Può una poetica davvero precedere un testo poetico? Può una scrittura essere davvero indipendente dalla sua intenzione o ideazione? Un campo di possibilità si crea tra la poetica come processo che produce il (e prosegue nel) gesto poetico, e da esso poi si espande, e la pratica, nel senso più ampio di lavoro che include letture, dialoghi, elaborazione, condivisione, ecc. Mi pare che la scrittura prenda forma da una matrice così fitta di relazioni dialettiche tra fare, pensare, desiderare, criticare che non riesco a ricondurla a un ‘inizio’. Paradossalmente ho memoria di certi momenti ‘creativi’ come istantanee indelebili: la tovaglia rossa e bianca su cui scrissi i primi testi di Cuore comune, il tal semaforo al tale incrocio in cui arrivò a superfice quel tal attacco di Bagnanti, i versi di un’altra poesia che risuonavano come un richiamo, espandendosi in me come fossi un hang.

In un piccolo testo del 2019 riconosco almeno cinque tra poeti e scrittrici:

il triste meraviglia,
volere bene stanca,
pure il sole a marzo
spossa, il calcio
sulla ghiaia, polvere
in bocca, terra, realtà,
sfinimento, mentre rido
bestemmiando le ginocchia
«non sei nessuno!»
o «io sono la tua ombra!»

per la settima volta
fulminata del pieno
rovescio di dio,
canino del mondo,
realtà, sfacimento,
che mi hai insegnato a godere

Da George Oppen viene “the sad marvels”, da Lalla Romano “volere bene stanca”, la nessunità è di Dickinson, il dio “canino” del mondo è di Di Ruscio, la figura che lavora nell’ombra, suppongo, da Virginia Woolf. La bestemmia è da una poesia che scrissi più di dieci anni fa. La partita a calcio dalla mia infanzia. Lo sfinimento, lo sfacimento: potrei quasi giurare di averli presi dalla bocca di chi so io, se non fosse che le parole sono di tutti. Possiamo chiamare questi momenti ‘inizio’? O l’incubazione è così lunga e laboriosa che non si tratta che di squarci in quel che va chiamato, piuttosto, ‘risultato’? La scrittura poetica è un linguaggio così saturo di scambi, studi, incontri, persino furti, che per farne la genesi servono, quando ne vale la pena, monografie. Qui, molto più umilmente, posso parlare di alcuni meccanismi, qualche espediente di artigianato, una manciata di suggestioni. O, visto che c’ero/ci sono, della cosa enormemente amata da arrivare così compressa e poi espansa nei dettagli microscopici della lingua da non essere neanche più mia. Essere la forma che ho fatto al mondo, che se ne va per il suo. Certo, di per sé non garanzia di ‘bello’, ‘valido’ o ‘interessante’, come qualsiasi poesia.

Qualche tempo fa introducevo la sezione “Car Wash” del mio ultimo libro, Terzo Paesaggio, in questo modo:

(Ho scritto questi testi dopo la morte di mio padre, avvenuta nel 2012. Le fantastiche macchinazioni che la medicina aveva congegnato per il suo corpo non bastavano più. Lo penso come un uomo di natura e di macchine: aggiustava motori, lavorava la campagna, scriveva racconti, canzoni, lettere, persino strane sceneggiature. E con tutto questo cosa vorrei dire? Un dire eccessivo e insufficiente. Aveva nevicato molto quell’inverno.)

Quando ho avuto il libro in mano mi sono pentita di questo gancio biografico. Rileggendomi trovavo insopportabili le piccole pretese di spiegazione che avevo inserito in questa e altre due parti del libro. Ringraziavo di aver scritto qualcosa di abbastanza sgangherato da essere ben misera chiave. Non mi perdonavo di aver evocato mio padre per invitare a una sorta di comprensione delle poesie, così dense, non conciliate, opache, piene di frammenti, organizzate in una sequenza tutta figurata: perché mai volevo che fossero capite come si capisce qualcosa di semplice? Oggi ho fatto pace con quel mio gesto, probabilmente goffo, forse fatto in nome della stessa velleità con cui si socializza un libro. Ripenso a “Car Wash”, un titolo freddo, simbolico e personale al tempo stesso: per quel che evoca di bravi guidatori presi a lucidare l’auto di domenica – l’ordinario che diventa compassione –, dei meccanismi futili del rinnovare la macchina-lingua, la macchina-corpo, e, nella mia vicenda, meramente, per quanto mi riporta all’officina di mio padre, al suo magazzino ricambi, al suo odore d’olio e metallo. È interessante ora fare questa archeologia del testo e scoprire quanto ogni spazio, ogni trattino, citazione, rientro, spezzatura siano testimonianza di quel grumo dolente e intricato che è l’intero dell’esperienza esistenziale, una grafia che coi suoi strumenti semplici attraversa gli episodi, le parole, le percezioni, la polpa e gli oggetti per farne sedimenti antichissimi, di cui la biografia non è che un pretesto, la realtà, un resto.

6

È il magazzino di pezzi di ricambio
da bambina che va indietro, fa eco

eco di me,
coeva di:

           un medico
           che prescrive il lavaggio,

           stare a cena da Massimo e Daniela,

           la macchina nel fosso,

           Nadia dice “c’è
           qualcosa ancora prima,
           più di te, chi
           non sei mai stata”

– muschio tiepido – crogiolo – lamiera arroventata – tornio –
pezzo in rotazione – pistone – dita a noce – diòspiro – nome –

No
non è permesso
non-ritorno

quel fantasticarla –

         “non puoi parlare facilmente
          da premesse d’esistenza dissestate”.

