Dentro il “Crocevia dei cammini” di Luca Pizzolitto. “Una ricerca che scandaglia l’intero orizzonte in cui siamo immersi”.

lettura di Biagio Accardo 

 

Non sapere né quando né come/ giungerà salvezza.

Sono questi alcuni fra i versi centrali della nuova raccolta poetica di Luca Pizzolitto, che ha un titolo emblematico: Crocevia dei cammini (Casa Editrice peQuod), un titolo che apre a diversi significati e letture: vi si può sottendere la condizione di chi, trovandosi di fronte a certi bivi della propria esistenza, vive la condizione del dubbio, del dissidio, per le scelte che dovrà compiere, ma anche della consapevolezza dolorosa che sempre insorge quando, chiamati a scegliere, sappiamo di dover dire addio a qualcosa o qualcuno, scoprendo così come ogni scelta altro non sia che una sorta di amputazione di una parte di noi, a favore di un bene o di una prospettiva che crediamo migliori o necessari.

Già sottolineare questa condizione cui il cammino conduce (scegliere infatti significa sempre mettere a soqquadro la vita) ci dice della sensibilità dell’uomo e del poeta, oltre che della profondità tematica della sua stessa poesia, soprattutto se viste in rapporto ad un’umanità che procede in modo sempre più frenetico, che tutto consuma, aborrendo il vuoto o il silenzio come esperienze interiori per meglio provare a comprendersi; un’umanità che ha un’insaziabile fame di parole e che dunque ne divora continuamente, senza che nessuna costituisca la pietra angolare su cui provare a radicare il suo essere più profondo.

Non è il caso di questa poesia, asciutta e tesa nei suoi moduli espressivi, a volte afasica per scelta, deliberatamente reticente, in certi passaggi, nell’offrire risposte facili, ovvie, a domande esigenti, come quelle sul senso dell’essere stesso e del tempo, domande per le quali non esistono più parole definitive, quasi incise su tavole di pietra, ma solo parole perdute, abusate, che rendono il cuore uno “spazio disabitato”. Questo non significa che nei versi di Luca non vi sia ricerca ontologica, anzi, questa innerva ogni verso e ogni poesia del libro, ed è una ricerca che scandaglia l’intero orizzonte in cui siamo immersi, quello della sostanzialità della stessa realtà e della nostra interiorità.

Il libro, che si compone di cinque sezioni ( E dire che non è fame, Il resto mancante, Secondo piano, interno notte, Appunti dal deserto, Il vuoto e le altre forme) sembra avere, ad una prima lettura, una inclinazione a vedere, come predominante, la mancanza di un fondamento nell’essere, ovvero palesare una concezione nichilista, visto la prevalenza di certi termini ricorrenti, quali vuoto, nulla, niente…  Tutto ciò finisce per accostare questa poesia, sul versante tematico, alle grande lezione del Leopardi, a quella, più recente, di Montale, e ad  uno dei libri più intensi e interroganti del Vecchio Testamento, il Qohèlet.

La questione sul vuoto ontologico, ovvero sulla mancanza di un fondamento dell’io è al centro di un celebre saggio di Yves Bonnefoy, La sfida occidentale della poesia, nel quale, parlando della ricerca filosofica del suo tempo, il poeta francese dice: “…la nuova filosofia considera che siamo solo una forma della materia, e che non c’è nulla in noi che possa essere definito sostanza d’essere, parcella di verità trascendente (…). Ma se le cose stanno così, vi rendete conto delle conseguenze, devastanti, per la poesia….?” (L’opera poetica, I Meridiani, pag. 1268).

Non è, questa, affermazione di poco conto, anzi essa chiama in causa il senso stesso della parola poetica, della sua creazione e del suo ruolo nella fondazione della realtà stessa, questione centrale anche nella poesia di Pizzolitto, il quale, nel professare “l’eterno cercare del mondo”( mentre “fuggiamo da noi”), dice anche del desiderio di “trovare frammenti di fede/ tra gli oggetti lasciati alla polvere”.

