Per parlare di alcuni testi del mio libro L’alea, in libreria da poco per Giulio Perrone, vorrei partire da un’idea che Orso Tosco, scrittore e poeta, ha speso in occasione della presentazione che si è tenuta a ottobre scorso a BookPride. Si riferisce alla natura de L’alea come libro composto di due libri precedenti, di cui uno è La mente paesaggio, uscito per la stessa casa editrice una decina di anni fa.

Quando in una casa si aggiungono parti nuove e parti vecchie, ha detto Orso, c’è sempre qualche crepa di assestamento, una convivenza di pareti un po’ sforzata: si vede, spesso a occhio nudo, dove la costruzione è stata ampliata. Questo non accade nel libro – a suo dire, bontà sua – e non accade con la vegetazione, il vegetale, gli innesti delle piante, cose vive.

Quest’immagine de L’alea come di un intrico di rami, di intelligenza tra specie vegetali diverse, o come una grande casa composta di parti vecchie e nuove, con stanze in cui forse non si entra da qualche anno, e che la vegetazione lentamente invade e ricopre, mi è piaciuta molto, e mi ha fatto pensare all’immaginario paese abbandonato di Stellaria nel mio romanzo La ragazza selvaggia (Marsilio). Un abitato che il bosco intorno richiama a sé, ricoprendo le antiche case, trasformandole in qualcos’altro che possiamo pensare intelligente e vivo, ampliando qui la definizione comune di intelligenza e di vita. Non so se è quello che Orso intendeva dire, è quello che ho compreso io. Ma è da qui che mi piacerebbe partire per rispondere alla richiesta di questa rubrica.

Il caso e le cause in scrittura si mescolano come intrecci di piante, come rampicanti intorno al corpo di un albero. L’occasione – casuale, causata – di ripubblicare La mente paesaggio, per volontà del suo primo editore, ha dato origine a un libro nuovo, mettendomi davanti a quel processo per cui nel tempo i libri si riscrivono rispetto a chi li ha scritti, e tra sé, anche senza che una sola parola sia stata alterata: entrano in riverbero, in risonanze, in giochi di rimandi.

Ogni nuovo libro riscrive i precedenti. Ho appena sperimentato come questo possa accadere per la prosa, come l’uscita del mio primo saggio, In territorio selvaggio, abbia in un certo senso riscritto i miei romanzi nell’occhio di chi legge (occhio in cui è la bellezza), e anche ai miei occhi. I libri di poesia potrebbero essere più compatti, sassi bianchi per fionda, piccole uova traslucide e perfette. Eppure anche loro entrano in mutazione col tempo.

La mente paesaggio aveva già iniziato da qualche anno a mutare. L’alambicco, diciamo sorridendo, della trasformazione era stata un’altra lingua, con le sue diverse ipnosi, i suoi diversi ritmi incantatori. Lo spagnolo, e la pubblicazione, nel 2016, de La mente paesaggio, con il titolo di Nácar, per Huerga y Fierro, una casa editrice di Madrid. (Nácar, sia detto per inciso, vuol dire madreperla, ed è il titolo della prima sezione del libro).

La mente paesaggio è un libro del lutto, racconta una vicenda privata – mai nominata nei testi e che quindi non è necessario nominare qui, perché ogni opera basta a sé sola – in cui la memoria e l’identità, il sé del soggetto/oggetto, vengono feriti e attraversati da chi guarda, e scrive, e si ritrova in un campo in cui il familiare è più di tutto diventato non-familiare. Dovrà essere nuovamente conosciuto, mettendoci a prova, fino alla prova finale che è il lasciare andare. Questo avviene nell’ultima sezione del libro, che nella prima edizione, quella del 2010, si intitola The mirror.

