Scrignòli ci consente di trasformare l’effrazione sentimentale in puro piacere di fruizione letteraria. La nostra lettura presto abbandona le sirene della spiegazione banale e si lascia incantare dai veri richiami, quelli poetici. Gli elementi che abbiamo tentato di afferrare ci hanno condotto qui, in un’altra dimensione più reale del reale, quella poetica, che attraverso mille piste ci arricchisce, ci rende migliori. Potremmo rilevare gli elementi disforici come malattia, morte, anse inquiete, gorghi, e sovrapporli – o meglio compararli – a quelli positivi (e sono numerosi oltre la pura poesia), ma non avremo cavato un ragno dal buco. Ancorché disturbare questo povero ragno sia cosa poco amena. Ci piace allora immaginare altro, dei passi da gigante da compiere verso un meglio, un momento migliore, passi fatti in un paesaggio incantevole, talvolta duro, difficile certo, ma che lascia qualche speranza futura, una rosa che nasce. Colpisce questo verso profondamente vero: “Dobbiamo avere fiducia in questa lingua che ci parla.” (p. 59). E questa lingua è quella che unisce il lettore e il poeta in un abbraccio, un abbraccio che sa di umanità, di cultura, di curiosità, di crescita. E a mia volta, chiuderò con una frase di René Char, che forse è servita da esergo in un libro precedente di Scrignòli, ma è una frase che dice tutto con poche parole e che traduco direttamente in italiano: “Un poeta deve lasciare tracce del suo passaggio, non prove. Soltanto le tracce fanno sognare.” (Sur la poésie, Œuvres complètes, p. 1301) e ci sembra che questo libro di Massimo Scrignòlì sia proprio un invito al sogno, o al viaggio poetico, ad un benessere onirico che ci può aiutare ad affrontare anche le cose negative dell’esistenza. Questo viaggio poetico anche “dentro le piccole cose” (p. 51) ci regala l’emozione e solo questo merita di venire celebrato. La bellezza di questo libro richiederebbe forse una lettura più approfondita, magari più accademica, ma citerò un altro poeta francese, Jean Bouhier credo, che diceva – e lo sto parafrasando –: “non si spiega il poeta, né tanto meno la poesia, la si vive.”. Il lettore, oggi, con questo piccolo volume, ha imparato a vivere la poesia.
Leggere un poeta, leggere Massimo Scrignòli e la ‘Lupa a gennaio’ (Book Editore, 2019)
René Corona
René Corona (Parigi, 1952) è docente di Lingua e Traduzione Francese presso l’Università di Messina. Ha pubblicato saggi in italiano e francese sulla storia della lingua, la sinonimia, la canzone, la traduzione e la poetica. Ha tradotto diversi poeti italiani, tra cui Gozzano, Caproni, Cattafi, Ripellino, Magrelli; ha pubblicato presso L’Amourier la prima traduzione francese delle poesie di Gesualdo Bufalino, Le miel amer e la prima traduzione italiana del romanzo di Henri Calet L’Italia «alla pigra» (Mesogea, 2011). Tra le opere in francese, i saggi Le singulier pluriel ou «Icare et les élégiaques» (Hermann, 2016), Passage du temps et des courants. L’imagination ô savoir! (Aga-L’Harmattan, 2019); i romanzi, Faut pas faire de faux pas (La Vie du Rail, 2003) e L’hébétude des tendres (Finitude, 2012); le raccolte poetiche L’échancrure du quotidien (L’Harmattan, 2017), Sortilèges de la retenue sous le bleu indigo de la pluie (Aga-L’Harmattan, 2019), Croquer le marmot sous l’orme (Aga-L’Harmattan, 2019). In italiano nel 2019 ha pubblicato i libri di poesia Compitare nei cortili e La conta imprecisa, entrambi per l’editore Puntoacapo.