L’uso frequente di elementi deittici, così come di certe preposizioni articolate ( nel, in, nella…) ci consentono di entrare in uno scenario nel quale la parola poetica esercita una duplice funzione: da un lato essa indica una sorta di radicamento, di confinamento o di prigionia (lo “stare inchiodati ad un istante”, lo “spostarsi verso crocifisse lontananze”), dall’altro, invece, un approdo lontano, una sorta di “casa” o dimora in cui “tutte le cose volgono (o desiderano volgere) a compimento”.

Tra questi due poli si svolge tutto l’opera poetica di Crocevia dei cammini, che non è una raccolta di poesie, ma un percorso unitario attorno ad una ricerca tematica.

Non mi pare di andare lontano se dico che quella di Luca è una poetica tutta incentrata sulla nozione e sulla lezione di “finitudine” che abbiamo ereditato da Bonnefoy, lezione grande e salutare per tutta la poesia occidentale. Ma come nel maestro francese il termine non è indicativo di una parola che abdica alla propria responsabilità nei confronti di se stessi e del mondo, così anche in questo libro perveniamo ad una nuova centralità, ad un nucleo valoriale, che si delinea come un abbraccio verso la stessa fragilità dell’esistenza, un abbraccio sostenuto dall’esilità di una parola attenta e misurata, che non vuole sostituirsi al dolore, né narcotizzarlo, ma quasi sceglierlo, quasi amarlo, per scorgervi dentro, come dice il poeta stesso, “una traccia di salvezza”.

Sarebbe però fuorviante immaginare una poesia che ha già davanti a sé i suoi punti di saldezza, al contrario la versificazione è tutta attraversata da una tensione ossimorica che spiazza ed interroga (andare in pezzi, fiorire un mattino) e il procedere, più che un percorso di tappe prefissate, appare un continua esperienza di naufragio verso “nuove/disabitate lontananze”. E come un naufrago, il poeta posa il suo sguardo lucido sul paesaggio desolante del mondo, dove “l’eco ostinata del vuoto/ è un peso greve sul cuore”, uno sguardo quasi anti – lirico; poi, da qui, mediante l’uso di verbi significativi come cedere, cadere, andare a sbattere, scendere, marcire…, i versi sembrano dirci che la sete per la  vera conoscenza potrà essere placata solo da un processo di “elisione identitaria”, una sorta di necessaria abrasione dell’io, un “cedere lento all’ebbrezza dei naufraghi” al fine di “un dolce restare dentro tutte le cose”.

Davanti allo sguardo del poeta non c’è un mondo preordinato, una realtà dotata di senso, ma solo un “paese di pietre e rovine”, una realtà che non ha consistenza, dato che nitida è la “percezione inesorabile della deriva di noi, del tempo, di tutte le cose”; si tratta di un  paesaggio in cui l’unica memoria che resta è quella del “vuoto”, dell’annichilimento di tutto ciò che è e che c’è, visto che la presunta direzionalità che guiderebbe il divenire altro non è che uno “spostarsi verso nuove crocifisse lontananze” o, se si vuole, verso un “domani senza destino o attesa”.

Uno sguardo così disincantato non trova compensazione neanche in un disegno provvidenziale, in una dimensione di fede: i cieli verso cui l’uomo potrebbe alzare lo sguardo sono, infatti, “colmi di rabbia” e Dio è un essere chiuso in un “ostinato silenzio”, tanto da lasciare  l’uomo solo davanti al suo destino, davanti ai “crocevia dei suoi cammini”. Ecco perché Luca, quasi a metà del libro, scrive: “Nessuno verrà a dirti/ciò che manca”, investendo l’uomo di tutta la responsabilità di trovare una risposta alle sue domande esistenziali.

Seguendo il percorso del libro eccoci nei pressi dell’io. Non si tratta del luogo agostiniano dove l’uomo, trovando se stesso, trova anche Dio; no!, questo è un luogo diverso, anzi un non-luogo, uno spazio indefinibile, una costruzione identitaria fragile e temporanea che l’uomo erige con “avanzi di parole”, anzi, con uno spreco di parole che nulla più significano. L’io, al contrario, esige sempre  una parola che ne plachi la “fame” e la “sete”, e così il poeta, liberandosi da ogni artificiosa costruzione del sé, prova a recuperarne la nozione autentica attraverso una spoliazione interiore portata fino allo stremo, quasi uno “scendere fra le foglie” per “lasciare spazio al cielo”.