La mente paesaggio, infatti, termina con queste parole:

dove sei adesso
il sole cuoce il pane
è perfezione

completato il corpo
e tu lingua puoi perderti
qui e non
altrove

E questo accade effettivamente, nella realtà. La lingua tace, si perde. La mia poesia, senza saperlo, si avvia verso un lunghissimo attraversamento del silenzio.
Dopo questo testo che è dell’autunno 2007, i primi versi nuovi saranno di quasi quattro anni dopo, nel 2011, e apriranno una raccolta successiva, Bianco (nottetempo 2016), disegnando un campo – il mondo la mente il foglio – in cui il possibile ricomincia ad apparire.

neve,
tu sei venuta qui,
sei venuta come la neve

questa è la voce, i rami di ciliegio nudi,
la tua voce e ora

ora, nelle macchie di neve
le macchie di sole –

tutto sembra diventato neve sulla terra

Ma torniamo a La mente paesaggio. Ancora qualche anno dopo, nel 2016, esce in Spagna Nácar. Il libro è in edizione bilingue, la traduzione è mia, con la revisione – minima – della poeta cilena Violeta Medina, che lo rilegge prima delle stampe.

Su richiesta dell’editore spagnolo, Nácar si apre con una dichiarazione di poetica, che è questa:
“La poetica è la tua posizione sulla mappa: comunque tu vi sia arrivata, è lì che sei. Sai di esserci. Poi, il percorso che ti porta a quei luoghi può percorrere ellissi, allontanarsi e ritornare; come un’orbita di pianeta, o i movimenti dei nomadi: allora la poetica è forse quel poco che, nello spogliarti di tutto, porti comunque sempre con te.

Siamo tornati a Eraclito; a Schrödinger e agli altri. La mente, il corpo, il mondo coincidono.
Il bianco sulla pagina: è necessario. Per questo, lo vedo adesso, non amo la poesia in prosa, dove lo cancella.
La forma deve tenersi da sola, potersi muovere: come farebbe un corpo.”

Tradursi da sé, in un processo che dura sere e sera di una lunga e bellissima primavera, in un appartamento provvisorio a Madrid dove devo trascorrere alcuni mesi, diventa inevitabilmente una riscrittura. La vicenda della perdita approda a un diverso sbocco.

The mirror cambia titolo, diventa Lo specchio/El espejo, perdendo forse una piccola parte di alienità.

Le ultime poesie della serie restano le stesse, ma è il loro ordine a modificarsi, ora che le ultime parole diventano:

la spiaggia circonda il bosco
in un cerchio
non puoi passare se non dal mare

e il mare si ripete,
lo specchio ripete
superficie
ti dice

adesso mondo,

ti quieta in sonno
tu–isola
coperta di bosco

L’isola coperta di bosco che è il tu prefigura quello che sarà lo scenario dell’ultimo romanzo che ho pubblicato finora in ordine di tempo, l’isolotto greco di Krev ne La metà di bosco (Marsilio 2018), con i suoi misteriosi impossibili incontri, sotto il segno dell’alterazione e del cambiamento, con chi abbiamo perduto; e allo stesso tempo riecheggia, chiudendo un cerchio, con le prime parole del libro, rimaste immutate, quella che è forse l’unica apparizione della parola segreta io, sempre nascosta, nella mia poesia:

tu–io sei quella che rimane
corpo quasi identico
visibilità estrema del da te
non visto,
non per anni
come con naturalezza viene il vento
a muoverti le foglie
nella mano

Il passaggio che lo specchio da sempre apre si richiude, la superficie del mare è quieta, possiamo andarcene, stavolta davvero. I fantasmi della mente – memorie, ricordi – sono corpi, come è corpo la mente, ma possono dissolversi in una spuma di mare, in un vento leggero.

Quando verrà l’occasione di ripubblicare di nuovo, queste poesie, in quello che diventerà L’alea, avrò intanto scritto altre cose. I versi de I legni (Lietocolle/Pordenonelegge 2018), originariamente destinati a formare un tutt’uno con Bianco, e poi per ragioni di circostanze editoriali pubblicati separatamente, versi in cui il colore del mondo torna a imporsi sul bianco:

ritroverai la tua casa
sparsa tra gli alberi
il letto nel legno di ulivo,
il resto
così profondamente nel bosco

stracci di abiti bianchi
tra i rami

improvvisamente, germogli di verde, verdeazzurro
come acqua

sopra quanto è distrutto
sopra quanto è distrutto lo splendore –

La scrittura torna, la poesia intende restare. Tra il 2013 e il 2016 scriverò appunto L’alea, che avrà una versione solo digitale nel 2016, per il progetto ebook di Feltrinelli Zoom in cui pubblico una selezione di cose antiche e recenti, I diecimila giorni. Poesie scelte 1991-2016.