Venne mio padre con una corda.
Trainarla.
Vennero a lavarlo.

Il tunnel di lavaggio è anche il tunnel del linguaggio attraverso il quale i meccanismi del racconto e dell’espressione potrebbero funzionare, ma non vogliono farlo (o forse non possono davvero più, non da qui, non da me). Non volevo narrare ‘una storia’, comunicare ‘un dolore’, ma restare nelle pieghe di quella storia, nelle increspature intime dove si aggrappano percezioni, gesti, scambi, tocchi, carichi del loro singolare avvenire materiale, senza la linearità, la sintassi, la trasparenza, l’economia linguistica che universalizza. In sé niente di male, intendiamoci (noi ci parliamo, noi tentiamo di capirci, di essere ‘sinceri’, ecc.), ma la comprensione non comprende ciò che non sa pensare. Quello può provare a farlo la poesia, nelle sue vie negative, col suo pensare inscritto nel gesto specifico, con la sua modalità forse olistica, forse illusoria. Molti di questi testi parlano già di questo meccanismo. Premere il tasto ‘invio’ come a supplicare uno straccio di spazio d’ascolto. Lasciare il bianco intorno come una camera d’echi. I versi come macchinine automatiche, da ricaricare ogni volta all’indietro. Le strofe come rettangoli neri in cui inscrivere questa o quell’altra ‘voce’ (‘amica’ – qui di seguito, tra le altre, nella citazione in prosa, quelle di Gherardo Bortolotti e Paolo Zublena su Giuliano Mesa – o ‘nemica’), e con loro le voci non meno fantastiche, quasi leggendarie, della vita ‘reale’.

 

8

“Era perfetta la tavola, e perfetta la notte quando siamo usciti”
con le migliori intenzioni, intavolati di noi stessi,
perfino i rettangoli coi segni neri casualmente interrotti

scritti e inseguiti sui tasti,
come macchine elettriche, giocattoli
perfettamente semplici
caricati da rincorsa indietro,
abbrivio pazzo, pazzi.

Dopo cena, fuori, fatti i nomi di chi aveva valore,
percossi, soffiati in conche magiche,
fuori, deflagrati, in un nome siamo rimasti
aria, a vibrare.

Coi parenti-poeti più deboli
disposti ridicoli in schiere,
frumenti ammalati a drappelli
le teste pesanti che oscillano

né arco né frecce, appena le ossa
avevamo a cadere

 

9

(la notte, ore 2:00, che ho chiamato –
“la macchina è caduta
per sbaglio” –

hai citato Somerset Maughan
– “d’improvviso ebbe un sussulto
segno che s’era addormentato” –

sognai dopo
che eri chiuso
in un baco

dimmi –
hai detto –
dimmi –
“Arrivo”)

 

10

né arco né frecce
avevamo a

forse per questo torna a capo il verso,
eccolo, astratto e obbligato,
bianco il suo ultrasuono

cadere
caduto.

Forse è per via della guerra
cieca, cellulare, centro
muto, mutante

silenzio, madido d’amnio
di uomo o

liquido per auto.

Intanto vado sotto quando parlo
di un fratello
– “tuo” “fratello” già quasi un abuso –
di un padre inanellato
– “mio” “padre” già solo un anello –

               era pieno di?
               amò tantissimo tanti?
               o qualche posto tipo?
               Uganda?
               l’isola di Ùgljan?

Liste sospese
poco altro è permesso

– questo è più attendibile: perché l’amò tantissimo?

il resto

prima di questo neanche sapevamo di esistere, quale punto di vista avanzare, come il soggetto prende forma, in che modo sa intrecciarsi al singolare, a chi sta attorno, le comunità di ascolto, la memoria culturale, e quali strumenti usa chi interpella / è interpellato, il repertorio, proprio e negoziato, la traduzione, come camera oscura, la procedura citazionale, le altre voci come casse di risonanza, l’importanza d’una “poesia materialista (corporale), politica (etica) e tragica (dolorosa)”, eccetera

fa un nodo

poi il testo è solo

lui solo maggiore e sono

100 millimetri buoni di neve

le macchine sepolte.

Assillare il testo, rovesciarlo, prosciugarlo, espanderlo, spezzettarlo, tormentarlo, attraversarlo di molte voci: è una ben strana forma d’amore, ma è la più fedele che conosco.

 

nota bio-bibliografica

Renata Morresi traduce, scrive saggistica e poesia. Tra le sue raccolte, Terzo paesaggio (Aragno 2019), Bagnanti (Perrone 2013), La signora W. (Camera verde 2013), Cuore comune (peQuod 2010). Nel 2015 ha vinto il premio del Ministero dei Beni Culturali per la traduzione di poeti americani moderni e post-moderni. Collabora con Arcipelago Itaca Edizioni, per cui cura la collana Lacustrine. È nella redazione del lit-blog Nazione Indiana.

 

ph tratta dal film Sacrificio (Offret) – 1986 – scritto e diretto da Andrej Tarkovskij, vincitore del Grand Prix Speciale della Giuria al 39º Festival di Cannes. 

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