Si tratta di quella precisa  volontà di fare il vuoto dentro di sé,  ovvero di “andare in pezzi”, ma per meglio poter “fiorire un mattino”, volontà che ci fa pensare tanto alla mistica di Meister Eckhart, per il quale l’uomo, per incontrare veramente Dio, non ha altra scelta che quella di liberarsi da tutte le sue rappresentazioni.

E dunque non stranizzi questo procedere ascoltando “la voce di un abisso/ senza nome”, questo “avere a che fare con la notte”, o in una “fede nel niente che rimane”. Quasi riecheggiando l’esperienza mistica di San Giovanni della Croce, il poeta esprime la sua fede in un buio in cui  “prende fuoco il cuore,/arde e consuma nel niente la vita” . E procedendo in questo esercizio, al fine di “essere nudo in questo/nudo niente”, si giunge  al nodo centrale di una poetica che pone il problema della conoscenza vera, una conoscenza che non si accontenta di riposare sull’oggettivazione del reale (anche in questo si nota la vicinanza a Bonnefoy), ma vuole comprenderlo (nel senso di abbracciare, di contenere) ricorrendo all’esperienza tutta luziana dell’”ardore” o di quella  “speranza senza oggetto” che innervava la “fisica perfetta”  de La barca. Sì, non c’è dubbio che è a quella dimensione che rimandano il desiderio di diventare “luce nella luce” e di ardere come un “ceppo/ di legna secca fino all’ultimo centimetro/ di amore possibile”.

Ecco, siamo così ritornati ai versi iniziali da cui siamo partiti (Non sapere né quando né come/ giungerà salvezza): solo l’uomo che ama, infatti, sfugge al dilemma del divenire, è libero dall’inerzia di chi attende una risposta, sa di fare di quell’esperienza l’unica lezione in grado di dare senso al tempo e alla propria vita. Ed è nell’esperienza dell’amore che i ristretti confini dell’individualità si affievoliscono e scompaiono per far posto ad una comunanza semplice e immediata con tutte le cose.

Ma è con espressioni come queste: “Forte ed eterno è l’amore” (forse echi del Cantico dei Cantici) e  “ niente cede/niente muore davvero”, che Luca sembra dirci che è solo nella scelta di amare che possiamo provare a spegnere la fame e la sete che mai danno riposo all’uomo. E l’amore non è una dimensione che si oppone alla conoscenza, anzi ne è  fondamento, dato che è solo in un rapporto con un Tu che possiamo conoscere e riconoscerci (“Tu che al giungere del giorno/ fiorisci e fai fiorire/ questo mio corpo(…)/ tu che distruggi il morire…”). È vero, Luca non si nasconde la verità, tutto il resto è mancante, ma possiamo riempire il Vuoto e le altre forme, con l’unica forma che non prende misura dalle altre, ovvero con quella dell’Amore. Mi vengono qui in mente i versi di Davide Maria Turoldo: “Vivi di noi./Sei/La verità che non ragiona.//Un Dio che pena/nel cuore dell’uomo” (da, O sensi miei…). C’è una verità fondamentale in questi versi: più che preoccuparci dell’esistenza o meno di Dio, ciò che ci interpella, come esseri umani, è l’inverare nella nostra carne i caratteri di una simile prospettiva, caratteri che sono quelli dell’amore, della tenerezza, della prossimità, del sentirsi in armonia con ogni elemento del creato.

Ed è per questa esigenza che sento molto vicina la lezione poetica di Crocevia dei cammini, perché si tratta di una parola che vive il compito primario di “portare in salvo le cose”, che non si ferma a vedere freddamente, ma spinge, nonostante il cielo a volte sia chiuso, a essere noi il volto possibile di un Dio “che è/ e che diviene,/ nel grato abbandono/ di ogni uomo che/ illumina il mondo/ -sottovoce-/ quasi senza sapere.  

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