(E anche rileggersi tornando così tanto indietro nel tempo, fino alle primissime prove, è in qualche modo riscriversi, riconoscersi insieme ad altri in quella forma di conoscenza, in cui ogni parola-cosa è intessuta del suo opposto, che è la poesia.)

L’alea si compone di 9 serie senza numero – o meglio numerate tutte come I – più una in corsivo, rosabianca, che allo stesso tempo sta a sé e si intreccia nel corpo del testo di tutte le altre, crea un legame.
Ne L’alea, il mondo è diventato energia, bagliore, lampo di luce, si impone, cerca di farsi strada, si offre a una decifrazione sempre imperfetta ma comunque possibile, perché con quello stesso mondo siamo entangled, siamo in risonanza. La nostra materia, che pure è bagliore, nello stesso tempo e spazio, anche con quella delle stelle più lontane coincide. Qualsiasi cosa sia accaduta a un uno, a un tu-io, non si perde, ma è ricompresa in qualcosa di più ampio, che cominciamo a conoscere anche se forse solo a intermittenza, e può anche darsi che la forma di conoscenza che gli pertiene sia proprio questa.

Per tornare all’immagine dell’inizio di questo testo – e più ampiamente se la richiesta è parlare dall’inizio, e di sicuro questo è un libro-cerniera verso una nuova fase di scrittura che si sta aprendo ed è già in corso – la vegetazione che ricopre il mondo, riassorbendo in sé le bellissime rovine, i luoghi di preghiera e tutta “l’isola coperta di bosco”, ha ricreato qualcosa che ha un’unità.

Un nuovo mondo, per dirla con il titolo della penultima serie de La mente paesaggio, quella che precede immediatamente Lo specchio:

si muove nel bosco che è enorme,
come fosse
casa possibile, col tempo

come una tenda
di pelle di capra, nera,
enorme dentro

vedrai le vie che non vedi
nel bosco che ti sbava sulla pelle

Il nuovo mondo non è un mondo senza di noi, è un mondo-con-noi, ma in una forma diversa. Una probabilità, una possibilità. Un’alea:

tornerai,
non per raccontare,
con le stesse parole
tornerai, ti conforteranno
allora prima di tutto con i corpi

(quelli che svaniscono in distanza
in morte
gli stessi?)

i diventati nella rosa
i bianchi
i convocati alla bellezza
dopo di loro, i morti

morde nello stesso punto
la carne-essere,
le molte carni

tu che dai l’acqua,
in questo dare l’acqua più felice

tutto cambia in quello
che a lui è ghiaccio,
è vapore,

che a lei è acqua

come cade in sé, mare nel mare

la cosa che cade in sé,
(nella parola?)
che diviene
il suo indiviso potere,
ancora e ancora
non di qua l’ombra, di là la luce, ma insieme

la forma è bellezza,
le bellezze,
le molte,
le annoverate alla luce
e poi le stesse, alle ombre

non è?,
o
non appare possibile
come il sole, facendosi giorno

sempre a est,
e tu alza gli occhi,
confida,
per quanto,
ripete

la luce e le ombre
anche senza l’alzarsi del sole
non senza il tuo – (sta per
diventarti, parola)

alzare gli occhi

 

 

 

nota bio-bibliografica

Laura Pugno è nata a Roma nel 1970. È autrice di poesia, prosa, saggi e testi teatrali. Tra gli ultimi libri, i romanzi “La metà di bosco” e “La ragazza selvaggia”, Marsilio 2018 e 2016; il saggio “In territorio selvaggio. Corpo, romanzo, comunità”, Nottetempo 2018, e le raccolte di poesia “I legni”, Pordenonelegge/Lietocolle 2018, e “L’alea”, Perrone 2019. Ha vinto il Premio Campiello Selezione Letterati, il Frignano per la Narrativa, il Dedalus e il Libro del Mare. Collabora con “L’Espresso”, “Elle”, “Le parole e le cose 2”, ed è tra i curatori della collana di poesia “I domani” dell’editore Aragno. Dal 2015 dirige l’Istituto Italiano di Cultura di Madrid.

ph tratta dal film Sacrificio (Offret) – 1986 – scritto e diretto da Andrej Tarkovskij, vincitore del Grand Prix Speciale della Giuria al 39º Festival di Cannes.

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